
Comprendere questo punto è cruciale, perché una volta colto si può iniziare a comprendere come la teorizzazione contemporanea sia strutturalmente affetta da una inconsapevole cecità. Infatti le due teorie in questione vengono presentate come complementari e mutuamente esaustive.
L’approccio deontologico kantiano si presenta come la forma fondamentale di sostegno ad un’etica dei diritti e dei doveri fondata su una legge naturale.
L’approccio utilitarista si presenta come la forma argomentativa principale a sostegno della pratica economica corrente, con le sue valutazioni costi-benefici fondate sul concetto di utilità personale.
Le due impostazioni danno l’impressione di coprire l’intero spazio teorico delle alternative etiche oggi intelligibili. La teoria kantiana è un’etica del movente a priori, indipendente da valutazioni delle conseguenze future, mentre l’approccio utilitarista si presenta come un’etica del movente a posteriori, legato alla realizzazione futura di certi esiti. La prima è una teoria delle ragioni per agire governata dalla loro origine a monte, mentre la seconda è una teoria delle ragioni per agire guidata dagli esiti a valle. La prima si pone come una teoria definita fondata nella ragione, la seconda nella sensibilità. La prima si concentra su ciò che è giusto, la seconda su ciò che è bene.
Schematicamente, il kantismo e l’utilitarismo hanno rappresentato rispettivamente le due basi etiche più influenti per una “teoria dei diritti dell’uomo” e per una “teoria del progresso economico”, che sono le principali articolazioni etico-politiche accreditate nell’occidente contemporaneo.
Entrambe queste teorie sono tuttavia cieche alla realtà storica, al radicamento dei comportamenti nei costumi e negli abiti.
Sia il kantismo che l’utilitarismo presentano formulazioni teoriche centrate sulla decisione individuale autonoma, con pretese di universalismo sovrastorico, che le rende comode da maneggiare nel contesto dell’odierna cultura liberale. Il punto chiave qui sta nell’esporre per linee interne i punti ciechi, inavvertiti, di questa diarchia egemone.
Quale rilevanza assume, nel panorama delle impostazioni etiche, l’approccio kantiano?
L’approccio kantiano è naturalmente una delle più importanti fonti d’autorità nel ragionamento morale della modernità. Questo non significa che sia la fonte più influente – molto più influente sul piano quantitativo è stato l’impianto utilitarista – ma è una fonte influente proprio perché fornisce un’alternativa al modello utilitarista, alternativa che conferma, suo malgrado, la cornice antropologica dell’utilitarismo. L’uomo kantiano è un irriducibile individuo che all’interno del proprio foro interiore lotta tra le inclinazioni al perseguimento del proprio piacere e l’adesione ad una norma razionale astratta. Ciò che manca all’uomo kantiano, manca anche all’uomo utilitarista: è assente proprio ciò che è sempre stato, fino all’avvento della ragione liberale, il cuore dell’etica e della morale: il costume sociale, la tradizione vissuta della comunità storica. Kant fa il gesto di ripudiare ciò che considera essere il naturale egoismo dell’uomo, solo per immaginare un altro spazio parimenti autoreferenziale, in cui l’individuo isolato dovrebbe pervenire al “buon giudizio morale”. L’etica è disaccoppiata dalla dimensione intersoggettiva, interattiva, dialogica.
Che legame esiste tra Kant e la fondazione dei diritti umani?
L’impianto teorico kantiano è un impianto di diritto naturale fondato su una specifica idea di ragione a priori. Quest’impianto di origine illuminista si può rintracciare già nei primi riferimenti di “diritti dell’uomo”, sulla scia della Dichiarazione d’Indipendenza americana (1776) e della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino (1789).
Ma il contesto politico ed operativo di quelle dichiarazioni ne limitava il carattere astratto: dopo tutto erano entrambe dichiarazioni con pretese sì universali, ma rivolte a popolazioni nazionali e intese come coronamento di specifiche battaglie nazionali. Con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 il livello di astrazione fece un salto di qualità, proprio per l’intento pienamente universalistico: non era più inteso come atto interno ad un paese, ma come intesa sovranazionale (per quanto a guida americana).
In questo caso la teorizzazione della deontologia kantiana fornì la cornice iniziale per la fondazione dell’idea di un “diritto umano”. L’articolo inaugurale della Dichiarazione del 1948, con il suo riferimento a esseri umani che nascono liberi ed eguali in dignità e diritti, e che sono dotati di ragione e di coscienza ha un’evidente risonanza kantiana. La pretesa dell’esistenza di diritti (e dunque doveri) universali, naturali, e dunque indipendenti da ogni storia ed ogni cultura è idea da sempre altamente problematica. Questo perché il diritto è una norma, e ogni norma fa riferimento ad un normante e ad un normato, dunque a soggetti particolari, istituzioni particolari. L’impostazione kantiana fa apparire all’orizzonte la possibilità di immaginare delle norme (degli imperativi) che apparentemente non hanno bisogno di essere prodotti da nessuno, e che non si rivolgono a nessuno in particolare. Si tratta di un’operazione che immagina un diritto che non dipende dalle parole in cui è scritto, non dipende da concetti ed esperienze condivise, né da interpretazioni specifiche ma che è, per così dire, estratto puro ed eterno dalla natura stessa (ovvero, dalla natura razionale dell’uomo). Le enormi difficoltà di questo approccio hanno trovato una copertura nell’autorevolezza teorica dell’elaborazione kantiana.
Quali limiti emergono all’interno della riflessione morale contemporanea dall’esame critico da Lei condotto sulle due più dibattute impostazioni contemporanee?
I limiti di queste due impostazioni sono numerosi e specifici.
L’approccio kantiano produce un modello astratto che finge inflessibile autorità, mentre di fatto è straordinariamente manipolabile proprio a causa della propria astrattezza. L’esempio delle strumentalizzazioni della nozione di “difesa dei diritti umani” con finalità geopolitiche negli ultimi trent’anni è manifesto: l’attenzione selettiva a certi diritti violati e non ad altri, o l’interpretazione specifica di alcuni atti come violazioni e non di altri, sono qualcosa che l’astrattezza di un impianto come quello kantiano consente e rispetto a cui non allerta. L’atteggiamento intransigente del kantismo si ripercuote in forme di assertorietà normativa dogmatica nel momento in cui si passa da un’autoanalisi della “buona intenzione” (che è l’obiettivo primario di Kant) ad un’obbligazione rivolta al comportamento altrui (individui, comunità, stati) In questo senso, per quanto in forme lontane anni luce dalle sue intenzioni, l’impianto teorico di Kant ha fornito armi teoriche per difendere una concezione astratta del giusto e dello sbagliato, concezione che poi è stata assoggettata e strumentalizzata sulla base di rapporti di forza che ben poco hanno a che fare con la visione kantiana.
L’approccio utilitarista è, in effetti, ancora più ricco di problemi. La sua influenza si radica nel fatto di essersi innestato come giustificazione morale all’interno della teoria economica neoclassica (a partire dalla rivoluzione marginalista). L’utilitarismo lascia pendenti tutti i punti eticamente più qualificanti. Innanzitutto esso non è in grado di chiarire come si debba valutare la “massima felicità” o il miglior compromesso tra “piaceri e dolori”. Poi manca di spiegare come si dovrebbe identificare il piacere, il dolore, la felicità, o l’infelicità in una comparazione tra soggetti diversi. L’utilitarismo è inoltre razionalmente impossibilitato a produrre un realistico “calcolo” delle prospettive future e dei loro vantaggi o svantaggi. Tutte queste gravi limitazioni teoriche sono invero trascurate perché tali problemi appaiono “risolti” affidandosi alle valutazioni, comparazioni e computazioni economiche della moderna società capitalistica. L’utilitarismo è così divenuto l’ideologia di accompagnamento dei moderni meccanismi di mercato, della valutazioni “costi-benefici”, ecc.
Mentre il kantismo ha finito per dare copertura a rapporti di forza politica travestiti da “diritto naturale” l’utilitarismo ha finito per dare copertura a rapporti di forza economica nobilitati come razionalizzazioni del dolore e del piacere.
Ma più grave di queste specifiche limitazioni è l’operazione di occultamento in cui queste due teorie cooperano, in quanto la loro egemonia di fatto ha oscurato il cuore dell’etica, cioè la maturazione intersoggettiva e storica delle forme di vita (il mos, l’ethos). L’egemonia raggiunta da queste diade teorica ha creato le condizioni per una durevole “diseducazione etica”, per l’abbandono della capacità di comprendere forme di vita diverse, di dialogare con punti di vista realmente differenti, di prendere sul serio il ruolo del passato, degli abiti collettivi, di una ragione che non sia contrapposta alla sensibilità.
Andrea Zhok si è formato studiando e lavorando presso le università di Trieste, Milano, Vienna ed Essex. È attualmente professore di Filosofia morale presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano; collabora con numerose testate giornalistiche e riviste. Tra le sue pubblicazioni monografiche ricordiamo: Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo (Jaca Book, 2006), Libertà e natura (Mimesis, 2017), Identità della persona e senso dell’esistenza (Meltemi, 2018), Critica della ragione liberale (Meltemi, 2020).