“Il Divo e il Duce. Fama, politica e pubblicità nell’America degli anni Venti” di Giorgio Bertellini

Prof. Giorgio Bertellini, Lei è autore del libro Il Divo e il Duce. Fama, politica e pubblicità nell’America degli anni Venti, edito da Le Monnier Università. Dai primi anni Venti fino alla morte prematura di Valentino nel 1926, Mussolini e Valentino godettero, negli Stati Uniti, di una forma dissimile, ma comparabile, di popolarità: in che modo Mussolini riuscì a imporsi all’attenzione americana?
Il Divo e il Duce. Fama, politica e pubblicità nell’America degli anni Venti, Giorgio BertelliniPer capire la popolarità di Mussolini bisogna considerare almeno due elementi, emersi prima della Marcia su Roma e totalmente indipendenti dalle azioni o dai piani del Duce. Il primo è la formazione dell’ufficio propaganda del governo americano, istituito dal presidente Wilson una settimana dopo la dichiarazione di guerra alla Germania (6 aprile 1917). Denominato Committee on Public Information, il CPI, funzionò come una sorta di agenzia di pubbliche relazioni, con vari dipartimenti (stampa, cinema, fotografia, poster ecc.), tutti indirizzati a perorare l’unità nazionale, il buon fondamento della causa, l’odio per il nemico. Dotato di un budget di 100 milioni di dollari, il CPI promosse una quantità e una varietà di iniziative senza precedenti. Queste includevano un bollettino quotidiano con una tiratura di 100.000 copie, 75 milioni di opuscoli distribuiti gratuitamente, migliaia di manifesti e vignette fatti avere alla stampa con obbligo di pubblicazione, l’uso di 75 mila oratori, i cosiddetti «uomini dei quattro minuti», addestrati all’incarico di pronunciare brevi discorsi sui temi cruciali del momento durante gli intervalli degli spettacoli cinematografici. E potrei continuare.

Le proteste contro quest’ufficio propaganda ci informano anche del suo impatto. Venne accusato di aver creato un pericoloso «culto dell’eroe» a vantaggio di Wilson che portava all’espansione anti-democratica e anti-repubblicana dei poteri del presidente, contro i limiti previsti dalla costituzione. Dobbiamo ricordarci che Wilson aveva vinto il suo secondo mandato nel 1916 promettendo di non immischiare gli Stati Uniti nel conflitto «in Europa», come era nota allora la Grande Guerra. Il CPI aveva il compito di giustificarne il cambio di rotta. Perché questo è importante? Perché mostra come in America, poco prima della Marcia su Roma, si fosse imposto un precedente assai eclatante alla celebrazione di un leader politico (che fra l’altro non aveva nulla dell’estro retorico e della personalità di un Teddy Roosevelt) a celebrità pubblica, onnipresente sulle copertine delle riviste, nei filmati dei cinegiornali e nei manifesti pubblicitari. E il collegamento con l’Italia non è solo morfologico, se così possiamo dire.

La fama di Wilson come leader carismatico attraversò il mondo. Arrivò in Italia, prima delle delusioni del trattato di pace. Basti pensare che Il Popolo d’Italia, il giornale di Mussolini, arrivò addirittura a definire Wilson con un termine che di lì a poco Mussolini vorrà solo per sé. Sulla prima pagina del numero del 10 ottobre del 1918 Il Popolo d’Italia lo definì «Il Duce supremo dei liberi popoli». Qualche anno dopo, la popolarità americana di Mussolini (che non era affatto un politico grigio e dalla retorica accademica alla Wilson), beneficiò della mobilitazione mediatica che aveva fatto di Wilson una celebrità. Anche se, tecnicamente, la fortuna di Mussolini era senza precedenti per un politico straniero che non aveva mai messo piede in America.

Il secondo elemento da considerare è costituito dalle attività di un’organizzazione assai potente, la Italy America Society (nota come IAS), creata nel 1918 a New York per promuovere gli investimenti industriali e finanziari americani in Italia. La IAS contava su legami con il Dipartimento di Stato, Wall Street e il mondo della stampa. Nei primi anni Venti divenne una sorta di agenzia americana di pubbliche relazioni per il regime fascista. Per citare alcuni nomi partiamo da Richard Washburn Child, giornalista, grande sostenitore di Teddy Roosevelt prima e di Wilson dopo, ex-giornalista del CPI, e collaboratore alla campagna presidenziale di Warren G. Harding. Senza aver mai avuto alcuna esperienza diplomatica, Child fu nominato ambasciatore degli Stati Uniti in Italia fra il 1921 e il 1924. Durante la Marcia su Roma, fu tutt’altro che un semplice spettatore. Aveva già scritto positivamente al Dipartimento di Stato riguardo all’eventualità del potere fascista prima della fine di ottobre del 1922. Per protocollo, in quanto ambasciatore, avrebbe dovuto far visita al nuovo Premier dopo la nomina di quest’ultimo da parte del re. Accadde il contrario. Fu Mussolini a venirlo a trovare, suscitandone le simpatie. Il 3 novembre Child pregò i suoi superiori di accettare quello che Mussolini sperava di ottenere da un rapporto molto più stretto con gli Stati Uniti – «un po’ di pubblicità americana». Child divenne amico di Mussolini e contribuì significativamente all’accoglienza del Duce negli ambienti governativi d’oltreoceano e presso l’opinione pubblica americana, prima e dopo il suo ruolo di ambasciatore, scrivendo di Mussolini in libri e editoriali e prestandosi come ghost writer per alcune «autobiografie» del Duce pubblicate su riviste americane.

Forse ancora più importante di Child fu Thomas W. Lamont, membro fondatore della IAS e personaggio di punta della potentissima banca d’investimento J.P. Morgan. Il suo ruolo fu fondamentale nella gestione dei rapporti fra il regime e Wall Street riguardo a investimenti, prestiti e superamento della crisi Matteotti. In quell’occasione Lamont scrisse al suo rappresentante romano suggerendo quello che doveva essere il modo con cui Duce avrebbe dovuto comportarsi pubblicamente dopo il discorso in Parlamento del gennaio 1925, passato alla storia come l’annuncio dell’inizio della dittatura. Lamont scrisse: «Se il signor Mussolini dichiara che il governo parlamentare è finito in Italia, una cosa del genere finisce per scioccare gli anglosassoni. Se, al contrario, il signor Mussolini spiegasse che le vecchie forme del governo parlamentare in Italia si sono rivelate improduttive e hanno condotto a governi inefficienti e al caos, e che quindi hanno dovuto essere temporaneamente sospese per una riforma generale, allora gli anglosassoni capirebbero».

Qualsiasi riflessione sui modi con cui Mussolini divenne famoso in America dovrebbe a mio avviso considerare il ruolo di Child e Lamont, se non partire da loro, anche se nel libro mi concentro anche su altri mediatori promozionali, inclusi giornalisti come Isaac Frederick Marcosson, promotori professionisti come Ivy Lee, e ambasciatori italiani come Gelasio Caetani.

Quali strategie pubblicitarie furono architettate, su entrambe le sponde dell’Atlantico, per contribuire alla costruzione del fascino pubblico del dittatore fascista?
Quando si parla di strategie pubblicitarie, bisogna considerare la diversità di universi politici, culturali e commerciali interessati a promuovere la figura del Duce senza assumere che le loro azioni fossero fra loro coordinate o rispondessero ad un disegno centrale. Tuttavia, un aspetto pare regolarmente riconoscibile e non ha solo a che fare con il notorio anticomunismo di Mussolini, che ovviamente fu un elemento significativo per la sua accettabilità politica, ma che non spiega la forma della sua popolarità trasversale.

Prendiamo la stampa. Se ci chiediamo come mai il nome e il volto di Mussolini, che fosse stampato in prima pagina o no, vendesse copie per i quotidiani, per la stampa periodica, generalista o meno, e per le riviste di cinema, la risposta non può legarsi primariamente né allo specifico della sua azione politica né al suo celebrato anti-bolscevismo. Mussolini rappresentava un nuovo tipo di leader politico, presentato al pubblico come celebrità, cioè come una personalità pubblica che affascinava per un suo presunto temperamento personale ad un tempo riconoscibile, in virtù di un’apparente autodisciplina anglosassone, ed esotico e alquanto sopra le righe, data l’esuberanza latina, il maschilismo italiano e il cesarismo.

Se postulassimo la popolarità del Duce come il risultato diretto della propaganda fascista, non riusciremmo a comprenderne il suo fascino in America. La sua elezione a personaggio-celebrità apparteneva già al modo con cui, dopo Wilson, l’America aveva imparato ad interessarsi di leader politici. Mussolini non richiedeva grandi reinvenzioni. Rispetto ai politici italiani, di norma molto più anziani e ritratti con barbe folte e bianche, il Duce era un tipo nuovo, giovanile e ben rasato — come ebbe a notare anche Calvino molti anni dopo. Il modello della celebrità, già praticato dall’Ambasciatore Child subito dopo il 1922, venne quindi adottato sia nei profili biografici apparsi nel 1923 su riviste come Forum, Literary Digest e Living Age sia nelle cosiddette autobiografie a puntate pubblicate dall’importante agenzia di stampa United Press (UP) e dal diffusissimo Saturday Evening Post. Margherita Sarfatti, l’intellettuale cosmopolita veneziana, critica d’arte, influente inspiratrice di molte politiche culturali del regime (nonché amante del Duce), contribuì ad alcune di questi autoritratti prima di pubblicare la sua famosa biografia autorizzata. Uscita negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel 1925 con il titolo The Life of Benito Mussolini, sarebbe stata pubblicata in Italia solo nel 1926, con il più magniloquente titolo DUX – tutto in maiuscolo.

Visto che nel libro mi occupo soprattutto della sua popolarità negli anni Venti, quindi prima dell’ascesa di Hitler (1933) o della campagna coloniale italiana in Africa Orientale (1936), non tratto della radio, ma mi occupo del cinema. Anche qui, l’intenzione era quella di soddisfare la curiosità americana in merito al personaggio-celebrità di Mussolini. Ma se il film di finzione The Eternal City (1924) gli offriva una parte limitata da leader politico, quindi in parte separato dall’intreccio melodrammatico del film, il cinegiornale sonoro della Fox, The Man of the Hour (1927) lo poneva al centro e ne celebrava il fascino di statista attraverso un trattamento da star. Nel libro mostro come i responsabili della Fox e quelli del regime, incluso lo stesso Mussolini, collaborarono alla sua performance. Questa richiedeva la recitazione in italiano e in inglese di un testo via via ridotto a pochissime pagine per non superare i tempi del cinema. Le riviste di cinema erano già arrivate a parlare del Duce su grande schermo come di una sintesi unica di attore provetto e leader politico. Il film diede la parola a questa distillazione mediatica che aveva contagiato anche Hollywood. Basti vedere la foto, pubblicata su Motion Picture Magazine nel 1927, delle super star Mary Pickford e Douglas Fairbanks, colte mentre facevano il saluto romano su una spiaggia californiana. La includo nel libro anche perché non è mai stata né pubblicata né riportata dalle biografie delle due star di Hollywood.

La popolarità in America di Rodolfo Valentino e Benito Mussolini fu il risultato e la fonte di una serie di iniziative promozionali che negli anni Venti intrecciarono fenomeni più ampi, dall’economia dei media alla comunicazione politica fino alle dinamiche giornalistiche del fare notizia: chi furono e che ruolo svolsero i mediatori della loro popolarità?
Per quel che riguarda Valentino, risponderei alla sua domanda parlando di due livelli promozionali, uno associato al discorso critico intorno ai suoi ruoli, che spesso assunse toni politici, e uno legato alla struttura del business cinematografico in merito all’economia dei media. Quest’ultimo livello ci aiuta a capire come fosse possibile pensare sia a Valentino che a Mussolini come a influenti vettori di opinione pubblica.

L’ascesa di Valentino è legata ai suoi primi due film, I quattro cavalieri dell’Apocalisse e Lo sceicco, entrambi del 1921, ma anche al discorso pubblicitario che da subito ne accompagnò l’impatto (e a cui diede forma). Notandone la novità in termini di mascolinità sfrontata e passionale, in pieno contrasto con il clima seguente alla recente approvazione dell’emendamento sul diritto di voto per le donne (1920), un giornalista di cinema (e pettegolezzi) come Herbert Howe cominciò ad operare informalmente come pubblicista personale di Valentino in un tempo in cui quel ruolo non era ancora stato istituzionalizzato. Scrisse rubriche celebrando Valentino, ma soprattutto si inventò interviste in cui il divo italiano correlava la crisi della mascolinità americana con i disordini della democrazia. Il risultato divenne la celebrazione di una mascolinità autoritaria, mescolata ad un attraente esotismo latino che la rese quasi immune da accuse di sciovinismo. Molte delle figure che contribuirono alla fortuna di Valentino, a partire dalla scrittrice e giornalista Elinor Glyn, insistevano su questa dimensione ad un tempo primitiva e passionale. Dal 1925 in poi un’altra strategia fu quella delle trovate pubblicitarie, vale a dire «pseudo eventi» che facevano notizia suscitando la simpatia del pubblico per Valentino. Nel libro esamino la pubblicazione di un editoriale anonimo, preparato per fare scandalo e pubblicizzare il nome del divo poco prima dell’uscita de Il figlio dello sceicco (1926). L’editoriale suggeriva l’omosessualità del divo il quale, stando al gioco, andò su tutte le furie e invitò pubblicamente l’anonimo giornalista ad un incontro di pugilato — la presunta prova definitiva di virilità eterosessuale. Ovviamente l’editorialista anonimo non si presentò, ma i giornali del paese per settimane parlarono dell’accusa a Valentino e del suo diritto di replica.

Per quanto riguarda il secondo livello, dalla fine degli anni Dieci Wall Street, dopo aver compreso l’impatto che Hollywood poteva avere sull’opinione pubblica americana e mondiale, aveva iniziato a mostrare interesse per l’industria cinematografica. Il problema è che Hollywood non funzionava (e non funziona nemmeno ora) come altre industrie: i film di uno stesso studio devono essere diversi uno dall’altro (o almeno si fa finta che lo siano) e non esiste una formula sicura per vendere biglietti al botteghino. Ma, come molte ricerche del tempo dimostrarono, una delle poche garanzie di successo era la presenza delle star, cioè di celebrità che, al di fuori dello schermo, continuavano a suscitare un altissimo interesse fra il pubblico grazie a servizi giornalistici dedicati alla loro vita privata.

Le industrie del cinema, il mondo della stampa, quello della pubblicità compresero che le star erano in grado non solo di vendere prodotti al pubblico americano (e straniero), ma anche di vendere idee su cosa significhi essere uomini e donne attraenti, alla moda e felici. Le star davano forma, insomma, a desideri di lungo corso, non solo a impulsi contingenti.

Per capire come questo ci consenta di legare Valentino e Mussolini, nel libro parlo dei discorsi pubblici del potente banchiere americano Otto Kahn. Ad una convention del 1928 della Paramount (per la quale nel 1919 la sua banca di investimento aveva garantito l’emissione di azioni per un valore di dieci milioni di dollari), Kahn spiegò come il cinema non era solo intrattenimento. Il nuovo mezzo di comunicazione coglieva «gli impulsi emotivi della gente» e rappresentava il più efficace fattore di democrazia nella vita del Paese, addirittura più importante dell’automobile. Di più. Parlando delle star come beni essenziali di Hollywood, Kahn dimostrava di capire benissimo il loro ruolo di ambasciatori-testimonial della nazione, in grado di plasmare la reputazione degli Stati Uniti di fronte all’opinione pubblica mondiale.

Due anni prima, nel 1926, parlando alla Foreign Policy Association, Kahn difese pubblicamente il Duce come affidabile partner d’affari per gli Stati Uniti. Anticipando obiezioni riguardanti i metodi del dittatore italiano, Kahn notò che Mussolini era riuscito a portare ordine in paese che l’aveva perso e a garantire un governo stabile. Mussolini, aggiunse, «non è un dittatore nel significato usuale della parola, in quanto detiene il potere coll’esplicito e preponderante consenso del popolo».

L’idea che Mussolini non fosse un dittatore maligno, ma un amatissimo e alquanto originale uomo forte era in fondo la formula usata da quotidiani e riviste in cerca di lettori e da compagnie di cinegiornali in cerca di spettatori. Coltivando i loro interessi, i due media facevano anche il gioco geopolitico di gruppi di potere interessati a mantenere ottimi rapporti con l’Italia.

Sulla dimensione autocratica del regime di Mussolini, la lapidaria risposta di Kahn — «L’Italia è la patria degli italiani, non degli inglesi» — fu simile a quella di molte giornaliste americane, come Alice Rohe o Anne O’Hare McCormick, che si trovarono a dar conto del maschilismo di Mussolini. La stessa McCormick aggiunse che in Italia il Duce è popolare perché non è solo un capo, ma «un divo […] che rende la politica una sorta di nobile spettacolo e tiene sveglio e coinvolto il suo pubblico, così annoiato dai suoi predecessori».

Quali abbinamenti con i personaggi cinematografici interpretati da Valentino contribuirono a modellare l’immagine dell’attore italiano dalla fine degli anni Dieci fino alla sua morte (e oltre)?
Per Valentino i ruoli fondamentali per la sua fama furono due, legati ai due film del 1921 già citati, I quattro cavalieri dell’Apocalisse e Lo sceicco. Nel primo, Valentino interpreta il ruolo di Julio, un argentino giovane e inizialmente ricchissimo, latin lover e appassionato di tango, che trasferitosi poco prima della Grande Guerra a Parigi, patria del padre, finisce per innamorarsi di una donna sposata. Arruolatosi volontario nell’esercito francese, anche per amore, finisce per morire sul fronte. Nel secondo, Valentino interpreta il ruolo di uno sceicco arabo, Ahmed, arrogante e sciovinista, che invaghitosi di una giovane esploratrice inglese, Diana, la rapisce portandosela nel suo accampamento in pieno deserto. Di fronte ad una Diana implorante, Ahmed prima non esita a sedurla ma poi, colto da compassione, si ferma. Abbastanza inspiegabilmente, Diana se ne è nel frattempo innamorata. Rapita di nuovo ma, questa volta, da un capo arabo meno conciliante, Diana verrà liberata da Ahmed che nell’azione rimarrà ferito. Solo alla fine, mentre accudisce l’amato convalescente, Diana apprende che Ahmed non è arabo, ma figlio di un uomo inglese e di una donna spagnola, cioè di due europei. Il suo amore scandaloso è ormai sollevato da impedimenti interrazziali.

Questi due titoli sottolineano una tensione che non mi pare sia mai stata pienamente colta. Nel primo caso, la sceneggiatura di June Mathis (che aveva adattato per lo schermo il romanzo omonimo di Vicente Blasco Ibañez e che aveva personalmente voluto Valentino nel ruolo di Julio) enfatizzava la complessità del personaggio — il suo essere stato seduttore maschilista a Buenos Aires, ma generoso innamorato a Parigi, pronto all’ultimo sacrificio. La promozione del film, invece, non parlava di alcuna conversione, insistendo invece su di un Julio perennemente argentino, cioè dalla passione erotica primordiale e come tale assunto a irresistibile beniamino del pubblico.

Anche nella trama del secondo film, che era stato adattato dal romanzo omonimo della scrittrice E.M. Hull (un altro bestseller), c’era un prima e un dopo. Ma la Mathis si era rifiutata di adattarlo perché riteneva il romanzo troppo sessista. Sulla pagina scritta, infatti, Ahmed va ben oltre il tentativo di seduzione della prigioniera Diana. Nel film, esiste più ambiguità, ma lo sceicco mostra tratti crudeli e sciovinisti ben più a lungo di quanto non avesse mai fatto il Julio dello schermo. La promozione del film, che ormai non trattava Valentino come di una star accidentale, capitalizzava sul sensazionalismo e sul successo del romanzo omonimo insistendo su elementi osé e sull’ impenitente sfrontatezza del protagonista. La sua memorabile promozione a sceicco sarebbe rimasta come il criterio di giudizio del pubblico, sminuendo tutti i ruoli successivi, più raffinati e sentimentali, e mescolati ad una passionalità mai primitiva, che sia la Mathis che la seconda moglie di Valentino, l’influente coreografa Natasha Rambova, avevano o creato o promosso per l’attore italiano. Solo con Il figlio dello sceicco (1926), il film postumo adattato al sequel della Hull, Valentino sarebbe tornato ad indossare i panni del suo ruolo storico di sceicco. Ed è così che è passato alla storia.

Giorgio Bertellini si è laureato in filosofia a Milano e ha conseguito il dottorato in Cinema Studies presso New York University. Dal 2001 vive e lavora ad Ann Arbor (Michigan) dove è ordinario di Storia del Cinema e dei Media presso l’Università del Michigan. È l’autore e curatore dei premiati volumi Italy in Early American Cinema. Race, Landscape, and the Picturesque (2010), Italian Silent Cinema. A Reader (2013) e The Divo and the Duce. Promoting Film Stardom and Political Leadership in 1920s America (2019). Nel 2022 ha vinto una Guggenheim Fellowship.

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