
Per il resto: si tratti di romanzi, novelle, drammi, forme liriche (noi diremmo), e anche dei poemi d’arte, le “frecce fiorite” di cui è armato Kama, il dio dell’amore, senz’altro dominano. La modalità letteraria di questo dominio è particolare, caratteristica della letteratura e della cultura indiana in generale: la poesia d’amore si esprime attraverso temi e motivi fissati dalla tradizione, analogamente a quando accade per la scultura o la musica. Non troviamo perciò vicende personali, Catullo straziato dai tradimenti della sua Lesbia, o Saffo desolata dormendo sola nell’incanto della notte. I sentimenti espressi dalla poesia indiana classica, certo, sono concreti, ma i protagonisti sono astratti, sono – si potrebbe dire – ‘funzioni’ e non individui: l’uomo tradito, la donna lontana dall’agognato compagno, e così via in una galleria di personaggi emblematici, ampia ma non infinita, accuratamente catalogata dai trattatisti per sesso, naturalmente, per età, per condizione del rapporto con l’amato o l’amata: unione felice, prima notte d’amore, lontananza sconsolata per l’assenza di lui o per la sua infedeltà e così via. Nella maggior parte dei casi, il tema scelto dal poeta è declinato attraverso una breve scenetta, a sua volta appartenente alla tradizione, mentre il linguaggio può aprirsi a espansioni evocative di timbro lirico che spesso ricorrono a immagini della natura. Offriamo qualche esempio per entrambe le modalità, ricordando che quasi tutti gli esempi scelti, qui e avanti, sono tratti dal libro ora presentato: “Come un pegno sulla guancia / oggi ancora quella povera ragazza sorveglia / il cerchio dei tuoi denti, circondato / da una tonda siepe di pelurie in fiore” (Hala, I-II secolo d.C., Le settecento strofe, 96): la protagonista guarda malinconicamente le tracce del morso impresso sul suo volto, che le ricorda la passata ebbrezza; la pelurie tesa, come più avanti alla strofe 40 di Amaruka, è nella poesia d’amore indiana uno dei segni prediletti di eccitazione; mentre graffi, morsi, colpi nell’erotica indiana sono d’obbligo, contrassegni di una passione incontenibile e perciò molto desiderata dai partner.
Ecco invece il paesaggio di una città all’alba (Kalidasa, Nuvolo messaggero, str. 31 valutata anche dai teorici e critici indiani antichi come capace di evocare nell’ascoltatore il più intenso sentimento estetico)*:
“dove prolungando l’arguto,
dolce richiamo delle gru,
fragrante per l’unione con il profumo diffuso
dei loti sbocciati nelle albe,
la brezza della Sipra [il fiume della città], carezzando i loro corpi,
si porta via lo sfinimento delle donne dopo l’amore,
come fosse l’amante che sussurra
parole tenere di desiderio“.
Come si manifesta l’amore tra le divinità del pantheon induista?
In sintonia con quanto si detto or ora, anche l’amore tra le divinità del pantheon hindu è evocato per condizioni, momenti, situazioni prefigurate dalla tradizione. In questo, perciò, le sue manifestazioni non si distinguono dalle manifestazioni degli amori umani. La dea quindi, come la sposina novella, è timida nella prima notte d’amore, vergognosa all’idea di essere vista nuda per la prima volta; ecco che cosa accade a Parvati al primo incontro d’amore con il novello sposo Shiva (Kalidasa, La storia di Shiva e Parvati, VIII, 48): “La mano di Shiva il Propizio posata vicino al suo ombelico / era da lei respinta con un tremito; / e poi da sé sole le sue cosce scioglievano / completamente il laccio della sottoveste”, dal che si capisce che, per quanto ritrosa, anche Parvati è desiderosa dell’abbraccio del marito. E quando il pudore si dissolve, l’amore della coppia è sensuale, appassionato, insaziabile. Altra scena caratteristica, allora: al mattino il letto sfatto con le coltri colorate dal trucco (anche sulle mani, sui piedi, sui seni della donna) racconta le vicende di una passione fantasiosa e irresistibile. Non manca, naturalmente, la gelosia. Rimanendo alla grande coppia Shiva-Parvati, la dea è gelosa di un’altra affascinante divinità femminile, Sandhya, cioè la luce del crepuscolo sia mattutino sia serale; gelosa perché il marito le dedica in entrambi i momenti un omaggio, o meglio un servizio particolarmente devoto… Shiva minimizza: il suo altro non è se non un servizio religioso, un atto rituale dovuto alla figlia del creatore Brahma, quale Sandhya è. Già, però non si deve dimenticare che in sanscrito le parole per “servire” e simili uniscono i significati di “servire”, appunto, e di “fare l’amore” o altri atti di intenso erotismo, né dimenticare che le dee delle parvenze naturali sono, al tempo stesso, manifestazioni naturali e donne meravigliose… forse la gelosia di Parvati non è del tutto infondata! A proposito: questa coppia divina è forse l’unica sulla quale circolino racconti di episodi coniugali; di altre grandi coppie, infatti, come Vishnu-Lakshmi (dea della bellezza e della fortuna) o Brahma-Sarasvati (dea della letteratura e della musica) poco si narra, se non il fastoso aspetto delle due divine signore che usano viaggiare con gli sposi sui loro sontuosi animali-veicolo: rispettivamente l’avvoltotio divino Garuda e la candida oca reale Hamsa. Vishnu peraltro ha anche una seconda sposa, Bhu o Bhumi, la Terra da lui salvata dagli abissi dell’Oceano: non sembra però che la bigamia del dio susciti alcun problema, come del resto (almeno nella letteratura teatrale) la poligamia dei sovrani e degli aristocratici d’alto lignaggio, perfettamente ammessa dall’induismo.
In sintesi, si può aggiungere che le bene assortite coppie divine riflettono l’ideale tradizionale di donna nobile e di unione signorile: la sposa è bellissima, intelligente, fedele, di voce e parola soave; da alcune storie sappiamo anche che è un’ospite impeccabile. Lo sposo è d’abitudine affettuoso e volentieri si accompagna alla sua signora. Nulla di nuovo, dunque, rispetto per esempio alla Grecia del mito: com’era infatti Penelope? Identica, salvo essere umana.
Biricchine, semmai, in India erano le femmine delle diverse stirpi semidivine: le meravigliose Kinnari dal corpo stupendo umano e dal viso di cavallo (come i loro maschi), inimitabili cantatrici e musiciste, le Yakshini conturbanti dei boschi che fecondano la vegetazione, ma soprattutto le irresistibili Apsaras ninfe acquatiche e celesti. Il fascino di queste ultime era fra l’altro usato dagli dèi per sedurre gli asceti che avevano accumulato troppo potere, cioè troppo ardore ascetico con il quale avrebbero potuto bruciare l’universo usandolo quindi per ricattare i celesti: eccitati da quelle trascendenti (ma molto formose) beltà, i rinuncianti avrebbero invece profuso il loro seme e quindi dissipato il loro potere…
Quali elementi caratterizzano il racconto dell’amore nei grandi poemi epici tradizionali?
I grandi poemi epici tradizionali sono, anche nella classificazione letteraria indiana, il Mahabharata, “Il grande (poema) dei discendenti di Bharata” (II-I secolo a.C.), e il Ramayana, “La storia di Rama” (all’incirca coevo almeno per il nucleo centrale costituito dai libri II-VI). Le diverse protagoniste femminili del primo e l’unica protagonista assoluta del secondo, cioè Sita la sposa di Rama, incarnano alla perfezione l’ideale brahmanico di donna nobile e di devozione senza riserve al marito. O “ai mariti”: Draupadi infatti, la moglie dei cinque fratelli Pandava protagonisti del Mahabharata, è una sola, in seguito a un decreto involontario ma irrevocabile di Kunti, madre degli sposi. (Per inciso, la parola di una madre nel diritto sacro indiano non può essere modificata, nemmeno da lei stessa). Le spose degli eroi dei due poemi, ma anche quelle dei comprimari, sono figure femminili scolpite nella pietra: invariabilmente le distinguono bellezza, eleganza di tratto, fedeltà assoluta, consapevolezza dei loro doveri, coraggio, soprattutto nel caso di Sita rapita e concupita dal mostruoso demone Ravana, accortezza di consiglio, maternità irreprensibile. Gli sposi certamente ne godono, rinforzati da tanta dedizione; il che non impedisce loro eventualmente altri amori e altre nozze (legittime) come già si diceva.
Ma l’epica è un serbatoio inesauribile di racconti, incorniciati da quello principale, e qui non mancano le sorprese nel comportamento delle nobili donzelle prima del matrimonio ufficiale: è il caso di Kunti, la madre dei cinque Pandava, ma prima ancora la madre di Karna, il figlio nato dalla sua volontaria e segreta unione con il dio Sole. E non mancano storie d’amore meno – diciamo così – convenzionali, quelle soprattutto fra asceti inaccessibili e principesse o ninfe irresistibili. Storie quasi sempre ricondotte alla fine nell’alveo dei rapporti socialmente apprezzati: l’epica indiana tradizionale è, in definitiva, la rappresentazione dinamica dell’etica brahmanica, orientata su tutti i piani dal dharma, la legge sacra, l’ordine socio-cosmico.
Qual è la concezione dell’amore nella cultura indiana tradizionale?
Guardata in una prospettiva a volo d’uccello, la concezione dell’amore nella cultura indiana tradizionale appare piuttosto variegata. Dell’ideale brahmanico abbiamo già discorso, ma si deve aggiungere che – sul piano strettamente delle vicende reali – dal punto di vista coniugale l’amore non è la premessa, ma l’eventuale conseguenza del matrimonio. I matrimoni erano combinati dalle famiglie (e ancora oggi in India lo sono nell’80% circa dei casi), la confidenza e il sentimento perciò si sviluppavano dopo,se la coppia era fortunatamente bene assortita. Oppure, insieme con la passione nei suoi infiniti aspetti, le emozioni e gli slanci erano confinati, o forse meglio lasciati sprigionare (con le dovute cautele) nell’ambito del “tradimento”. Come si può intendere da questa strofa ironicamente allusiva: “Nelle lunghissime notti / invernali non ti manca certo la possibilità di sonno, / visto che tuo marito è via da un bel po’: / non è bello che tu dorma di giorno!”, segno presumibile di insonni veglie d’amore con un altro (Le settecento strofe, 66).
A fronte di questa condizione, e della ben nota situazione di soggezione assoluta della donna sancita, perfino brutalmente, dai codici di legge sacra come le celebri Leggi di Manu (II secolo a.C.?), si rileva un aspetto sorprendente e certo inatteso testimoniato dall’altrettanto celebre Kamasutra (III secolo d.C.). Si deve tenere presente che il notissimo trattato non è una rassegna di posizioni dell’amore spasmodiche e avventurose come certa editoria occidentale di terz’ordine tende ad accreditare; è invece un libro destinato alle coppie di classe, residenti nelle città, per istruirle su tutti gli aspetti della vita amorosa e mondana, dal corteggiamento alle nozze, dal sesso all’ospitalità (non mancano aperitivi e stuzzichini) agli svaghi, dalla prostituzione alla cultura ai tradimenti… L’autore, Vatsyayana, era infatti un brahmano di cultura e di mondo, non un ossessionato pornografo e la parte dedicata alle famose posizioni occupa uno solo dei sette capitoli dell’opera. Veniamo al punto: Vatsyayana imposta a un certo momento la domanda se la donna, nell’atto d’amore, abbia lo stesso diritto al piacere dell’uomo, cioè qui in senso stretto all’orgasmo. Il verdetto pronunciato è tanto logico quanto perentorio: siccome la specie della coppia è la stessa – quella umana – è evidente che l’uomo e la donna sono egualmente predisposti all’appagamento. E a questo punto l’autorevole brahmano (quanto a dire l’equivalente, in termini occidentali, di un cardinale di rango) introduce una precisazione deliziosamente ironica, suggeritagli forse dalla sua conoscenza della dura cervice del maschio (indiano): poiché l’attesa dell’orgasmo è la stessa, è pure evidente che la donna vada soddisfatta per prima; se prima è soddisfatto l’uomo, infatti, alla signora toccherà aspettare… La posizione è di modernità impressionante, e inaspettata – io credo –, perché tutto sommato l’Occidente è arrivato a una simile idea da non molto, se mai ci è arrivato. In effetti, si deve in definitiva riconoscere che la dimensione dell’erotismo è quella dove, nell’India tradizionale, alla donna sono riconosciuti i maggiori diritti e il territorio di più libera espressione. Evocati con grande finezza soprattutto sul piano dell’arte figurativa e della poesia, come in questa famosa quartina di Amaruka (VII secolo d.C.?), uno dei più grandi poeti d’amore dell’India antica; la strofa è dedicata appunto all’acme del piacere di una coppia, momento per il quale la lingua italiana dispone purtroppo solo del poco poetico termine di “orgasmo” (femminile nel caso di questa poesia):
“Levata la pelurie tesa oppressi i seni nell’abbraccio folle,
le cosce sontuose umide di gocce infinite soffici d’amore:
«No, no… adorato… non… troppo… me… di più» in sillabe
imploranti sussurrando,
forse si è addormentata, forse è morta, forse nella mia anima si è intrisa,
si è forse dissolta?” (Centuria, strofa 40).
Un’aggiunta è d’obbligo, per rispondere in modo più completo alla domanda: come forse si è potuto intuire dai versi ricordati, nella visione e nell’esperienza indiana sentimenti e sesso non sono disgiunti. È vero infatti che l’amore si identificava quasi interamente con i giochi e con l’atto dell’amore; ma con una pienezza così traboccante, una capacità contemplativa e analogica così affinata che l’abbraccio dei corpi si rifrangeva nell’incanto della natura, circondata da un sentimento di meravigliata fratellanza. Mentre nella lontananza, nella voglia o nel piacere si coglievano le mille vibrazioni del cuore e le immagini d’una poesia oggi spesso dimenticata, come pure i simboli della tensione interiore più alta. Ecco allora l’amore addentrarsi profondamente nel campo del trascendente, dell’esperienza religiosa, del rapporto reciproco fra l’anima umana e Dio. Al punto che il desiderio sessuale veniva assunto, per esempio dai poeti-mistici medievali, come paradigma di ogni forma e modalità di desiderio. In ogni sua dimensione, in ogni suo momento, da ogni punto di partenza in India l’amore viene perciò inteso totalmente, senza discriminazioni, in tutte le sue tonalità: lo testimoniano i capolavori della poesia classica e soprattutto quelli della scultura templare, dove le coppie che si abbracciano nelle maniere più eccitanti e voluttuose rinviano infine al silenzio in una zona di rarefatta contemplazione. La fusione di sensualità e distacco è uno dei segreti più sottili e affascinanti della civiltà indiana…
Quale visione della donna emerge dai testi della letteratura indiana classica?
Diversi aspetti della risposta a quest’ultimo quesito sono già stati accennati o trattati in precedenza. Qui ne approfondiamo uno e ne introduciamo un secondo. Abbiamo già menzionato Le leggi di Manu e il quadro della condizione della donna che quel codice prescrive e che appare a noi perfino ripugnante. Adesso ne leggiamo un passo, tanto sintetico quanto inequivocabile (V, 147 sgg. passim, trad. F. Squarcini e D. Cuneo): “Che sia bambina, adulta o anziana, una donna non dovrà mai svolgere alcun compito in maniera indipendente, neanche in casa. Nell’infanzia sarà sottoposta all’autorità del padre, nell’età adulta a quella del consorte, dopo la morte del marito a quella dei figli. Che non goda mai di indipendenza. Fin quando è vivo l’uomo a cui è stata data in sposa dal padre, o dal fratello con il consenso del padre, ella gli obbedirà. Quando muore, non lo disonorerà… Anche se il marito si comporta male o è un dissoluto o è privo di qualità, la donna buona lo servirà sempre come se fosse un dio”. Non solo: l’eventuale morte prematura del marito era imputata alla moglie come una colpa, non dalla legge ma dalla sensibilità sociale, nella persuasione che questa morte fosse dovuta alla scarsità delle attenzioni e delle cure dedicate al consorte dalla donna. Mentre la condizione della vedova aggravava la mancanza di autonomia al punto da vietare ornamenti, acconciature dei capelli, trucco del viso e perfino abiti che non fossero esclusivamente bianchi. Il presupposto di queste come di altre analoghe norme è che la donna sia per natura corrotta, infida e incapace, che quindi debba essere continuamente controllata e comandata – il testo usa peraltro in maniera ipocrita il termine “protetta”.
A fare giustizia di questi pregiudizi, purtroppo efficacissimi ancora oggi soprattutto per i ceti (cioè le caste) più umili, è ancora una volta la letteratura, che restituisce immagini frequenti e certo non fittizie di sposi (e amanti) innamorati, nostalgici se lontani dalle compagne, e convinti del loro alto valore, non solo estetico. Così cantano per esempio due strofe delle già citate Settecento strofe, la più antica antologia lirica a noi rimasta dell’intera letteratura indiana: “Non rapiscono i piaceri raffinati, / eccitati da passione più volte espressa, tanto / quanto quelli soddisfatti per affetto genuino / – non importa dove o come” (274). – “Restare tanto a lungo lontano dalla vista del viso / dell’amata, che ruba l’anima, incalcolabilmente preziosa: / il solo confine del territorio del suo villaggio, / ecco, appena scorto riempie di gioia” (168).
Abbiamo più volte sottolineato la bellezza della donna indiana senza descriverla; concludiamo allora con un breve ritratto di bellezza femminile perfetta, tolto dal Nuvolo messaggero di Kalidasa (str. 79), poemetto già salutato da Goethe come un assoluto capolavoro – la strofa che leggiamo è l’unico testo che non figura in Il dio dalle frecce fiorite, dove appaiono però altre più estese descrizioni di beltà femminili del tutto in sintonia con questa; chi parla è un esule, colmo di nostalgia e desiderio, che così raffigura la sposa amatissima: “Snella, bruna, i denti aguzzi, / il labbro inferiore come morbido frutto vermiglio, / assottigliata alla vita, / gli sguardi di cerbiatta timida, profondo l’ombelico, / molle il passo per il peso dei fianchi, / appena china per quello dei seni… / quasi la prima opera del Creatore / fra le giovani donne” . Una curiosità: i denti canini aguzzi erano considerati un tratto importante della bellezza femminile perché si riteneva che portassero fortuna all’uomo della donna che ne fosse dotata. E qui si aprirebbe – come per ogni cultura – l’infinito e attraente capitolo dei costumi, delle superstizioni, delle leggende che circondano l’amore con i loro inconfondibili aromi…
* Tutte le traduzioni dai testi indiani sono, salvo nel caso indicato, del prof. Boccali
Giuliano Boccali ha insegnato Indologia e Lingua e letteratura sanscrita, prima a Venezia Ca’ Foscari, poi all’Università degli Studi di Milano. Collabora con il Domenicale del «Sole 24 Ore». Fra i suoi libri più recenti: Il silenzio in India. Un’antologia (Mimesis, 2017) e Passioni d’Oriente. Eros ed emozioni in India e Tibet (con R. Torella, «Corriere della sera», 2018). Ha inoltre curato La storia di Shiva e Parvati (Marsilio, 2018).