
Socrate chiede al suo interlocutore di rendere ragione di ciò che sta facendo, e di farlo mediante il logos, ossia circoscrivendo in una definizione, dunque in un discorso universale, cosa siano hosion e anosion, il pio e l’empio. Empietà: esattamente l’accusa che a Socrate veniva fatta da parte di quella religio civilis ateniese di cui, in qualche modo, Eutifrone è rappresentante. Si capisce questo sin dalla sua prima definizione, quando, per rispondere a Socrate, Eutifrone dice che l’hosion (di cui accettiamo la traduzione con il termine, certo inadeguato, di “santo”) è ciò che lui sta facendo, ossia denunciare un familiare per un delitto commesso e che – questo è di grande interesse – così facendo egli imitava un comportamento che era stato di Zeus, il quale aveva incatenato suo padre Crono perché contro giustizia aveva trangugiato i figli, mentre Crono, a sua volta, aveva mutilato il padre. Insomma, una genealogia del crimine! Non siamo solo, qui, di fronte a un tratto di tanti dialoghi platonici, nei quali il soggetto interrogato, alla richiesta di definire l’essenza di una virtù, risponde con un’offerta di esempi o con una casistica. Nella prima risposta di Eutifrone, che esemplifica la natura del “santo” con il proprio agire adducendo, a propria legittimazione, l’imitazione di un atto compiuto dagli dèi, è lecito vedere qualcosa di più. Si tratta di un elemento che attiene allo statuto stesso dell’ethos mitico. Mitico, infatti, è quell’esemplificare che si immedesima, proprio di una mente educata alla paideia orale, prodiga di esempi, esperta di eventi concreti, nella loro pluralità, quanto ignara di universali e di processi logici. Mitico, altrettanto, è quell’identificare la pietas del proprio agire con la ripetizione di un’azione esemplare compiuta in illo tempore da una divinità. Mitico, ulteriormente, è fissare la verità nell’antichità, nell’evidenza che i padri, la tradizione, hanno operato così. L’arcaismo religioso di Eutifrone si mostra qui: nella relazione imitativa instaurata tra il proprio atto e l’archetipo di una storia sacra ed esemplare, e nell’affidare a simile agire, essenzialmente patico, immedesimativo, la giustizia (la santità) del proprio agire.
Direi, in poche battute, che in questo dialogo siamo di fronte a un topos epocale. Lì accade, per la prima volta, che un filosofo, Socrate, si ponga dinnanzi a un sacerdote e indovino, rappresentante del mito, Eutifrone, e lo abbia costretto a rendere ragione dei fondamenti del suo ethos religioso. Una svolta, uno dei momenti cruciali della storia dell’Occidente, ripetutosi molte altre volte nella vicenda europea. Io dico addirittura: lì nasce la filosofia della religione, la disciplina che insegno in Università, e la res nasce prima del nome, o del sintagma, che è moderno. Come si vede, il mio interesse nei confronti del dialogo platonico è certo teoreticamente filtrato, per quanto, come spero, filologicamente adeguato.
Il dialogo platonico Eutifrone, al centro del quale sta il celebre dilemma se “santo” sia ciò che viene amato dagli dèi o se essi amino il “santo in sé”, è documento essenziale della rivoluzione etico-religiosa socratica. Santo, vero, buono, giusto, questo è il punto cruciale, è ciò che dice la tradizione, ciò che i padri hanno tramandato, ciò che prescrivono i Libri sacri, ciò che comandano le autorità politiche o religiose, oppure è il termine di una ricerca sempre aperta il cui locus è la coscienza del singolo? Questione che, nelle sue varianti e metamorfosi, attraversa l’intero pensiero occidentale, interessando non solo i domini dell’etica e della religione, ma anche quelli del diritto e della politica. Di qui i perenni ritorni del “dilemma di Eutifrone” di cui in qualche modo cerco di rendere ragione nel libro, muovendo dal testo platonico, cioè dalla lettera del dialogo, per misurare di qui la sua storia degli effetti. Questo naturalmente senza pretese di esaustività, ma tracciando, nondimeno, linee di ricerca a venire.
Qual è il contenuto del dialogo?
Ho già evocato il nucleo del dialogo platonico. Una parola sul finale. Bisogna immaginarsela, questa rappresentazione, in tutta la sua bellezza e pregnanza. Bisogna figurarsi il sacerdote e indovino Eutifrone messo in fuga, per così dire, dall’incalzare dialettico di Socrate che, dopo diversi tentativi falliti di definizione del “santo”, vorrebbe ripetere da capo la ricerca:
“Dobbiamo, pertanto, riesaminare dall’inizio che cosa sia il santo, perché io, prima di averlo imparato, non mi darò per vinto. […] Un’altra volta, o Socrate. Ora ho fretta, devo andare altrove, ed è ora” (Euthyphr. 15 c; 15 e).
È fuga, quella del sacerdote e indovino, dal labirinto in cui Socrate lo ha irretito, nel mostrargli il tratto vizioso, infecondo, della sua posizione e insieme additandogli una via d’uscita: il cosmo noetico delle essenze intelligibili, cui il filosofo vorrebbe legare l’hosion, il santo, la relazione tra uomini e dèi. Incapace di seguirlo fin lassù, messe le ali del “vero” Dedalo, la figura mitica più volte evocata nel dialogo tra i due, a Eutifrone non rimane che quella precipitosa ritirata. Colpisce, di questa scena, non solo la diserzione di Eutifrone, non solo lo svuotarsi dell’Olimpo, messo in fuga insieme al suo rappresentante terreno, non solo dunque la caduta degli dèi e della religione mitica, ma la solitudine del filosofo, accusato da quella religione di empietà e alla fine messo a morte. Anche qui, come altrove nei dialoghi platonici, spicca l’atopia socratica, che dal suo tribunale interiore giudica, nell’atto in cui si accinge a essere giudicato, il tribunale della città.
Come è stato letto e declinato nel pensiero moderno tale «dilemma»?
I due corni del dilemma hanno dato luogo a linee di pensiero antitetiche, né poteva essere altrimenti. Dove sia finito Eutifrone dopo quell’uscita di scena prima ricordata non è difficile localizzare: è finito nelle teologie a sfondo volontaristico, nei giuspositivismi e nelle teopolitiche, nei decisionismi e nelle logiche “amico-nemico” che li sostanziano, nelle figure di Grandi Inquisitori che la storia religiosa e politica ci ha consegnato. Si è annidato altresì, simile a un Proteo capace di mille mimetismi, negli indifferentismi e nei relativismi, nell’oblio dell’etica e della responsabilità nella vita civile, fino a quell’estrema ricaduta costituita dal nichilismo del “nulla vale”, del “se Dio non c’è, e se l’uomo stesso è Dio, tutto è permesso”. Perfino all’ombra del nichilismo, almeno così pensato, è lecito localizzare gli esiti del volontarismo a cui Eutifrone ha offerto figura. Sotto il segno di processi metamorfici stanno, in effetti, due tendenze culturalmente dominanti del nostro tempo, da inscriversi entrambe, mi pare, nell’orizzonte del volontarismo: quella neoliberista, insofferente a ogni idea di autorità, a ogni limite posto alla libertà di intrapresa individuale, e quella, apparentemente antitetica ma ispirata dalla stessa logica, che reclama il ritorno a vincoli d’ordine autoritario, paternalistico. Spezzare, o mettere in questione, il circolo vizioso di queste due tendenze equivale a riaprire la domanda sul “dilemma di Eutifrone” e a rimettere in gioco, sul piano etico, religioso, politico, giuridico, una possibile terza via: la posizione socratica.
Anche di essa, in realtà, è possibile ricomporre e tracciare una lunga coordinata che, attraverso varianti, trasformazioni e metamorfosi, per lo più indipendenti dal dialogo platonico ma inclusive della sua res ipsa, innerva il pensiero europeo. Dallo stoicismo a Cicerone, da Filone di Alessandria alla Patristica greca e latina, sale una linea che, per indicare alcuni snodi cruciali, legando legge divina e legge naturale , arriva ad Anselmo d’Aosta, a Tommaso d’Aquino, alla Scuola di Salamanca, che rinnova la tradizione aristotelico-tomista medievale, a Cusano, a Bruno, all’”etiamsi daremus […] non esse Deum” dell’arminiano Grozio, a Herbert di Cherbury, al platonismo di Cambridge e al Dio razionale di Leibniz: giungendo, lungo questa coordinata, fino alla limpida ripresa illuminista di Lessing, di Kant, fino alla religione dei Lumi, la cui universalità ed ecumenicità celebra in pienezza il ritorno della logica socratica, per la quale l’agathon dell’ente, il suo intrinseco essere buono, è il fondamento razionale della norma morale e della legge positiva.
Vera, dunque, questa legge, non perché comandata o scritta, come dirà Lessing, ma comandata, scritta, perché vera. Una realtà non è né diventa vera, buona o giusta perché amata o prescritta, come vorrebbero tutti gli “Eutifrone” avvicendatisi nella storia, ma è amata o prescritta perché vera, buona, giusta in sé. È per questa via, come si è detto, lungo la quale razionalismo e giusnaturalismo si incontrano ad assimilare legge divina e legge naturale e razionale, che il “dilemma di Eutifrone” entra nel pensiero medievale e moderno, fino a quando l’Aufklärung di Kant e Lessing – l’età, non a caso, che ha fatto dell’acquisizione del principio di autonomia il suo principale vessillo – scorpora il nucleo di quell’antico problema dall’antitesi giusnaturalismo-volontarismo metafisico-teologico che l’aveva sin lì veicolato, come un involucro metafisico, restituendolo alla coscienza etico-critico-trascendentale, ossia alla storia, nonché alla filologia e ai metodi storico-critici che, in quanto applicati alle Scritture, svelano, riformulando la denuncia socratica dei circoli viziosi di Eutifrone, la petitio principii in cui cade chi sostenga il principio di autorità scritturale. Si tratta di un peculiare snodo nella storia della ricezione del problema poco osservato, a mio avviso, e su cui il libro sosta in modo particolare.
Di quale attualità è il «dilemma di Eutifrone»?
Io credo che dal corno socratico del dilemma discendano ricadute essenziali per il nostro tempo. Indico quella cruciale, fissata nella Conclusione, che la ripresa moderna e illuminista esemplarmente riformula e che si potrebbe sinteticamente tradurre così: il luogo e il nucleo autentico dell’etico e del religioso non è il principio di autorità, politica o religiosa, ma la coscienza del singolo e la sua libertà di riconoscere autonomamente il valore del vero, del buono, del giusto. Dove, infatti, se non nell’anima, il Socrate platonico invita a udire la voce di quella perseità del santo che non si trova, se non accidentalmente, nelle determinazioni storiche, nell’ethos, nel traditum? E dove, se non nell’anima, ci si avvede anche del limite di ogni suo attingimento? Tale è la “cosa stessa” interna al “dilemma di Eutifrone”, nella soluzione additata da Socrate, intatta nelle sue varianti e metamorfosi nel corso del pensiero occidentale.
Roberto Celada Ballanti è professore ordinario di Filosofia della religione e di Filosofia del dialogo interreligioso presso l’Università di Genova. Tra le sue pubblicazioni: Pensiero religioso liberale. Lineamenti, figure, prospettive (20192) e Filosofia del dialogo interreligioso (2020); ha curato, di K. Jaspers, Il male radicale in Kant (2010) e, di K. Jaspers – R. Bultmann, Il problema della demitizzazione (20182).