“Il diavolo mi accarezza i capelli. Memorie di un criminologo” di Adolfo Ceretti e Niccolò Nisivoccia

Prof. Adolfo Ceretti e Avv. Niccolò Nisivoccia, Voi siete autori del libro Il diavolo mi accarezza i capelli. Memorie di un criminologo edito dal Saggiatore: cosa trasforma una persona in un criminale?
Il diavolo mi accarezza i capelli. Memorie di un criminologo, Adolfo Ceretti, Niccolò NisivocciaFra il mondo, o meglio il cosmo di una persona violenta e quello di una persona non violenta non esiste in realtà una cesura così netta come ci piacerebbe credere. È vero il contrario: fra i due mondi, fra i due cosmi esiste una zona di ambiguità, di incertezza, perfino di possibile confusione. Una persona che agisce in modo violento, a differenza di un’altra che agisce in modo non violento, “sceglie” la violenza come mezzo di risoluzione di un conflitto distruttivo in corso; ed è qui, dentro questa “scelta”, che si gioca il dramma dello scarto fra i due mondi. La criminalità violenta rappresenta l’esito di una “deliberazione riflessiva” comune a tutti, cioè anche chi alla fine “sceglie” altri mezzi, non violenti, di risoluzione dei medesimi conflitti. I percorsi di vita che orientano e rendono possibile ad alcune persone – in determinate circostanze – di attaccare in modo letale il corpo di un uomo o di una donna sono ben evidenziati nel libro. In estrema sintesi, a orientare i perpetratori verso un gesto concreto di virulenza sono delle esperienze, quasi sempre molto precoci, che definiamo con il neologismo “violentizzazione”. Letteralmente: una socializzazione violenta.

Nell’udire dei più efferati casi di cronaca nera, spesso pensiamo «Io non ne sarei mai capace»: è realmente così?
Diciamo che la risposta a questa domanda deriva dalla risposta alla domanda precedente: se accettiamo l’idea che il comportamento violento deriva da una deliberazione riflessiva comune a tutti, dobbiamo accettarne anche la conseguenza. E cioè accettare anche l’idea che tutti potremmo essere capaci di scegliere, infine, modalità violente di risoluzione dei conflitti, delle situazioni. Luca Doninelli, in un suo bellissimo libro dedicato al rapporto fra Giuda e Gesù raccontato dal punto di vista del primo (“Fa’ che questa strada non finisca mai”), scrive queste parole, facendole pronunciare proprio a Giuda: “Tutti voi conoscete meglio di me come può diventare cattivo un uomo quando, anche senza motivo, nasca in lui il sospetto di essere stato raggirato, di essere vittima di un’ingiustizia, e non importa sapere quale ingiustizia”. Tutti noi siamo tentati dal male, o ne siamo stati tentati almeno una volta, o potremmo esserne tentati; ed è questo, crediamo, a rendere il male così affascinante. Ancora una volta, però, affinché si possa tradurre un attacco malevolo da noi subito in un’aggressione ad altri occorre avere prima attraversato e interiorizzato esperienze capaci di produrre un vero e proprio “cambiamento drammatico” del nostro sé. Sono esperienze tragiche, delle quali nel volume offriamo numerosi esempi. Una delle vite violente di cui parliamo è quella di M.M., un minore non accompagnato che dalla ex-Jugoslavia arriva a Milano, la nostra città, dove incontrerà altri giovani disperati con i quali inizierà presto esperienze altamente devianti.

Quali caratteristiche presenta una mente criminale?
Non esistono “caratteristiche di una mente criminale”. Non esistono, più in generale ancora, “caratteristiche criminali”. Esistono mondi interiori o, meglio cosmologie, visioni di chi siamo e di chi sono gli altri, di chi vogliamo e dobbiamo essere all’interno di una gerarchia di potere. Dobbiamo o, meglio, desideriamo stare in alto, a metà o ci accontentiamo di stare in basso? E se pretendiamo di stare in alto, di avere potere, quali sono gli strumenti che siamo disposti a usare per raggiungerlo? Siamo disposti, pronti a dominare anche a prezzo di sottomettere gli altri con la violenza? Ecco, ognuno di noi interpreta le situazioni che vive alla luce della propria cosmologia. Ognuno di noi risponde alle proprie esperienze, facendole risuonare dentro di sé. Come si diceva prima, ogni azione è il frutto di una deliberazione riflessiva: quello che distingue un’azione violenta da un’azione non violenta è il modo in cui questa deliberazione viene assunta.

È possibile riabilitarsi? Come?
Nessuno di noi si esaurisce in un gesto. Chiunque è molto di più di ogni singolo gesto, anche il più terribile, che abbia compiuto. Ecco: quello che si può, che si deve fare, è elaborare, trasformarli e riparare i propri gesti, a partire da sé stessi fino al confronto con gli altri, con le persone che di quei gesti hanno subìto le conseguenze, che da quei gesti sono state ferite. È questo il senso della giustizia riparativa, del resto, che rappresenta uno dei fili conduttori principali del libro nel quale, in particolare, si riprende la narrazione di una vicenda unica nel suo genere, che ripercorre da lontano il tragitto della Commissione per la verità e per la giustizia sudafricana istituita a suo tempo da Nelson Mandela: quella che riguarda i percorsi di avvicinamento tra i responsabili della lotta armata in Italia e le vittime o i parenti delle vittime dei cosiddetti anni di piombo. Adolfo Ceretti, che insieme a Guido Bertagna e a Claudia Mazzucato l’ha guidata, offre qui una inedita rilettura di quel lavoro di mediazione tra vittime e carnefici.

Quali sono le principali difficoltà del mestiere di criminologo?
Quello della criminologia, come viene spiegato nel libro, è un arcipelago molto variegato, molto vasto. Molto in generale si può dire che esistono due approcci alla criminologia: il primo consiste nell’indagare cause ed effetti del crimine, il secondo consiste nell’interrogarsi sul “come” si diventa violenti, e su “come” il soggetto che delinque riesca a rendere coerente il proprio comportamento violento con la narrazione di sé e della propria vita. Ogni approccio implica difficoltà diverse. A me, Adolfo Ceretti, interessa soprattutto il secondo approccio, che richiede più di ogni altra cosa, forse, la capacità di indagare sui comportamenti violenti senza giudicarli, senza rifiutarli, senza mettersene al di fuori. È di uso comune, ormai, la parola “empatia”, ma l’empatia è necessaria in effetti, e consiste esattamente in questo, in questa disponibilità a mettersi in gioco, a sporcarsi le mani, a scendere dallo scranno. È così che sono tornato, in questo racconto, sulle tracce di famosi banditi o di persone che avevano attaccato mortalmente la vita di altre, per riascoltarle mentre ascoltavo me stesso ripercorrendo la mia vita professionale e non.

Quali strumenti e quali tecniche consentono di entrare in rapporto con i sospettati superandone le difese e la diffidenza?
Anche in questo caso la risposta è già contenuta nella risposta alle domande precedenti. Occorre, in primo luogo, essere empatici, nel senso spiegato prima. Empatico come cerco di essere nel corso delle lunghe interviste in profondità che svolgo, insieme a Lorenzo Natali quando sono a Milano, o da solo quando lavoro nelle carceri del Brasile, il Paese dove da quattro anni insegno e faccio ricerca sei mesi l’anno. Il mio è un approccio qualitativo. Non mi occupo di numeri e di statistiche, che sono decisivi – sia ben chiaro – per capire altri aspetti del fenomeno criminale. A me interessano le storie di vita, compresa la mia, che ne Il diavolo mi accarezza i capelli ripercorro quasi come se fosse uno specchio delle vite criminali che interrogo.

Quali tra i casi da Lei seguiti l’ha segnata maggiormente, umanamente e professionalmente?
Qui ci piace ricordare, fra le tante, la storia di Maurizio Azzolini. Non è un caso che ho seguito. Ma è un caso paradigmatico di elaborazione del male compiuto. Nel libro parliamo di lui. La sua giovinezza risulta inscritta in una serie di fotogrammi che rappresentano anche simbolicamente gli anni del terrorismo: quelli che lo ritraggono in un gruppo di adolescenti mentre spara in via De Amicis a Milano, il 14 maggio 1977. Quel giorno venne ucciso un vice brigadiere, Antonio Custra. Nonostante non fosse stato il proiettile sparato dalla sua pistola a colpire Custra, Maurizio venne condannato in concorso a molti anni di reclusione, scontati un po’ in carcere e un po’ in libertà condizionale. Ma su di sé ha sempre portato il peso di quel giorno, alleviandolo solo in parte attraverso l’impegno sociale: prima come educatore presso il Servizio educativo adolescenti del Comune di Milano (io l’ho conosciuto allora), poi, tutt’oggi, come direttore generale della Casa della Carità diretta da Don Colmegna, che è un’istituzione benemerita.

Come possiamo difenderci dal male che alberga tra noi?
Non possiamo difenderci dal male che alberga in noi. Possiamo solo accettare il fatto che il male “alberga” nel mondo, e gestire le paure che provoca. Come bisogna gestire le conseguenze dei reati, quel coacervo di sentimenti e di emozioni che i reati generano? La criminologia può svolgere una funzione anche sociale, anche politica, come spiegava Guido Galli, il magistrato e professore che nel 1979 venne ucciso da alcuni esponenti di un gruppo armato davanti all’aula dell’Università Statale di Milano, dove appunto insegnava (e Galli era il mio professore, con cui avrei dovuto laurearmi). Detto altrimenti, la criminologia deve sporgersi anche sulla società e sulla politica, mettendosi al loro servizio. E può suggerire risposte e formulare proposte.

Adolfo Ceretti (1955) è Professore Ordinario di Criminologia nell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. È Segretario Generale del Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale. Tra le sue pubblicazioni: Cosmologie violente (Cortina, 2009; con Lorenzo Natali) e Oltre la paura (Feltrinelli, 2018; con Roberto Cornelli). Nel 2015 ha curato, insieme a Guido Bertagna e Claudia Mazzucato, Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto (il Saggiatore). Insieme a Marta Cartabia ha scritto Un’altra storia inizia qui. La giustizia come ricomposizione (Bompiani, in corso di pubblicazione).

Niccolò Nisivoccia, nato nel 1973 a Milano, dove vive e lavora. Avvocato e scrittore. Collabora a quotidiani e riviste, fra cui principalmente il manifesto e Il Sole 24 Ore. È autore della raccolta di frammenti poetici Sulla fragilità (Le Farfalle, 2019, con nota introduttiva di Eugenio Borgna) e coautore, con Adolfo Ceretti, di Il diavolo mi accarezza i capelli (il Saggiatore, 2020). Un’altra raccolta di frammenti poetici è di imminente pubblicazione (Variazioni sul vuoto, Le Farfalle, con nota introduttiva di Nadia Fusini).

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