
L’Italia, che si affaccia alle Esposizioni ancora divisa, a Londra nel 1851 per esempio, inizia a essere recepita come una unità dagli osservatori internazionali grazie ad alcune caratteristiche ricorrenti nei prodotti presentati: accuratezza esecutiva e richiami alla gloriosa tradizione artistica. E questo nonostante oggettive differenze e anche non poche ostilità tra le aree coinvolte. Il prodotto italiano inizia a essere recepito dunque come un insieme in qualche modo “malgrado” gli italiani non ancora tali politicamente.
Questo è anche il motivo della scelta del termine “Invenzione” nel titolo del libro, termine che non dovrebbe passare inosservato e che è usato in qualche modo provocatoriamente rispetto all’utilizzo esclusivamente commerciale o, peggio ancora, sovranista, che ne viene fatto oggi. Italianità, Made in Italy, prodotto italiano, non sono una categoria dovuta e immutabile, non sono una frontiera da cui deriva protezionismo, sovranità alimentare o aberrazioni del genere, ma esiti di dibattiti e confronti culturali e soprattutto, come ho cercato di dimostrare, di una permeabilità che ha permesso a progettisti e aziende italiani di confrontarsi con i mercati e i pubblici internazionali, recependo le culture e i bisogni locali, e re-inventando le formule iniziali.
In che modo il Made in Italy si è imposto come brand globale e globalmente riconosciuto?
Come ho appena cercato di spiegare. Storicamente la “diplomazia” delle merci è una categoria ben sperimentata e la capacità del comparto produttivo italiano è stata per un lungo periodo quella di basarsi, in un numero consistente di casi, sulla collaborazione tra aziende e progettisti, tra istituzioni e gruppi di iniziativa privata, in uno scenario che ha visto tutti gli attori coinvolti prendere dei rischi, cercare modi comunicativi alternativi e, in estrema sintesi, promuovere la ricerca nell’ambito progettuale quanto produttivo.
Nel libro si legge come l’amplissima eco di cui il Made in Italy ancora gode non sarebbe stata possibile senza l’amplificazione promossa dai protagonisti della cultura (alta e pop) e dal pubblico internazionali. I clichè che oggi tanto ci danno fastidio sono quelli che in gran parte hanno fatto la fortuna del prodotto italiano. La “dolce vita”, la creatività, il clima, il buon cibo, sono parole chiave spese fin da tempi remoti. Vasari attribuiva alla mitezza delle condizioni atmosferiche e alla dolcezza dei paesaggi l’”addomesticamento” delle popolazioni barbare che avevano segnato la fine dell’Impero romano. Una formula quindi ben più antica del Made in Italy, che gli osservatori internazionali hanno conservato e che in Italia è stata accuratamente rinforzata, declinata, articolata, fino a giungere al successo -e alla banalizzazione per certi versi- odierni.
Quali palcoscenici hanno fornito al prodotto italiano una maggiore eco e quali dinamiche vi hanno accompagnato la costruzione di una sintesi potente come quella del Made in Italy?
La rinomanza del “fatto in Italia” ha attraversato fasi mutevoli e con diversi interlocutori, a seconda dei momenti storici. In particolare lungo il XX secolo gli accadimenti hanno fortemente condizionato la reputazione del prodotto italiano. Le due decadi fino alla prima guerra mondiale sono caratterizzate dai timidi tentativi di affacciarsi al mercato internazionale con prodotti legati alle tradizioni artigianali, al limite del folklore o del copismo dell’arte classica, catturando l’attenzione nei paesi nordici, da sempre tra i più attivi protagonisti del grand-tourismo. Nel Regno Unito e negli USA si impiantano rapidamente aziende che propongono copie di statuaria romana o mobili da giardino con piedi di leone per arredare parchi e terrazze. In Svezia, grazie a rapporti personali nati durante viaggi nelle due direzioni, vengono dedicate mostre al prodotto italiano e -per la prima volta- gli spaghetti sbarcano nella baia di Stoccolma, insieme a tappeti, ceramiche, ferri battuti che si prestano a comparazioni con l’artigianato locale, primitivo ma spontaneo e, di conseguenza, percepito come moderno.
Durante gli anni del Regime, anche grazie alle nuove istituzioni per la promozione del commercio internazionale, i mercati privilegiati sono gli Stati Uniti e ancora i paesi nordici. Grazie alla formula della “casa all’italiana” che include arredi, tessuti, ma anche cibi, abbigliamento, accessori, i colori e i semplici oggetti delle isole del Mediterraneo diventano rapidamente “oggetto del desiderio” insieme ai raffinatissimi vetri, ceramiche, smalti, ma anche automobili, armi e apparecchi di precisione che la propaganda diffonde nei paesi dell’America Latina e in quelli che appartengono alle potenze dell’Asse, soprattutto dopo le sanzioni.
Nel secondo dopo guerra sono di nuovo gli USA, anche ne quadro del piano Marshall, a sostenere attivamente e amplificare la notorietà del Made in Italy grazie a un’azione concertata di “ripulitura” dell’eredità del Ventennio e di accentuazione delle caratteristiche delineate precedentemente. Il mito del Mediterraneo fascista diventa “la dolce vita” e ovunque si celebra l’Italian Renaissance, anche attraverso il prodotto. Il design diviene uno dei più potenti ambasciatori dello stile italiano: creativo, fantasioso, scultoreo, autoriale, ma anche in molti casi abbordabile, culturalmente più che economicamente. Alle ammiratissime fuori serie firmate da Pininfarina, fanno da controcanto le compattissime macchine per scrivere Olivetti e la Vespa.
In che modo il design italiano ha consentito l’assimilazione e la restituzione delle varie immagini dell’Italia nel mondo?
Il design o, come direbbe Baudrillard, il “sistema degli oggetti”, anche a cavallo del passaggio e coesistenza tra le arti applicate e il prodotto industriale, è un mezzo simbolico potente. Non per nulla l’azione del designer è stata definita come quella di dare un significato a una funzione. Inoltre gli oggetti, in quanto merci, circolano molto facilmente, più facilmente di altri esiti della cultura progettuale come l’architettura e in maniera più condivisa e diffusa di quanto non avvenga per le arti visive e di ricerca. Quindi i manufatti/artefatti, firmati, dotati di un marchio di fabbrica e di origine sono oggettivamente tra i più efficaci ambasciatori dell’immagine culturale, tecnologica, artistica di un paese. Nel caso dell’Italia poi, e in particolare dagli anni Cinquanta del secolo scorso, tutte le basi gettate durante il Ventennio -istituzioni per la promozione da una parte e formula progettuale veicolata grazie a due tra le testate ancora oggi leader nel mondo, “La Casabella” e “Domus” dall’altra, vengono sviluppate per dare origine a un vero e proprio sistema del design. Ancora le riviste, premi (il Compasso d’Oro), convegni internazionali, ma soprattutto aziende che ricorrono massicciamente a progettisti -spesso architetti- proprio per rinnovare le tradizioni produttive e contribuire a “inventare” gli ingredienti di ricette sempre più sofisticate e pervasive. Designer e progettisti italiani vengono così accolti in tutto il mondo, insieme alle loro creature, come conferenzieri, curatori, soggetti di mostre dedicate, vere e proprie star anche nelle fiere commerciali. Sullo sfondo, in modo autonomo, senza particolari protezioni o supporti pubblici, troviamo imprese e imprenditori che investono sia nella progettazione/produzione, puntando spesso su gruppi di designer di primissimo piano in équipe con altri specialisti, sia sulla comunicazione.
Nel 1972 e poi nel 1989, prima una mostra, la più estesa e costosa al MoMA di New York, poi un convegno-kermesse ad Aspen in Colorado, interamente dedicati al design italiano (inclusi, architettura, grafica, moda, gourmandise, fotografia..) sono interamente finanziati da aziende italiane pur lasciando totale libertà a curatori, relatori, progettisti. La eco che questi episodi provocano è enorme, con una grande quantità di reportages, articoli, curiosità e.. desiderio. Questa formula ha funzionato secondo me in modo virtuoso fino agli anni Ottanta, decennio che chiude la mia ricerca. Poi si è vissuto un po’ di rendita, e la vivacità e profondità del dibattito si sono perse nel marketing, nelle -legittime- rivendicazioni sul piano internazionale, divenendo meno interessante dal punto di vista del progetto, pur costituendo ancora una consistente parte del Pil.
Elena Dellapiana, Architetto, PhD, è professoressa Ordinaria di Storia dell’Architettura e del Design presso il Politecnico di Torino. Ha pubblicato saggi e monografie sulla storia dell’architettura, della città e del design del XIX e XX secolo, sul rapporto tra le arti applicate, il design e il “sistema delle arti”. Tra le pubblicazioni, la collaborazione al volume Made in Italy. Rethinking a Century of Italian Design, a cura di K. Fallan e G. Lees Maffey London, (Bloomsbury, 2013), le monografie Il design della ceramica in Italia 1850-2000 (Milano, Electa, 2010), Il design degli architetti italiani 1920-2000 (Milano, Electa, 2014, con F. Bulegato), Una storia dell’architettura contemporanea (Torino, Utet, 2015-2021, con G. Montanari), Il design e l’invenzione del Made in Italy (Torino, Einaudi, 2022).