“Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto” di Andrea Lavazza e Luca Sammicheli

Dott. Andrea Lavazza, Lei è autore con Luca Sammicheli del libro Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto edito da Codice: quale profilo della volontà umana descrivono le più recenti scoperte della ricerca neuroscientifica?
Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, Andrea Lavazza, Luca SammicheliIl tema della volontà si declina soprattutto nei termini della libertà che vi soggiace. E le neuroscienze hanno cominciato da alcuni decenni a intervenire nel secolare dibattito sul libero arbitrio. Nello studio più famoso e discusso, pubblicato nel 1983 da Benjamin Libet, molti hanno voluto vedere una confutazione empirica dell’esistenza del libero arbitrio classicamente inteso come la capacità di scegliere consapevolmente e autonomamente tra due corsi di azione. L’esperimento è condotto con elettroencefalogramma, elettromiografo e un particolare orologio. I partecipanti sono chiamati a piegare il polso o un dito quando vogliono a partire dal momento in cui lo sperimentatore dà il via. Accade che i volontari prendano le loro decisioni inconsciamente circa mezzo secondo prima che il muscolo si attivi e se ne rendano conto circa un terzo di secondo dopo. Ma noi riteniamo che un’azione è libera solo se deriva dalla decisione, presa consapevolmente, di eseguirla. Quindi, le persone probabilmente non prendono mai decisioni consapevoli nel fare le cose. La conclusione è che (probabilmente) non c’è nessuna azione libera nel senso di una decisione consapevolmente voluta e presa in quel momento, poi seguita dall’esecuzione dell’azione corrispondente.

Nell’esperimento di Libet, durante l’esecuzione del compito l’attività elettrica cerebrale è registrata tramite elettrodi. L’attenzione è focalizzata su uno specifico potenziale cerebrale negativo, ovvero il RP, originato dall’area motoria supplementare. Il RP è visibile nel segnale EEG come un’onda che parte prima di ogni movimento volontario, ma risulta assente o ridotto prima di movimenti involontari e automatici. Il RP che culmina nell’esecuzione del movimento comincia nelle aree motorie prefrontali molto prima del momento in cui il soggetto sembra aver preso la decisione: i partecipanti si rendono conto della loro intenzione di agire circa 350 millisecondi dopo l’avvio del RP. ll processo volontario sembra iniziare inconsciamente 550 ms prima che l’azione venga eseguita nel caso di azioni non pianificate e 1000 ms prima nel caso di azioni pianificate.

Sulla base di questi dati, ampiamente confermati da altre replicazioni, e di ulteriori studi con la risonanza magnetica funzionale, è andata diffondendosi, ben al di là dell’ambito degli studiosi, l’idea che sia stata dimostrata sul piano strettamente scientifico l’inesistenza della libertà degli esseri umani, nell’accezione di una capacità di controllo cosciente dei nostri atti.

Questa convinzione non mi sembra giustificata per varie ragioni. Innanzi tutto, le decisioni che si prendono in laboratorio non sono vere decisioni esistenzialmente importanti per le persone che partecipano allo studio. In secondo luogo, l’interpretazione del potenziale di prontezza è assai controversa: studi recenti sembrano indicare che si tratta non di un elemento causale, ma solo di un elemento che accompagna la decisione. Anche negli esperimenti più recenti, che hanno provato a prevedere, grazie all’analisi dei processi cerebrali in tempo reale, le decisioni che i soggetti avrebbero preso di lì a pochi secondi non sono dirimenti, perché la percentuale di previsioni corrette è sopra il 50% ma abbondantemente sotto il 100%.

In conclusione, la volontà umana sembra certamente uscire ridimensionata dalla ricerca scientifica contemporanea: non è quella libera e ferrea determinazione che ci piace immaginare se non, probabilmente, in pochi casi. Ma non possiamo per questo dire che non godiamo mai di libero arbitrio e che la nostra volontà sia solo un’illusione che nasconde meccanismi automatici, inconsci e, in definitiva, deterministici. Chi sostiene questa idea, e non sono pochi gli scienziati e i filosofi, ha ancora, a mio avviso, l’onere di provarla in modo più convincente.

Quanto sappiamo delle motivazioni e dei meccanismi che portano alcune persone a commettere reati?
La criminologia è una scienza antica, anche se non sempre si è chiamata in questo modo. Le motivazioni del crimine sono state via via considerate insondabili e misteriose; chiare e attribuibili agli umori prevalenti nel nostro organismo; evidenti e legate all’educazione, all’ambiente e alla società… Oggi una tendenza crescente riprende idee del passato aggiornate grazie alle neuroscienze cognitive contemporanee per sostenere che sia il funzionamento cerebrale di per sé, inconscio e incorreggibile, che guida il nostro comportamento, sia esso rispettoso della legge o criminale. Ovviamente, le cose sono molto più complesse. Dai geni alla condotta ci sono molti altri elementi causali. Per esempio, tra le ormai innumerevoli ricerche tecnicamente raffinate, si può considerarne una sulle origini del comportamento impulsivo che si presta a differenti interpretazioni, realizzato da Bevilacqua e colleghi nel 2010.

L’impulsività è la tendenza ad atti non ponderati, a una minore inibizione degli istinti e a una mancata considerazione delle conseguenze delle proprie azioni. Le manifestazioni comportamentali dell’impulsività accentuata comprendono le dipendenze, il disturbo di iperattività e altre patologie psichiatriche, oltre al suicidio e a condotte criminali, quali le aggressioni e la piromania. Da tempo si collega tutto ciò al funzionamento alterato del sistema cerebrale della serotonina. Lo studio in questione si è concentrato sulla popolazione finlandese perché si tratta di un gruppo relativamente “isolato” geneticamente, originato da due migrazioni di 4000 e 2000 anni fa. Individuato un campione di 96 persone con precedenti penali per delitti di impeto (violenze non premeditate e non finalizzate a un vantaggio personale), a confronto con un campione di cittadini senza problemi di devianza, si sono analizzati 14 geni “sospettati” di avere un ruolo di predisposizione. E alla fine è stato individuato un allele, specifico della popolazione finlandese, del gene Htr2b.

Esso, che ha maggiore espressione in alcune aree cerebrali, nella versione “nordica” contiene un cosiddetto codone di stop (q20*) che impedisce la sintesi della proteina recettore della serotonina Htr2b. L’“errore” è tre volte più frequente tra i violenti (che hanno storie familiari di disturbi psichiatrici) che nel gruppo di controllo. Il team autore dello studio ha ulteriormente verificato il ruolo di tale assetto genetico sul comportamento creando topi geneticamente modificati che avessero la stessa sequenza “difettosa”. Gli animali così costituiti hanno mostrato un comportamento assai più impulsivo della media, secondo vari indicatori. Ciò sembrerebbe mostrare che lo specifico allele ha un ruolo causativo di qualche rilievo nella genesi del comportamento impulsivo.

Va però specificato che la presenza dell’allele non è né sufficiente né necessaria. Infatti, non tutti coloro che hanno la versione mutata dell’Htr2b sono incapaci di tenere a freno l’impulsività e non tutti coloro che manifestano comportamenti aggressivi hanno l’allele “difettoso”. Anzi, sono gli stessi ricercatori a sottolineare il ruolo della mediazione ambientale e dell’abuso di alcol (che a sua volta però può essere frutto dell’impulsività) all’origine di condotte devianti e antisociali. Un’analogia calzante per il ruolo dei fattori genetici sul comportamento può essere istituita con i fattori di rischio cardiovascolare (pressione alta, obesità, diabete, colesterolo elevato): chi manifesta quelle alterazioni dei parametri fisiologici tanto più facilmente può essere colpito da infarto; ma c’è chi vive a lungo anche con valori fuori norma e c’è chi, giovane e sano, è vittima di accidenti cardiaci.

Insomma, è difficile attribuire al solo corredo genetico la spinta irrefrenabile a condotte criminose. Lo stesso vale per ogni altra singola causa. Ciò non significa che non abbiamo fatto progressi, ma semplicemente che in ogni situazione si deve fare un’analisi complessa dei moventi che portano quello specifico individuo a commettere quello specifico reato.

In che misura dobbiamo considerare responsabili dei propri atti gli imputati sotto processo?
Gli approcci puramente scientifici confliggono con la tradizionale concezione del diritto, perché concetti e istituti come imputabilità e colpevolezza fanno riferimento ad aspetti normativi e convenzionali. Tuttavia, il diritto trova nelle neuroscienze sempre maggiori sollecitazioni e comincia anche a rispondervi in modo strutturale. Fra i casi recenti e più significativi da segnalare, vi è la riforma della giustizia penale minorile olandese, che è stata orientata dal legislatore esplicitamente nel senso delle più recenti acquisizioni sperimentali sulla maturazione del sistema nervoso. È infatti noto che la corteccia prefrontale, area associata al controllo degli impulsi e alla pianificazione del comportamento, raggiunge la sua piena funzionalità in media dopo i vent’anni.

Questa circostanza, se inquadrata in una prospettiva che vede nel correlato neuronale l’elemento prevalente e condizionante rispetto alle intenzioni in senso mentalistico, fa sì che l’adolescente il quale commette un reato non possa essere considerato davvero come mosso da una volontà autonoma – e quindi pienamente responsabile e imputabile – perché costitutivamente impossibilitato da uno sviluppo incompleto del proprio cervello rispetto a un adulto sano. Anche in passato l’introduzione di un codice minorile era giustificata dall’evidenza che i più giovani non hanno ancora pieno uso delle risorse cognitive, ma la riforma olandese introduce specificamente un paradigma naturalistico e organicistico. Ed esso potrebbe suggerire che anche il naturale mutare delle prestazioni cognitive nella vecchiaia debba diventare oggetto di una diversa valutazione giuridica come avviene per i ragazzi.

Si tratta dell’idea che siano le neuroscienze gli strumenti migliori per conoscere l’essere umano, così come è la fisica lo strumento migliore per conoscere il mondo che ci circonda e ogni altro sapere sia meno efficace e affidabile. Lo stesso vale per i cosiddetti neurointerventi (dal calco inglese) o la neurocorrezione, tecniche che agendo direttamente sul funzionamento del cervello possono impedire al reo di ripetere il reato o a un individuo ritenuto pericoloso di commettere crimini. Si tratta di stimolatori elettrici impiantabili o di pompe collocate sottopelle per rilasciare farmaci (per esempio, stabilizzatori dell’umore) che potrebbero costituire alternative al carcere per coloro che accettassero di sottoporsi a queste nuove misure di prevenzione.

Il dibattito sulla prospettiva di rendere la pena un trattamento medico sul cervello del condannato solleva ovviamente numerose questioni etiche. L’oggettivazione della condotta e del suo possibile cambiamento a fini pro-sociali segnala tuttavia l’apertura di una prospettiva radicalmente alternativa a quella della libera scelta dell’individuo, che è il polo opposto rispetto alla tendenza a considerare il livello cerebrale quello più autenticamente causale da una parte e rivelatore di chi siamo dall’altra.

Probabilmente, siamo in un punto intermedio (ancora ignoto) di questo continuum. Non risulta più possibile illudersi d’essere agenti razionali in controllo di sé e del proprio ambiente, ma non siamo necessariamente marionette determinate soltanto da processi elettrochimici che si svolgono nella nostra scatola cranica. E anche la nostra mente si estende e si ibrida con l’ambiente e con i dispositivi digitali in combinazioni funzionali che sollevano nuovi interrogativi e dilemmi circa l’identità e la responsabilità.

Quali ricadute giuridiche, filosofiche e sociali sono destinate a produrre le nuove acquisizioni delle neuroscienze?
Nel libro ci concentriamo sulle ricadute giuridiche. È evidente che le neuroscienze saranno sempre più protagoniste nel processo penale, a motivo delle nuove conoscenze sui moventi del comportamento e in tema di libertà e di volontà, come visto in precedenza. Ciò non toglie che i processi cerebrali che andiamo scoprendo a passo rapido non abbiano crescente influenza anche su altre branche del diritto. Sembra, anzi, che in ambito civile sia meno controversa l’applicazione delle nuove conoscenze, a partire dalla diagnosi dei danni provocati da incidenti e disabilità per arrivare al dolore cronico, oggetti di un amplissimo contenzioso legale a livello planetario. E lo stesso potrebbe accadere per la memoria e la testimonianza in ogni ambito del diritto. Si disporrà di più solide basi empiriche per decisioni (neuro)scientificamente informate. Ma, ancora una volta, non sono i dati grezzi che diventano ipso facto giurisprudenza senza una mediazione concettuale. E qui può soccorrere, oltre ovviamente alla millenaria e sempre aggiornata dottrina giuridica, quella che rimane la più efficace e affidabile scienza del comportamento, da sempre fedele alleata del diritto.

Parlando di neuroscienze e diritto, resta infatti aperta la questione del rapporto tra le moderne neuroscienze e le classiche scienze del comportamento (psicologia e medicina, in primis). I rapporti tra neuroscienze e psicologia paiono essersi sfumati in un biologicismo più in linea con il mainstream oggi prevalente che realmente basato su evidenze. In questo senso, e qui l’approccio indiretto del nostro volume, i rapporti tra diritto e neuroscienze aiutano a fare emergere qualche discrasia. Lo schema è questo. Il diritto è in ultima analisi un sistema codificato di giudizio di comportamenti (si applica alle persone, non alle cose). Il diritto, quindi, è per definizione un sistema strutturalmente implicante l’utilizzo della psicologia (intesa come scienza del comportamento). Nella normale attività giudiziaria, la psicologia che viene utilizzata è quella delle massime di comune esperienza, ossia i giuristi applicano tutti i giorni una psicologia non scientifica (o di senso comune), in quanto appartiene al normale bagaglio di conoscenze dell’individuo medio. Così, per esempio, non occorre la scienza per affermare che, se sparo in una certa direzione e a una certa distanza, volevo uccidere; oppure, per stabilire che, normalmente, la relazione con la madre è importante per la crescita del bambino; o, ancora, per affermare che la firma apposta in calce a un contratto esprime la volontà di fare proprio quel fascio di impegni e benefici incrociati che costituisce il sinallagma contrattuale.

Il problema di fondo che si pone nell’ambito della psicologia forense è quello di stabilire quando la psicologia cessa di appartenere al comune dominio di conoscenza di ogni cittadino per diventare qualcosa di scientifico, ossia che richiede il sapere dell’esperto. Ebbene, la traduzione di molti temi della psicologia in chiave neuroscientifica potrebbe indirettamente suggerire che essi debbano uscire dal dominio giuridico-politico per entrare in quello scientifico. In parole semplici, quello stesso tema che descritto in termini psicologici pare essere di competenza dei giuristi, diventa di competenza degli scienziati una volta ri-definito in termini neuroscientifici.

Qui si gioca un aspetto cruciale. Il passaggio dal giuridico allo scientifico segna in ultima analisi il confine della politica in senso ampio. A ben vedere, infatti, il confine del giuridico è un confine del politico: il giudice è lo scienziato della politica, nel senso che è colui che si pronuncia su quei fenomeni che esistono sulla base di un atto politico. La norma, infatti, è un atto politico, che rende possibile l’esistenza del fatto giuridicamente rilevante. Senza norma, quello stesso fenomeno naturale, non esiste in quanto fatto giuridico. Di più: la norma crea una nuova categoria di fenomeni: quelli giuridici che così si affiancano a quelli naturali (si veda sotto).

Si può così meglio comprendere quella che è spesso chiamata «rivoluzione alle porte». La possibile – vera – rivoluzione delle “neuroscienze” non consiste tanto nella nuova integrazione delle diverse discipline nello studio del cervello quanto nella possibile completa riduzione – via correlati cerebrali – del comportamento a fenomeno naturale. Dunque, in quanto questione centrale, a slittamento di competenze dal dominio politico a quello scientifico. E questo mi sembra una delle ricadute principali delle acquisizioni delle neuroscienze nel loro complesso, sulla quale vi è necessità di riflettere con attenzione.

Andrea Lavazza, filosofo morale e neuroeticista, è senior research fellow al Centro universitario internazionale di Arezzo e professore a contratto all’Università di Pavia. Tra i suoi libri: Quanto siamo responsabili? Filosofia, neuroscienze e società (Codice edizioni, 2013; con Giuseppe Sartori e Mario De Caro), Manipolare la memoria (Mondadori Università, 2013; con Silvia Inglese), Filosofia della mente (La Scuola, 2015), La guerra dei mondi. Scienza e senso comune (Codice edizioni, 2016; con Luca Sammicheli) e Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio (Codice edizioni; con Mario De Caro e Giuseppe Sartori).

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