
Alla stabilizzazione del debito pubblico negli anni 1994-96 segue una fase di riduzione, che poteva essere più incisiva; si è persa un’opportunità importante per mettere al sicuro le finanze pubbliche del paese.
Dal 2008 si avvia un nuovo periodo di accumulo del debito che nello spazio di 13 anni passa dal 104% del 2007 al 155% del PIL nel 2020. Questa volta la crescita dell’indebitamento non è però il risultato di politiche di bilancio espansive (fa eccezione il solo 2020, con i forti interventi di sostegno alle famiglie e alle imprese colpite dalle restrizioni legate alla pandemia) ma l’effetto di tre violente recessioni, legate alla crisi finanziaria globale, a quella dei debiti sovrani e alla diffusione del Covid-19.
Da cosa è costituito il debito pubblico italiano?
Premetto che una informazione statistica dettagliata e aggiornata sul debito pubblico italiano è fornita nella sezione Statistiche/Finanza Pubblica del sito web della Banca d’Italia.
Gran parte del debito è composto da titoli obbligazionari; al loro interno, quelli a medio-lungo termine (sono soprattutto Buoni del Tesoro Pluriennali, BTP) sono quasi l’80% del debito complessivo; i titoli a breve (soprattutto i Buoni Ordinari del Tesoro, BOT) sono prossimi al 4%. I prestiti superano il 7%. Una parte significativa del debito residuo è poi rappresentata da depositi presso la Tesoreria dello Stato di soggetti esterni alle Amministrazioni pubbliche (soprattutto Cassa Depositi e Prestiti).
Il peso delle diverse componenti del debito si è modificato nel tempo. Dall’Unità d’Italia alla fine degli anni ’20 del secolo scorso, il debito irredimibile (la cosiddetta “rendita”) costituiva la gran parte del debito pubblico; di contro, negli anni Settanta e in buona parte degli anni Ottanta la quota dei titoli a breve termine o indicizzati a breve è divenuta preponderante, in connessione con l’elevato livello dell’inflazione che rendeva più difficile e rischioso emettere titoli a lungo termine a tasso fisso.
La composizione per strumenti influisce su una caratteristica cruciale del debito pubblico: la sua vita media residua. Quest’ultima, prossima a 1 anno all’inizio degli anni Settanta, a metà del 2022 era di 7,7 anni. La vita media del debito fornisce una indicazione sulle dimensioni dei rimborsi annuali – e quindi delle emissioni necessarie per finanziarli. Una vita media residua di 8 anni implica che ogni anno, in media, il Tesoro italiano deve rimborsare, e quindi ricollocare titoli, per circa un ottavo dell’intero debito pubblico.
Infine, va osservato che la maggior parte del debito è in capo allo Stato; i debiti delle Regioni, Province e Comuni sono, e sono sempre stati, assai modesti e attualmente rappresentano complessivamente circa il 3% del totale, riflettendo i rigidi limiti all’indebitamento posti alle Amministrazioni locali.
Cosa rivela il confronto con gli altri paesi?
Il confronto mostra che il debito pubblico italiano è tra i più elevati in Europa e nel mondo.
Nell’ambito dei 27 paesi della UE, alla fine del 2021 l’Italia aveva il debito più elevato in rapporto al PIL dopo la Grecia, superiore di 71 punti percentuali alla media europea (esclusa l’Italia).
Con riferimento agli oltre 140 paesi non UE oggetto delle statistiche sul debito pubblico del Fondo Monetario Internazionale, nel 2020 presentavano un debito superiore a quello italiano solo 6 paesi: Venezuela (304%), Sudan (273%), Giappone (254%), Eritrea (185%), Capo Verde (158%), Singapore (155%).
Ci sono casi in cui è appropriato indebitarsi?
Il debito pubblico è uno strumento potente a disposizione della collettività per accrescere il suo benessere e quello delle successive generazioni. Deve essere utilizzato però, con parsimonia, a fronte di spese che si giustificano o per la natura eccezionale dell’evento a cui fanno fronte ˗ una recessione violenta, una guerra o una calamità naturale ˗ o per l’impatto di lungo periodo sulla crescita economica del paese, che assicuri indirettamente le risorse per il servizio del debito.
Nella storia d’Italia, forse, il momento in cui esso ha meglio svolto un ruolo positivo è stato quello dei primi anni dopo l’Unità, quando più impellente era la necessità di unire e sviluppare il paese con ingenti investimenti pubblici e più difficile il ricorso alle imposte. Il ricorso al debito è stato inoltre indispensabile in occasione delle guerre mondiali e nelle tre violente recessioni registrate negli ultimi 13 anni, per sostenere temporaneamente i redditi delle famiglie e le imprese.
Un caso meno virtuoso è senz’altro l’accumulo di debito avvenuto in Italia per un trentennio, a partire dalla metà degli anni Sessanta, volto a finanziare un vertiginoso aumento delle spese correnti. L’elevato debito contratto è divenuto una zavorra per la nostra economia e per i nostri conti pubblici, conducendoci alle due crisi finanziarie del 1992 e del 2012.
Rimane attuale l’insegnamento degli economisti classici: il debito va utilizzato in caso di eventi eccezionali e rimborsato in situazioni normali, per essere disponibile nuovamente quando le necessità lo richiedano.
L’indebitamento comporta necessariamente oneri per le successive generazioni?
La questione ha appassionato per quasi tre secoli uomini di cultura, economisti, filosofi e statisti. Nelle scienze sociali, dove la validità delle teorie è messa costantemente alla prova dalla instabilità dei comportamenti umani, è sempre difficile dare giudizi oggettivi. Tuttavia, sembra possibile sostenere che le argomentazioni che negano conseguenze avverse per le generazioni successive si sono dimostrate o fallaci o non sufficientemente generali per poter essere una guida affidabile nelle decisioni. Il debito pubblico senza costi non è un ossimoro, ma è possibile solo per paesi con una solida reputazione, relativamente al riparo dalla volatilità dei mercati finanziari, e in scenari previsivi a lungo termine caratterizzati da tassi d’interesse e di crescita molto favorevoli; si tratta di condizioni poco realistiche per l’Italia, soprattutto in questo momento storico. Ne deriva che l’indebitamento pone prima di tutto un problema morale verso i giovani italiani e le successive generazioni.
Esiste un limite oltre il quale il debito diventa insostenibile?
Non vi è un limite, comunque espresso, oltre il quale si verifica automaticamente un default. Nel 1821, alla fine delle guerre napoleoniche, il debito pubblico della Gran Bretagna raggiunse il 261% del PIL. Perché gli investitori, nonostante l’enorme dimensione raggiunta dal debito, credettero nella sostenibilità del debito della Gran Bretagna e continuarono a farle credito? È probabile che sulla loro fiducia abbiano influito una molteplicità di fattori. Tra di essi vi erano sicuramente la qualità delle istituzioni inglesi, che rendeva credibile la restituzione del debito, e l’adozione di specifici fondi (sinking fund) finalizzati al suo rimborso. Furono però importanti anche i successi militari – se Napoleone avesse vinto a Waterloo forse la storia finanziaria del Regno Unito sarebbe stata differente – e le prospettive economiche legate al predominio dei commerci marittimi raggiunto alla fine del Settecento.
Oggi, è il Giappone ad avere un debito elevatissimo, pari al 263,1% del PIL nel 2021. Su di esso, però, il paese paga tassi d’interesse bassi e stabili. Questa favorevole situazione riflette, in parte, i cospicui asset finanziari detenuti dal settore pubblico: il debito calcolato al netto di essi è “solo” il 168,9% del PIL. Altri fattori che spiegano il caso giapponese sono la grande omogeneità e stabilità politica del paese, la sua elevata posizione netta sull’estero, il fatto che quasi il 90% del debito sia detenuto da istituzioni o da cittadini giapponesi e il livello relativamente basso delle entrate e delle spese, che dà un ampio margine di manovra alla politica di bilancio.
All’altro estremo, nei paesi in via di sviluppo, in cui generalmente le passività pubbliche sono denominate in valuta estera, si registrano episodi di insolvenza a livelli relativamente bassi del rapporto debito/PIL.
L’esperienza storica mostra quindi che una situazione di insolvenza può verificarsi a livelli molto diversi di debito pubblico. La principale spiegazione di questa estrema variabilità è che un default è sempre il risultato di una interazione, non meccanica, tra il governo del paese debitore e i suoi creditori (effettivi e potenziali), su cui influiscono, tra l’altro, le aspettative circa eventi futuri. Il dato del rapporto tra il debito pubblico e il prodotto è, quindi, un elemento importante ma spesso non dirimente. Sulla sostenibilità del debito rilevano numerosi altri fattori, quali la composizione del debito – per valuta, durata e nazionalità dei detentori – la reputazione del paese e le sue istituzioni, le prospettive di crescita e il contesto sovranazionale in cui opera.
Si potrà mai azzerare il debito pubblico italiano?
Non è necessario azzerare il debito, è sufficiente ridurlo in rapporto al PIL (ossia in rapporto alle dimensioni della nostra economia). Se mantenessimo stabilmente in equilibrio i conti pubblici, il debito rimarrebbe costante in termini nominali e il rapporto debito/PIL si ridurrebbe ad un ritmo tutto sommato adeguato per effetto della crescita del denominatore.
Questa strada equivale sostanzialmente al rispetto degli impegni presi con i nostri partner europei e intraprenderla richiede una certa dose di sacrifici. Non è però un cammino eccessivamente difficile o che nessuno ha percorso prima. Al contrario, è stato seguito con successo dalla maggior parte dei paesi avanzati nella loro storia recente.
Sulla base di stime ragionevoli relative alla crescita nominale del PIL, il conseguimento in pochi anni del pareggio di bilancio e la successiva stabilizzazione di tale risultato permetterebbe di riportare il debito sotto al livello del PIL nell’arco di un quindicennio. Mantenere il pareggio di bilancio per ulteriori 5 anni allineerebbe il nostro debito al valore medio registrato nell’Unione Europea a fine 2021 (87% del PIL). Portare avanti un tale programma ci metterebbe probabilmente al riparo dalle crisi di fiducia anche in caso di eventi globali sfavorevoli; potrebbe essere perfino fonte di vantaggi se, in uno scenario che può sembrare oggi poco realistico, rendesse l’Italia un “porto sicuro” agli occhi degli investitori in una crisi finanziaria, come succede alla Germania.
Sandro Momigliano è nato nel 1960 a Roma, è sposato e ha tre figli. Laureato nel 1984 a Roma in Economia con il prof. Federico Caffè, nel 1984-85 studia all’ISTAO (Ancona) e nel 1985-86 al Massachusetts Institute of Technology. Nel 1987 entra nel Servizio Studi della Banca d’Italia; nel 2007-2015 è responsabile della Divisione Finanza Pubblica. È stato Direttore dell’Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema universitario e della ricerca (2016-19). Da luglio del 2022 è responsabile del Servizio Tesoreria dello Stato della Banca d’Italia. Ha scritto numerosi articoli su riviste italiane e internazionali su temi di finanza pubblica.