
Anche prima, tuttavia, la penitenza era un aspetto molto rilevante per il clero e i fedeli. Nell’antichità essa era considerata un momento talmente speciale che non poteva essere reiterata, avveniva in forma solenne, presieduta dal vescovo del luogo, al massimo una volta nella vita. Poi, nell’Alto Medioevo, iniziò a diffondersi una sensibilità diversa portata sul continente europeo dai monaci pellegrini irlandesi che prevedeva una penitenza basata su un sistema di tariffe: a un tale peccato corrisponde una certa pena, secondo delle liste contenute in appositi libri poenitentiales. In un certo senso, possiamo dire che questa modalità, che prevede la confessione dei peccati a un prete, l’assegnazione di una penitenza cui segue l’assoluzione, è all’origine della confessione “moderna” che conosciamo anche oggi.
I teologi e i canonisti, soprattutto dal XII secolo in poi, si impegnarono a indagare a fondo ogni aspetto che ruota attorno alla realtà del peccato e alla sua assoluzione; allo stesso modo, cercarono di definire il concetto di «sacramento». Come avviene il perdono dei peccati? E l’assoluzione? Ci si può confessare da un prete che non è il proprio parroco? E se uno è scomunicato si può confessare? Queste sono alcune delle domande che impegnarono alcuni dei maggiori intelletti del medioevo come Abelardo, Pier Lombardo o Tommaso d’Aquino. E anche i giuristi delle nascenti università si impegnarono a cercare risposte a questi problemi poiché si attribuiva una fondamentale importanza alla giurisdizione e anche perché da determinati peccati potevano discendere conseguenze e limitazioni legali per la vita delle persone.
La confessione dei peccati, naturalmente, era – ed è – un ambito molto delicato anche dal punto di vista pastorale, perché il penitente e il confessore si trovano a doversi confrontare su un piano molto intimo e personale. Inoltre, essa poteva anche essere un momento di “catechesi” e di formazione per il penitente, che spesso come momenti di istruzione religiosa si trovava ad avere a disposizione solo la confessione e le prediche. Predicazione e confessione avevano, infatti, una relazione molto stretta e l’arte omiletica era spesso concepita come un momento di preparazione alla penitenza. In questo, la comparsa nel primo Duecento degli ordini Mendicanti porta una ventata di novità, con l’introduzione di uno stile omiletico più efficace e un’attenzione “scientifica” nei confronti dell’ars praedicandi.
In che modo il clero in cura d’anime veniva istruito affinché potesse svolgere efficacemente la sua azione pastorale?
Nel medioevo fare il prete richiedeva una certa dose di cultura, ma non per questo dobbiamo presumere che ogni prete medievale fosse in qualche modo un intellettuale; anzi, quando osserviamo le fonti del periodo il quadro che ne emerge è abbastanza desolante. All’epoca il seminario come istituzione preposta alla formazione dei futuri presbiteri non era ancora stato concepito. La gerarchia ecclesiastica si lamenta spesso dell’ignoranza e dell’inadeguatezza del clero, specialmente in quelle chiese che potevano sostentarsi solo con entrate piuttosto modeste.
La grande cultura sviluppata dai teologi e dai canonisti che abbiamo evocato prima doveva quindi in qualche modo essere mediata per poter essere più facilmente assimilata dal clero che poi aveva il compito di istruire i fedeli. Nelle università e negli studia degli ordini Mendicanti venivano prodotti grandi libri che affrontavano i problemi della teologia e del diritto canonico in modo molto analitico e sistematico, ma queste opere raramente potevano finire nelle mani del prete medio: si trattava infatti di volumi di grandi dimensioni e quindi anche molto costosi da realizzare in un’epoca che non aveva ancora inventato la stampa. Per questa ragione venivano prodotti anche dei libri più piccoli e maneggevoli che contenevano grossomodo ciò che era indispensabile sapere – il manuale di Lur, come diremo più avanti rientra in questo genere.
Anche per la predicazione venivano prodotti delle raccolte di omelie “preconfezionate” oltre che delle raccolte di miracoli, exempla estratti delle vite dei santi e racconti moralizzanti. Non mancavano poi tutto un insieme di opuscoli e persino di fogli volanti che dovevano servire al prete medievale come i ferri del mestiere per compiere in maniera adeguata il suo ministero. Tuttavia, si tratta di materiale che per sua natura è piuttosto fragile e che si usura facilmente e, pertanto, a noi non è arrivato poi molto. È una fortuna che il manuale di un personaggio “minore” come Heinrich Lur sia arrivato sino a noi.
Chi era Heinrich Lur e qual è il contenuto del manuale?
Heinrich Lur è stato definito, in modo forse ingeneroso benché non del tutto scorretto, un «cacciatore di prebende». Questo significa che per gran parte della sua vita, fino all’età matura, ha viaggiato molto cercando di farsi assegnare qualche incarico ecclesiastico e la relativa prebenda.
Prima di diventare prete, Lur aveva studiato all’università di Lipsia, diventando persino rettore della facoltà di Arti per un semestre, studiandovi grazie a una specie di borsa di studio. Sappiamo che veniva da una famiglia di condizione piuttosto umile e per quelli come lui la carriera ecclesiastica poteva essere una via per l’ascesa sociale. Dopo aver visitato Concilio di Costanza, Lur riesce a ottenere un canonicato a Trento intorno alla metà del Quattrocento. A Trento rimane pochi anni, e durante la sua permanenza non sembra che abbia partecipato molto attivamente alle attività del capitolo, però in questo periodo inizia a stendere il De modo audiendi confessiones, dedicandolo «a tutti i preti in cura d’anime nell’episcopato di Trento».
Il manuale di Heinrich Lur è diviso in tre parti. La prima è di carattere generale, si impegna a fornire ai suoi lettori alcune conoscenze di base relativamente al sacramento della penitenza, agli impedimenti giuridici (per esempio le scomuniche) che possono sorgere, a come si devono ascoltare le confessioni e con che formula si deve usare per assolvere il penitente; la seconda parte è dedicata a un aspetto molto delicato, cioè l’ascolto delle confessioni dei moribondi; l’ultima parte invece tratta di un tema di natura più giuridica, cioè i cosiddetti “casi riservati”. Questi sono un insieme di fattispecie di peccato, variabile da diocesi a diocesi, che per la loro particolare gravità non potevano essere assolte da un prete qualsiasi, ma venivano «riservati» a un’autorità superiore, come un vescovo o un papa. All’epoca di Lur i casi riservati erano un aspetto importante del diritto canonico, e sono anche all’origine dell’istituzione della Penitenzieria apostolica.
Complessivamente, se tralasciamo l’ordine in cui vengono presentati al lettore gli argomenti, il De modo audiendi confessiones di Heinrich Lur non presenta particolari caratteri di originalità rispetto ad altre opere che appartengono allo stesso genere e allo stesso periodo. Ciò che tuttavia rende interessante il manuale, paradossalmente, è proprio questo. Gli studiosi che hanno affrontato il tema della confessione si sono concentrati solitamente sulle grandi opere per la confessione, come la Summa di Raimondo di Peñafort o la Summa Pisana di Bartolomeo da San Concordio, testi di imponenti dimensioni che non circolavano molto tra il basso clero. Naturalmente, si tratta di lavori importanti che, a loro modo, hanno fatto epoca; ma questo lascia scoperto il nodo più problematico di capire che cosa effettivamente capitasse per le mani a preti di livello culturale medio-basso e in che modo questi si preparavano a guidare il loro gregge. In altre parole, occorre studiare i possibili anelli di congiunzione tra il sapere alto e il sapere più popolare; in questo senso lo studio di un personaggio di non eccelsa levatura, come il nostro Heinrich Lur, e di un’opera che è un po’ un centone di auctoritates precedenti ci permette di avvicinarci meglio alla realtà della cura d’anime medievale, alla vita religiosa vissuta nel quotidiano e nel concreto dalla grande maggioranza dei fedeli.
Come si è articolata la tradizione testuale del manuale di Lur?
Il manuale di Lur, secondo la dichiarazione esplicita del suo autore, aveva lo scopo preciso di assistere il clero trentino; quindi, non sorprende che la sua circolazione sia stata principalmente di respiro locale. A oggi, si sono conservate quattro copie: due sono conservate nella Biblioteca capitolare di Trento (oggi nell’Archivio diocesano); un’altra si trova ad Augsburg e l’ultima a Monaco di Baviera.
Se ci pensiamo, non è scontato che ci sia arrivato più di un esemplare: significa che il manuale è stato letto e copiato. In un caso, conosciamo persino il nome del copista di uno dei codici trentini: si tratta di un certo Corrado, che faceva il pievano in Val di Sole. Ognuno dei nostri manoscritti è rilegato all’interno di codici che contengono anche altre opere, soprattutto di natura giuridica. Dobbiamo pensare a questi libri come alla cassetta degli attrezzi di un prete medievale, che dentro deve trovarci tutto l’occorrente per esercitare il suo ministero.
Da un punto di vista filologico i testi non sembrano mostrare grandi variazioni, a parte il codice di Augsburg, che presenta alcune aggiunte nella sezione sui casi riservati, probabile intervento del copista. Tuttavia, alcune minuzie sembrano suggerire che i due codici trentini e i due codici tedeschi appartengano a due rami distinti dello stemma codicum, benché si tratti comunque di testimoni molto prossimi all’antigrafo originale (che, invece, è andato perso).
Lorenzo Colombo si occupa di storia del cristianesimo medievale. Ha studiato e si è laureato nelle Università di Milano e di Trento. Attualmente sta svolgendo un progetto di dottorato sulla vicenda di Simonino da Trento presso l’università di Roma “Tor Vergata”. Nel marzo 2022 ha pubblicato la sua prima monografia con l’editore Franco Angeli, intitolata Il De modo audiendi confessiones di Heinrich Lur e la penitenza sacramentale nel basso medioevo.