“Il dado è tratto. Cesare e la resa di Roma” di Luca Fezzi

Prof. Luca Fezzi, Lei è autore del libro Il dado è tratto. Cesare e la resa di Roma edito da Laterza: quando e in quali circostanze fu pronunciata la fatidica frase «Alea iacta est»?
Il dado è tratto. Cesare e la resa di Roma, Luca FezziLa celebre frase, riportata in latino dal biografo Svetonio, fu pronunziata da Cesare nel gennaio del 49 a.C., durante il fatidico passaggio del Rubicone, prima mossa verso la conquista dell’Italia e di Roma. Il proconsole, pacificatore delle Gallie, patrizio e pontefice massimo, avrebbe dato così inizio alla vittoriosa marcia che in soli 60 giorni lo avrebbe reso padrone dell’intera Penisola. Si trattò del primo, vincente atto di una lunga guerra civile che da lì a poco gli avrebbe garantito il dominio incontrastato sull’Urbe e sul suo impero mediterraneo.

Plutarco narra che in realtà Cesare pronunziò la frase in greco.
Sì, e qui inizia una serie di problemi. Pare che Cesare abbia pronunziato la frase in greco, allora lingua colta e facilmente comprensibile agli uomini a lui più vicini. Va però ricordato che tutte le fonti greche, nel descrivere il celebre episodio, riportano un’espressione che si potrebbe tradurre con «si getti il dado». La versione iacta alea est (Svetonio, Cesare, 32), che ha ispirato il volgarizzamento cinquecentesco «il dado è tratto», ormai entrato nell’uso collettivo, è invece dubbia: già secondo Erasmo da Rotterdam (1518), est, «è», presente nella tradizione del testo di Svetonio, parrebbe corruzione da esto, «sia», ciò che avvalorerebbe le fonti greche. Una differenza racchiusa in una sola o, quindi; il titolo del volume vuole, in un certo senso, rendere omaggio a questo possibile equivoco storico.

Qual era il significato profondo di quella affermazione?
Lo scenario che si apre è duplice, proprio a seconda della considerazione o meno di quella o. «Iacta alea est», riportato dalla tradizione del testo di Svetonio, tenderebbe a indicare una decisione irrevocabile, senza ritorno: «il dado è (ormai) gettato». Del resto, anche nell’immaginario collettivo, il passaggio del Rubicone ha assunto proprio questo significato: uno spartiacque tra il prima e il dopo. Meno netto è invece lo scenario che emerge dalla versione ‘greca’, e dalla correzione di Erasmo. «Iacta alea esto», «si getti il dado», sposta infatti l’attenzione verso un futuro ancora incerto, carico di opportunità ma anche di rischi. Personalmente, preferisco questa seconda lettura, perché troppo si è insistito sul decisionismo e sull’infallibilità di Cesare. Del resto, l’incertezza dell’intera vicenda emerge da tutte le fonti. L’incertezza determinò il precipitare degli eventi e caratterizzò quel difficile presente, descritto in maniera tanto dettagliata quanto confusa nell’epistolario ciceroniano… per non parlare, naturalmente, del futuro.

Quali avvenimenti condussero Cesare alla decisione di varcare con le sue legioni il Rubicone?
È difficile dare una risposta esauriente, anche perché ciò chiederebbe di ricostruire le motivazioni più profonde degli individui. Mi sentirei però di affermare che la decisione cesariana di varcare il Rubicone fu causata in primis dalla confusione, istituzionale e politica, creatasi nei tre anni precedenti. Roma aveva assistito, a partire dall’omicidio politico di Clodio (un alleato di Cesare), a una serie di eventi destabilizzanti. Tra questi, rivolte della plebe urbana alle quali seguì l’affidamento di sempre maggiori poteri a Pompeo, ancora in buoni rapporti con Cesare ma ormai unico uomo in grado di ristabilire la situazione. Nella prima parte del 52 gli fu addirittura assegnato il consolato ‘senza collega’, una sorta di ‘mostro’ istituzionale (i consoli erano sempre stati due), e questo per evitare la dittatura, carica allora assolutamente ‘costituzionale’ ma ormai vista con sospetto. Pompeo a sua volta cercò di portare ordine nella repubblica, intaccando decisioni e norme relative a due elementi di primaria importanza per il funzionamento dell’intero sistema: i criteri di assegnazione delle provinciae e il controllo delle pratiche elettorali. Le provinciae erano i territori conquistati da Roma, assegnati in genere annualmente dal senato agli ex magistrati (tra cui Cesare). La pratica elettorale incriminata – con provvedimento anche retroattivo – era invece quella dell’ambitus, la corruzione dei votanti. In realtà né i politici né la plebe urbana desideravano un intervento in tal senso; i primi perché si sarebbero trovati sprovvisti di uno strumento ormai ben rodato, la seconda perché sarebbe stata privata di una sempre più importante fonte di sostentamento. Gli interventi di Pompeo – al quale non possiamo negare le ‘buone intenzioni’ – finirono anche per intaccare i precedenti accordi stipulati con Cesare, che avevano assicurato a quest’ultimo un mandato provinciale temporalmente lunghissimo. È inoltre possibile che Cesare temesse il carattere retroattivo della legge sulla corruzione elettorale. A quel punto, per farla breve, s’innestò una spirale devastante: il senato – organo chiamato a decidere la politica estera di Roma – non fu più in grado di fare chiarezza sul mandato di Cesare e, di conseguenza, sul futuro politico del personaggio. A un certo punto un ultimatum gli chiese di abbandonare il potere, senza però assicurargli molto. L’intera vicenda si era giocata tra proposte e controproposte, difficilmente individuabili e al centro di un dibattito critico molto serrato.

Come reagì Roma?
Male. Quando Cesare passò il Rubicone, Pompeo finì per ordinare a tutti i senatori – vale a dire l’intera classe politica – di abbandonare l’Urbe e di seguirlo nel meridione dell’Italia, per tentare una difesa. Bisogna però, a questo punto, accantonare i nostri concetti ‘moderni’ e tenere conto del fatto che Roma era ben più di una ‘capitale’. Essa era la città-stato nella quale si decideva il destino di un impero mediterraneo. Solo in essa si riunivano il popolo e il senato. Solo in essa si celebravano culti particolari, investiti anch’essi di valore politico. L’intero orizzonte dell’uomo romano era di conseguenza delimitato da luoghi e tradizioni ben precisi. L’abbandono dell’Urbe costituì, di conseguenza, una decisione inedita e impensabile: nel corso dei secoli la città era stata sempre difesa, con alterne fortune, da nemici interni ed esterni. Particolarmente interessante è anche un’altra vicenda, che molte fonti antiche – in genere concentrate sulle classi dirigenti e poco attente alle masse – descrivono come ‘minore’, ma che in realtà pare molto importante. Lucano e Cassio Dione, invece, c’informano di una popolazione gettata nel panico sia dal passaggio cesariano del Rubicone sia dalla decisione pompeiana di abbandonare l’Urbe. Alcuni pensavano che Cesare – che inizialmente aveva al seguito una sola legione o forse mezza – portasse con sé schiere di barbari – celti ma anche germani –, a caccia di bottino. Personalmente ritengo invece che ormai gran parte della popolazione urbana fosse dalla sua parte, anche perché la mossa di Pompeo l’aveva ormai definitivamente convinta del ‘tradimento’ di un’intera classe dirigente, che fuggiva non solo dall’Urbe ma anche dalle proprie responsabilità politiche: la vicenda può essere letta anche in quest’ottica.

Per quali ragioni Pompeo scelse la fuga?
Non lo sappiamo con precisione, e a ben guardare è proprio questo il maggiore tra i molti misteri dell’intera vicenda. Pompeo non fece mai, a tale proposito, dichiarazioni; possiamo tuttavia avanzare ipotesi. Innanzitutto, era impreparato: ai suoi ordini, in Italia, vi erano solo due legioni, precedentemente cesariane e quindi considerate poco affidabili. Cesare, nelle Gallie, ne aveva quasi una decina, già in marcia verso l’Italia. In secondo luogo, l’esperienza biografica, militare e politica, doveva avere fatto prendere a Pompeo un grosso abbaglio. Molti anni prima aveva pacificato i mari dai pirati e conquistato l’Oriente, ciò che aveva spinto la sua visione del mondo molto al di là di quella degli altri romani. Le sue stesse origini erano ‘municipali’: proveniente da una famiglia di possidenti del Piceno, di Roma non amava né la politica né i suoi esponenti: a partire dai senatori a scendere, sino alla plebe che, in tumultuanti assemblee, decideva anch’essa i destini del mondo. Mi sentirei di affermare che il rischio più evidente era, ai suoi occhi, proprio la sommossa popolare: la piazza stava pendendo pericolosamente dalla parte del patrizio Cesare, uomo nato e vissuto nella città, pontefice massimo e custode della legittimità religiosa. Il controllo manu militari di una metropoli di 500.000 abitanti – a maggior ragione in un mondo che combatteva all’arma bianca e nel quale, di conseguenza, la supremazia dei militari sui civili non era schiacciante – sarebbe stato impossibile. Un parimenti scarso amore per i senatori dovette favorire un cinico calcolo politico: allontanandoli dal centro del potere li avrebbe resi innocui, ed egli avrebbe potuto assurgere, in virtù della propria esperienza militare, a ‘signore della guerra’ e ad arbitro della situazione. Sono invece molto più scettico nei confronti di una recente lettura, fortunata e suggestiva ma a mio avviso priva di solidi riscontri: Pompeo avrebbe mirato al blocco navale, per affamare Roma o addirittura l’intera Penisola. Non dico che la mossa fosse tecnicamente impossibile, ma le fonti vanno sempre contestualizzate. A ben guardare, le uniche a parlarne sono alcune lettere ciceroniane, che sembrano ispirate più da spirito polemico contro Pompeo che da conoscenza delle strategie del personaggio… e, del resto, come potremmo pensare che un progetto criminale di così vasta portata possa non essere stato denunziato dallo stesso Cesare, che nel suo resoconto della Guerra civile sottolinea abilmente ogni colpa degli avversari? In sintesi, ritengo che la fuga di Pompeo sia stata una scelta obbligata, per quanto assolutamente disastrosa.

Quali conseguenze ebbe la fuga pompeiana?
Le conseguenze furono varie. Da un punto di vista strategico-militare, essa, a mio avviso, produsse un effetto contrario a ogni aspettativa di Pompeo. Il possidente del Piceno contava in primo luogo sull’appoggio dei municipia, i centri italici, per ottenere nuove leve. Ma chi avrebbe potuto sperare nella salvezza, dopo avere saputo dell’abbandono della stessa Urbe? A che scopo impegnarsi e sacrificarsi, dal momento che Cesare, nella sua discesa verso il sud, ‘perdonava’ tutti coloro che si arrendevano? Da un punto di vista istituzionale, invece, la fuga creò una situazione ampiamente voluta: da una parte Pompeo ebbe al suo seguito un senato lontano dai luoghi del potere e ormai docile, mentre Cesare, anche dopo il suo ingresso nell’Urbe, fece fatica a garantirsi una legittimità istituzionale. Ulteriore conseguenza, svolta decisiva rispetto alle precedenti guerre civili combattute da Silla e da Mario, fu – prima con la fuga nel meridione e poi con la fuga per nave dal porto di Brindisi verso l’Epiro – lo spostamento dello scontro dal centro alle periferie dell’impero: l’Italia e Roma restarono praticamente indenni.

Cesare fu per i 5 anni successivi al Rubicone capo indiscusso di Roma, sino al suo brutale assassinio: cosa era definitivamente cambiato a Roma alla sua morte?
Formalmente poco, sostanzialmente molto. Poco, perché Cesare non ebbe il tempo di cambiare a fondo i meccanismi repubblicani e tantomeno concepire un potere che esulasse dalla propria persona. Molto, perché dopo la sua morte i congiurati pensarono che la repubblica si sarebbe rimessa in piedi con le proprie sole forze, ciò che invece non avvenne… ma questa è un’altra storia.

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