“Il crimine del secolo. L’attentato al Papa e i casi irrisolti della ragione di Stato” di Fabrizio Peronaci

Fabrizio Peronaci, lei è autore del libro Il crimine del secolo. L’attentato al Papa e i casi irrisolti della ragione di Stato, edito da Fandango: come va inquadrato l’attentato a Giovanni Paolo II e quali misteri innescò?
Il crimine del secolo. L’attentato al Papa e i casi irrisolti della ragione di Stato, Fabrizio PeronaciIl tentato omicidio di papa Giovanni Paolo II, avvenuto il 13 maggio 1981, ha rappresentato un evento di svolta nel Novecento e più in generale nella storia universale. Neanche tre anni prima, il 16 ottobre 1978, era salito al soglio Karol Wojtyla, pontefice di rottura, il primo polacco in duemila anni, profondo conoscitore, per esserci nato e cresciuto, delle società legate all’Unione sovietica, all’epoca etichettate, con una battuta a effetto del presidente americano Reagan, come ‘Impero del male’. Consapevole della sfida in corso, il Papa neanche sessantenne, ancora nel pieno delle forze, si propose quindi egli stesso come protagonista della fase finale della Guerra fredda. L’attentato di piazza San Pietro va inquadrato precisamente in quest’ambito, come un’azione progettata per modificare il corso della storia e incidere sugli equilibri geo-politici del momento. Cosa che poi effettivamente accadde, se si pensa che sei anni dopo, con il crollo del muro di Berlino, il blocco occidentale chiuderà a proprio favore la contesa iniziata con gli accordi di Yalta, all’indomani della seconda guerra mondiale. Ciò premesso, risulta più chiara la catena di misteri prodotta dall’attentato e dai successivi vani tentativi di accertare l’accaduto, in un crescendo mozzafiato di strumentalizzazioni e depistaggi. Sono proprio le verità mancate, mai scoperte sul piano giudiziario e soltanto ipotizzate sul versante dell’analisi storica, ad avermi spinto a scrivere Il crimine del secolo. Ancora non sappiamo, infatti, dove e con quali modalità fu ordita la macchinazione che portò Il turco Ali Agca in piazza San Pietro, né se vi fosse una sorta di cabina di regia, legata a qualche Stato sovrano e ai suoi apparati di intelligence, interessata a monetizzare gli effetti di un atto tanto grave. E non abbiamo nemmeno piena contezza di quante furono le revolverate esplose, se due o tre. Pochi lo sanno, ma il proiettile finito sul pianale della Papamobile alle 17.17 di quel mercoledì è stato sottratto alle perizie balistiche: lo Stato Città del Vaticano non lo consegnò alla magistratura italiana e, per decisione dello stesso Santo Padre, l’anno seguente fu incastonato nella corona della statua della Madonna di Fatima, in Portogallo. Il mistero è insomma su più piani: investigativo, religioso, storico-politico, spionistico e, non da ultimo, di cronaca nera. La stessa che da decenni riempie le pagine dei giornali e arricchisce i palinsesti televisivi, considerati gli effetti collaterali del crimine di Agca sulla vita di innocenti ragazzine, a cominciare dalla più famosa, Emanuela Orlandi. In quanto giornalista d’inchiesta e autore di libri-verità, questo groviglio di trame da indagare e portare alla luce non poteva non interessarmi. Confido che l’aver messo tutte le tessere sul tavolo, nelle 358 pagine de Il Crimine del secolo, compresi i documenti finali in allegato, possa produrre elementi di verità e preludere all’apertura di nuove indagini, sulla base dei riscontri e degli indizi emersi, molti dei quali inediti e sconvolgenti.

Ali Ağca agì da solo?
La risposta a questa domanda porta a una delle poche certezze: no, Agca non era un cavaliere solitario. Come dimostrarono le tre inchieste del periodo 1981-1998 (la prima sfociata nella condanna all’ergastolo in poco più di due mesi, la seconda orientata al Cremlino e la terza verso le sacre mura) quel giovanotto con lo sguardo spiritato e dall’intelligenza vivacissima non poteva essere arrivato da solo tra la folla, a pochi passi dal supremo vescovo. Di certo Agca, Lupo grigio senza scrupoli, fanatico neonazista già condannato a morte per l’omicidio di un giornalista, terrorista senza ideologie pronto a mettersi a disposizione del miglior offerente, beneficiò della presenza di complici di alto livello, che nell’ordine: lo aiutarono a evadere dal carcere di massima sicurezza in cui era rinchiuso in Turchia, a fine 1979; gli procurarono un sostegno economico per viaggiare in numerosi paesi, nei mesi precedenti il 13 maggio, e la Browning calibro 9 per sparare a Wojtyla; gli fornirono supporto logistico una volta giunto a Roma dalla Svizzera, via Milano, per spostarsi da un posto all’altro della città, passando inosservato, e per alloggiare in due alberghi del centro, uno a piazza Indipendenza e l’altro nel quartiere Prati. Nella prima parte de Il crimine del secolo ripercorro minuto per minuto quei momenti terribili, che hanno trasformato il capo della cristianità, piegato dai colpi di pistola e sofferente per mesi in ospedale, in un’icona del mondo contemporaneo. D’altra parte, dopo l’inaspettata cattura in piazza San Pietro, favorita dalla prontezza di riflessi di una suora che lo colpì a un braccio, giunse un’ulteriore controprova: Agca dimostrò di non essere né di sentirsi solo, in quanto dal carcere iniziò una lunga sequenza di dialoghi in codice con i suoi interlocutori, basati su allusioni al nome o alla provenienza dei mandanti. La speranza dell’attentatore era che il proprio potere di ricatto, in quando lui sapeva chi lo aveva ingaggiato, inducesse chi di dovere a tenerlo buono, facendolo uscire di galera, tramite un provvedimento di grazia o altre modalità. Il turco però si illuse e sbagliò clamorosamente i tempi: la grazia arrivò, ma solo 19 anni dopo.

Tutte le persone in età matura ricordano ancora oggi le sceneggiate dell’attentatore di Giovanni Paolo II all’ora del telegiornale…
Certo, una trovata a suo modo geniale. La strategia di fingersi pazzo, autoproclamandosi ‘Gesù Cristo reincarnato’ e raccontando oltre cento verità contrastanti sull’attentato, funzionò da polizza sulla vita: la cosa più scontata era che il turco venisse ‘silenziato’, con l’eliminazione fisica, una volta riottenuta la libertà, e questo non è accaduto. Dal 2010 Agca vive tranquillamente in Turchia, godendo persino di una certa considerazione, in quanto personaggio famoso, e si prende la briga di dialogare spesso con noi giornalisti, per i fini più diversi. A me personalmente è capitato di ricevere da lui una decina di e-mail, alcune delle quali riporto nel libro. Ho anche avuto occasione di parlare con Agca al telefono, e fu una sensazione strana, come se la storia di un pezzo del Novecento si fosse improvvisamente materializzata nella cornetta che avevo in mano, quel giorno in redazione. Con il suo intercalare solenne e teatrale, il turco mi apostrofò come ‘l’amico Fabrizio’. Davvero un personaggio enigmatico: i suoi contatti con esponenti criminali di primissimo piano, a loro volta legati a entità statuali, istituzioni o organismi internazionali, non sono mai stati fino in fondo sceverati. Per questo uno dei temi centrali de Il crimine del secolo è la ragione di Stato, in nome della quale, specie nei tremendi anni Ottanta del secolo scorso, si tendeva a far calare una cappa di omertà su qualsiasi vicenda politicamente scomoda o non confessabile.

Come scrive nel libro, «oltre all’esecutore materiale, subito catturato, nessuno ha pagato per il misfatto»: chi furono i mandanti dell’attentato?
Impossibile dirlo con certezza: si possono avanzare solo ipotesi e delineare scenari credibili, in modo da consentire a chi legge di farsi un’idea precisa, motivata. È questo l’approccio metodologico che mi sono dato, per tenere la barra dritta su un evento di portata epocale che rischia di confondere le idee, per la sua complessità, l’invadenza di spie e doppiogiochisti e i numerosi segreti sottotraccia. La ricerca dei mandanti dell’attentato del 13 maggio 1981 è stata l’obiettivo principale della giustizia italiana, purtroppo fallito, nell’arco di oltre quindici anni. Dopo i passi falsi iniziali, la direzione di marcia fu impressa dal giudice Santiapichi, che al termine del primo processo, celebrato sulla base di un’istruttoria carente, nella quale la pubblica accusa aveva definito il turco ‘un cavaliere isolato e delirante’, parlò espressamente di un complotto contro la Chiesa, portato a termine da entità rimaste oscure. Santiapichi definì Agca ‘la pedina di un’eccezionale decisione di assassinare il papa’ al fine di creare ‘nuove condizioni destabilizzanti’ nello scacchiere internazionale. Che i registi dell’attentato esistessero e andassero cercati, dunque, non v’era dubbio. Potevano annidarsi in qualche cancelleria, nelle sedi di servizi segreti di vari Paesi o nei covi di organizzazioni malavitose dotate di agganci a tutti i livelli. La macchinazione c’era stata, ma mancava la firma. L’impegno delle successive inchieste Papa-bis e Papa-ter, istruite rispettivamente dai giudici Ilario Martella e Rosario Priore, è stato notevolissimo e ha fornito un notevole apporto dal punto di vista della verità storica. Il Grande burattinaio, però, non è stato mai trovato. Mio intento, scrivendo Il crimine del secolo, è stato contribuire a un riesame aggiornato e inedito degli eventi. Il tempo trascorso non deve spaventare, anzi. In qualche caso, la distanza dai fatti aiuta: le resistenze e le reticenze di chi aveva qualcosa da perdere si attenuano, e magari qualcuno si decide a parlare.

Come nasce la cosiddetta pista bulgara?
Lo scenario è quello di una sopraffina azione criminale e di depistaggio portata a termine dall’Unione sovietica, il cosiddetto Impero del male. In particolare la Russia e la Germania Orientale, le nazioni più potenti del blocco comunista anche grazie all’efficienza dei propri servizi segreti, il Kgb e la Stasi, consideravano Wojtyla un nemico giurato. Persino più dell’odiatissima America. Il Papa, in quanto autorità spirituale e morale, era temuto per la sua capacità di influenza sulle coscienze, di gran lunga maggiore di qualsiasi inquilino della Casa Bianca. Mosca aveva dunque interesse ad “azzoppare” il pontefice, a metterne in discussione il ruolo. E questa è la premessa politica.

Poi, il 13 maggio di 40 anni fa…
…accade l’inimmaginabile. Un finto pazzo si presenta in piazza San Pietro, in una data oltretutto simbolica, perché ogni 13 maggio ricorre l’anniversario dell’apparizione di Fatima, e fa fuoco contro il Santo Padre. È del tutto logico, in questo contesto, prendere in considerazione l’ipotesi che ad armare la mano del killer siano stati poteri occulti legati al Cremlino e ai Paesi satelliti. Parte dunque l’indagine. L’inchiesta viene affidata a un giudice rigoroso e di grande equilibrio, non sospettabile di essersi prestato a giochi politici o “imbeccate”, come Ilario Martella. La pista bulgara non emerge subito, ma a metà 1982, quando il turco si decide a parlare. A quel punto il giudice si dedica alla ricerca dei riscontri, ed effettivamente molti indizi affiorano, depongono a favore del coinvolgimento di tre funzionari del governo di Sofia, che potrebbero essere stati coinvolti nel complotto in quanto la Bulgaria, anche per la sua vicinanza geografica alla Turchia, favoriva contatti tra le organizzazioni mafiose dei due Paesi. È da questo punto di vista che l’operazione sarebbe stata abilissima, di una spregiudicatezza sopraffina: la Russia sceglie un agente operativo come Agca, ideologicamente lontanissimo da sé, in quanto terrorista di estrema destra: il modo migliore per allontanare ogni sospetto. Poi Martella va avanti nell’indagine e scopre addirittura che un camion proveniente da Sofia era arrivato a Roma il giorno precedente l’attentato, per ripartire nelle ore seguenti. Si era trattato del mezzo di trasporto allestito per garantire la fuga al turco? Non è stato possibile dimostrarlo. Fatto è che il processo, nonostante i forti dubbi di pregressi contatti tra l’attentatore e i bulgari sotto accusa, nel 1986, dopo un anno di grande visibilità mediatica, si concluse con un nulla di fatto. Ho parlato più volte con il dottor Martella, il quale ci tiene a sottolineare che le assoluzioni intervennero per insufficienza di prove, e non ‘perché il fatto non sussiste’. Il che equivale a dire: gli elementi per inserire i bulgari nel complotto c’erano, ma non sufficienti a condannarli. Ad ogni buon conto, ai fini di una ricostruzione neutrale ed equilibrata, il mio libro considera anche le altre piste, compresa quella interna approfondita dal giudice Priore nella Papa-ter, e le altre di stampo islamico o occidentale. In definitiva, ad aver avuto maggiori indicazioni è stata proprio la pista rossa.

Quali rapporti esistono tra l’attentato del 13 maggio e i casi di Emanuela Orlandi, Mirella Gregori e delle altre giovani vittime?
I colpi di pistola esplosi in piazza San Pietro dal finto pazzo hanno innescato una serie di tragici effetti collaterali sulla vita di alcune famiglie, a dimostrazione di come la grande storia possa diventare dramma e dolore privato. È un elemento di originalità del mio libro. Nessuno ha mai incrociato tali fatti in maniera analitica, esaminando i legami tra l’evento primario, finito nei manuali di storia, e misteri irrisolti come la scomparsa di Emanuela e Mirella, o la fine di altri giovanissimi, morti o uccisi in circostanze mai chiarite. La connessione è rappresentata dall’uso politico, che indubbiamente ci fu, dell’attentato contro Wojtyla. Tale spregiudicata operazione, realizzata sia dal blocco comunista sia da quello dell’0vest, innescò una serie di ricatti e regolamenti di conti tra forze in contrasto tra loro, all’ombra del Cupolone. Tutte tensioni aggravate dallo scandalo Ior-Ambrosiano, dalla presenza sulla scena politico-finanziaria di un personaggio equivoco come Marcinkus e dalla morte sotto il ponte dei Frati neri, un anno dopo l’attentato al Papa e un anno prima del caso Orlandi-Gregori, del banchiere cattolico Roberto Calvi. Ragazzine innocenti furono così utilizzate a scopo di pressione, al di là della dinamica originaria della scomparsa, che nel libro ripercorro minuto per minuto, svelando numerosi retroscena. Analogamente, con lo stesso approccio del cronista che non omette neanche un dettaglio, ho ripercorso sotto nuova luce le storie successive di Paola Diener, 33 anni, José Garramon, 12, Katy Skerl, 17, Alessia Rosati, 21. Intrecci torbidi sui quali non si è mai scavato abbastanza, anche a causa della nefasta influenza esercitata, al di qua e al di là dal Tevere, da un malinteso senso della ragione di Stato.

Sinteticamente, in cosa consiste la novità principale del suo libro?
Con Il crimine del secolo, per la prima volta dopo quattro decenni, semplici lettori, criminologi, storici e appassionati di cold case hanno a disposizione un quadro di riferimento politico, istituzionale e spionistico tale da decrittare correttamente i legami tra l’attentato del 13 maggio 1981 e i successivi gialli. Le connessioni sfuggite a generazioni di cronisti sono diventate evidenti grazie alle nuove prove da me raccolte, alla visuale storica utilizzata e alla selezione tra piste rivelatesi fondate e palesi depistaggi.

Può fornire qualche anticipazione?
A grandi linee, posso dire che, per il giallo di Emanuela Orlandi, mi sono avvalso di documenti ecclesiali inediti e delle rivelazioni di nuovi testimoni: un investigatore di primo livello, oggi in pensione; un agente del servizio militare ex Sismi, che operò in contatto con i colleghi di Gladio; un monsignore giunto alla soglia del secolo di vita, che ha avuto una lunga carriera in Vaticano e molto sa sulla fine di Emanuela Orlandi; un vescovo, nel frattempo defunto, che ha avuto cura di lasciare tracce scritte. Sulla scomparsa di Mirella Gregori, sparita un mese e mezzo prima in quel tragico 1983, ho fatto emergere un retroscena: non era lei la prima scelta­, gli organizzatori del ricatto contro la Santa Sede inizialmente avevano posto nel mirino una coetanea. Su Paola Diener, morta folgorata quello stesso anno sotto la doccia, la figura e il ruolo del padre, che nessuno ha mai indagato, dovrebbero suggerire approfondimenti. Sul caso della Skerl, strangolata in una vigna nel gennaio 1984, emergono novità da brividi, riguardo all’ipotesi che la bara sia stata rubata. La Rosati, una decina d’anni dopo, finì invece nel gorgo degli scandali dei servizi segreti travolti da ruberie e illegalità. E così via. Tanto affastellarsi di incastri ha sorpreso anche me al momento della cernita e dello studio del materiale. Ma non vorrei spoilerare. La verità conclusiva è che il combinato disposto attentato al Papa – effetti collaterali generò misteri a catena talmente stupefacenti che, concluso il lavoro di scrittura, durato oltre un anno, ho avuto la necessità di esplicitare il concetto con la frase posta in controcopertina: ‘La realtà a volte supera l’immaginazione, ma se un fatto pare incredibile non si può automaticamente concludere che non sia avvenuto: ci vuole pazienza, per venirne a capo’. Proprio così: è un intrigo che fa girare la testa.

Per concludere, quali torbide verità si celano dietro i tanti fittissimi misteri di questa vicenda?
La prima fondamentale verità mancata è l’individuazione del mandante del crimine di piazza San Pietro. Per quanto possa sembrare velleitario, ritengo che, nonostante il tempo trascorso, sia ancora possibile giungere all’accertamento dei fatti, anche in via giudiziaria. Alcuni testimoni sono in vita e numerosi indizi non sono stati valutati nella giusta luce. In passato, tra gli anni Novanta e il successivo decennio, si parlò a più riprese di una quarta inchiesta giudiziaria da aprire per fare finalmente luce sull’attentato a Wojtyla. Un’ipotesi percorribile? Io dico di sì. Naturalmente dipende dall’autorità inquirente e da possibili notitiae criminis, ma come giornalista investigativo e autore di libri-verità, nonché come studioso di storia fin dai lontani tempi universitari, mi sento di auspicarlo a nome di un Paese che desidera liberarsi delle ombre del proprio passato. Un evento tanto cruciale nella storia contemporanea non può essere archiviato senza un perché, con le sole condanne del killer che fu acciuffato un istante dopo e del suo armiere turco, che gli consegnò la pistola. Tanto più che adesso, alla luce delle connessioni tra l’azione di piazza San Pietro e i successivi sequestri, emerge un filo rosso tra il supporto fornito all’attentatore e i successivi ricatti, attuati tramite il sequestro di due quindicenni. Ma i misteri da svelare non finiscono qui. Ce n’è uno di carattere teologico, relativo alla gestione del terzo segreto di Fatima, sul quale di certo non è stato detto tutto. Proprio nel periodo al quale ci riferiamo, primi anni ‘80, le voci e i sussurri sui contenuti del segreto peggio custodito nella storia della Chiesa erano infatti sulla bocca di molti, in ambito ecclesiastico. L’annuncio del Terzo segreto fatto da Giovanni Paolo II molti anni più tardi, nel maggio 2000, non giunse inaspettato alle orecchie di milioni di credenti. La ‘fuga ­di notizie’ sulla trascrizione del messaggio della Vergine a suor Lucia generò forse ricatti sotto il Cupolone?

Domanda volutamente retorica.
Già, e anche un po’ amara. C’è voluto un papa determinato e innovatore come Bergoglio per imprimere una svolta contro certi atteggiamenti paludati e ipocriti, poco cristiani. Così come va segnalato un altro mistero non glorioso, ma sempre attuale: perché le indagini sulla scomparsa della Orlandi nel 2015 sono state bruscamente interrotte, quando si era arrivati a un passo dal processo contro i sei indagati per il sequestro, dopo che si era addirittura materializzato un flauto riconosciuto dalla famiglia come quello di Emanuela? Il dubbio che il sistema nel suo complesso – istituzionale, politico, giudiziario e anche mediatico – non sempre lavori per la verità ormai si è insinuato in ampie fasce della pubblica opinione. E ciò rappresenta un grave danno per una società civile. Nel mio piccolo, con questo lavoro che chiude molti anni di investigazioni giornalistiche, ho lavorato per restituire all’informazione il suo ruolo primario è insostituibile, di ‘cane da guardia’ dei pubblici poteri e di pilastro insostituibile di una democrazia.

Un’ultima curiosità. Lei per “Il crimine del secolo” ha scelto come esergo, le citazioni che usualmente si pubblicano a inizio libro, due personaggi di epoche storiche completamente diverse: il filosofo Montesquieu e il regista Nanni Moretti.
Vero, mi sono parsi perfetti, così insolitamente affiancati, per una sintesi. Il primo, padre delle moderne democrazie e teorico della distinzione tra poteri, oltre due secoli fa ebbe a dire che ‘lo spionaggio potrebbe essere tollerabile se fosse esercitato da persone oneste’. Il mio libro è pieno di spie, molte dentro le sacre mura. Il guaio è che, all’epoca dell’attentato a Giovanni Paolo II, erano quasi tutte deviate. Il secondo, regista geniale che è stato capace di raccontare anticipatamente le storiche dimissioni di un pontefice, in Habemus papam ha fatto dire allo psicanalista Moretti, che va a trovare l’attore Michel Piccoli nei panni del Papa, la seguente frase: ‘Senta, problemi con la fede?’ Una battuta illuminante, che in cinque parole racconta il principale male della Chiesa, causa di troppe deviazioni terrene: la mancanza di sincerità e di autenticità.

Fabrizio Peronaci, laureato in Scienze politiche all’università “La Sapienza”, giornalista professionista. Lavora dal 1992 al Corriere della Sera, nella sede di Roma, dove è capo servizio e si occupa di inchieste e multimedialità. Ha seguito, prima da cronista di nera e poi da responsabile del settore, i principali gialli ambientati nella capitale. Considera un’informazione libera e coraggiosa pilastro essenziale di una democrazia. Nelle sue indagini predilige le fonti dirette rispetto a quelle istituzionali. In precedenza ha pubblicato Mia sorella Emanuela (con Pietro Orlandi, 2011), Il ganglio (2014, Fandango Libri), La tentazione (2017), Il figlio della colpa (2018) e Morte di un detective a Ostiense altri delitti (2019). Ha creato un gruppo Facebook di giornalismo investigativo dedicato all’approfondimento di cold case e misteri di Stato.

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