“Il credito e la crescita. Banche e finanza per le imprese” di Stefano Caselli e Giampaolo Gabbi

Prof. Stefano Caselli, Lei è autore con Giampaolo Gabbi del libro Il credito e la crescita. Banche e finanza per le imprese edito da EGEA: quali caratteristiche deve presentare un rapporto virtuoso fra banche e imprese?
Il credito e la crescita. Banche e finanza per le imprese, Stefano Caselli, Giampaolo GabbiI numeri di oggi ci segnalano come molte banche italiane abbiano indicatori tali da poter rappresentare uno degli elementi che permetta al paese di competere a livello internazionale. Questo fatto andrebbe non solo comunicato meglio ma anche utilizzato a vantaggio dell’intero sistema, proprio con una narrativa diversa. i dati di chiusura del 2019, confermano che il livello di capitalizzazione, sintetizzabile nel Common Equity Tier1 (CET1) e nel Total Capital Ratio (TCR), sia ampiamente superiore a qualsiasi soglia normativa ed è un dato trasversale: coinvolge sia grandi banche (da Unicredit a Intesa) sia banche più piccole sia banche uscite dalla crisi (come MPS) o ancora banche con modelli innovativi (come Mediolanum e Fineco). Se compariamo i dati italiani alle prime 20 europee, il confronto, poco comunicato e conosciuto, è più che confortante: la media di Cet1 e TCR delle prime 20 banche italiane (escludendo Carige) è rispettivamente del 13,91% e del 16,60% mentre quella delle prime 20 banche europee (escludendo Unicredit e Intesa) è, rispettivamente, del 13,40% e del 17,56%. Questo significa che le banche italiane hanno fatto realmente i compiti a casa, intraprendendo scelte difficili, e costruendo un patrimonio di solidità che adesso va usato con decisione.

Dobbiamo ricordarci sempre che questo capitale è di fatto l’argine vero alla tenuta del sistema bancario ma soprattutto del paese visto che le banche, per gli investitori e i mercati, lo rappresentano largamente in caso di attacchi speculativi. L’Italia non ne è purtroppo indenne, per la fragilità storica del nostro debito e soprattutto per l’incertezza della linea politica attuale. Ma occorre adesso passare anche oltre e utilizzare questa straordinaria massa di risorse per investimenti a servizio dei clienti, siano essi privati o imprese. Con la speranza che le recenti parole pronunciate da Christine Lagarde da poco alla guida della BCE inaugurino una nuova stagione della Vigilanza Europea, orientata in maniera più marcata alla crescita della redditività delle banche, a nuove aggregazioni e quindi allo sviluppo, liberando forze che sembrano oggi frenate.

La variabile determinante per lo sviluppo è la tecnologia, capace di produrre un uso delle informazioni a vantaggio del cliente stesso. La disponibilità di dati e la loro lettura su larga scala permette di superare segmentazioni e classificazioni artificiali (il corporate, il mid-corporate, il retail), che hanno fatto in parte la storia delle strategie bancarie, muovendosi verso un’offerta puntuale e tagliata sul reale profilo di ogni singolo cliente. Per il mercato retail questo significa non solo uno spostamento netto verso modalità di interazione on-line. Ma soprattutto l’accesso a prodotti che facciano della semplicità, della trasparenza e, quando necessario, di un forte patrimonio di competenze professionali. Per il mercato delle imprese, il disegno su misura dei prodotti comporta una scelta più complessa, che vede nell’affiancamento al credito di servizi aperti a tutta la gamma delle operazioni di finanza. In questo senso, il ruolo della banca, soprattutto nei confronti delle imprese piccole e medie, è determinante in quanto solo la banca ha conoscenza e autorevolezza per spingere e guidare gli interlocutori più piccoli a scelte non facili di apertura del capitale e di utilizzo dei mercati per la raccolta di risorse. Tutte scelte determinanti per la loro crescita. Ma è proprio questo il buon servizio che le banche possono svolgere a vantaggio del paese.

Il rapporto fra banche e imprese è in questo caso cruciale. La difesa dell’italianità delle nostre imprese è un tema ricorrente, che tradizionalmente si è basato sul patto di ferro che legava la dimensione medio-piccola alla stabilità della proprietà, in prevalenza famigliare, sostenuta dai prestiti del sistema bancario. Con unica eccezione possibile rappresentata dalle aziende di Stato. Purtroppo questi concetti sono stati visti come antagonisti della grande dimensione e del mercato finanziario: la difesa del localismo e delle PMI ha portato a combattere il concetto di crescita e di scala. Ma oggi, in un momento in cui il paese è bloccato ed ha bisogno di creare ricchezza e occupazione, la contrapposizione deve essere superata: la possibilità di crescita, anche con M&A, e l’internazionalizzazione devono diventare elementi caratteristici del paese, che si trova a competere con economie che fanno del gigantismo la base della competizione. Nella classifica Fortune 500, solo sei paesi detengono il 75% del fatturato delle aziende mondiali. Occorre allora ammettere che piccolo è bello solo se rappresenta una condizione di passaggio e convive con il molto grande. E questo richiede la rottura di assetti di governo bloccati, con l’apertura del capitale al mercato e agli investitori che, con le loro risorse, permettano di affermare quei valori di italianità che hanno un mercato enorme a livello globale. Accettare nuovi compagni di viaggio nel capitale o passare la mano e cedere a chi ha più visione e coraggio è inevitabilmente la migliore difesa dell’italianità.

Cosa possono fare oggi le banche per la ripresa di un’economia segnata così profondamente dall’emergenza sanitaria?
Se le imprese hanno un dovere di crescita per creare nuova ricchezza a beneficio della collettività, le banche devo sviluppare un sistema di offerta che in maniera incisiva renda questo percorso possibile. Soprattutto in un mondo segnato da Covid-19, in cui la partita è stata prima quella di sopravvivere e adesso quella di recuperare gli oltre dieci punti percentuali di PIL che abbiamo perso. Per le banche ciò significa allargare la dimensione del proprio ventaglio di offerta e interagire con la clientela non solo lungo l’asse dei prestiti ma anche lungo l’asse di tutte le operazioni di finanza straordinaria e di asset management che sono il presupposto di qualsiasi percorso di crescita, a maggior ragione in questi mesi. In questo senso, il rapporto con il mercato finanziario è decisivo. Anche in questo caso, la narrativa è stata spesso antagonista e sbagliata: il mercato di borsa opposto al mercato bancario, il mercato bancario come il luogo del sostegno alle imprese e la borsa come il luogo della speculazione. Questo dibattito appare inutile e anacronistico, in uno scenario qualificato da una moderazione – definitiva e strutturale, a regolamentazione data – del ruolo della banca come soggetto finanziatore. In questo senso, la borsa oggi si presenta come uno strumento di politica economica a costo zero, ossia come un canale già strutturato e funzionante attraverso il quale le imprese possono raccogliere quelle risorse funzionali alla sfida della crescita e dell’internazionalizzazione. Ciò in presenza di una chiara abbondanza di liquidità a livello mondiale investibile in attività finanziarie che dimostrino la bontà del proprio “up-side” ossia delle proprie prospettive di crescita. L’obiettivo del nostro libro è quella di superare barriere e limiti che spesso il nostro paese ha creato limitando il suo potenziale di sviluppo. Fare banca in modo completo ed evoluto, da vera “banca universale”, è la condizione e la sfida lanciata alle imprese affinché possano evolvere per competere ad armi pari, per qualità, dimensione e redditività su un campo di gioco che è ormai globale. E questo richiede conoscenza, operazioni e meccanismi che rendano banche e imprese legate su tutti i molteplici livelli della gestione finanziaria.

Una riflessione ulteriore è sul tema del credito bancario e sul ruolo della garanzia pubblica, definita nei primi giorni di sviluppo della crisi. Il ricorso al canale bancario, sebbene nell’immediato possa essere utile, crea già nel breve termine un impatto negativo: le aziende diventano più indebitate, la loro Centrale dei rischi peggiora, gli spazi per ottenere credito in futuro possono ridursi. Al riguardo, il mantenimento della garanzia statale a fronte della concessione del credito, dovrebbe in prospettiva essere ancorato ad una logica di capitalizzazione: la garanzia statale sul credito viene concessa solo se l’impresa procede ad un aumento di capitale definito su una percentuale fissa del credito stesso. In questo modo, gli interventi diventerebbero sinergici.

In che modo la tecnologia può contribuire al superamento delle tradizionali strategie bancarie a favore di un’offerta calibrata sul reale profilo di ogni cliente?
Una chiave di lettura differente di questa fase di trasformazione del sistema bancario è data dall’affermazione delle banche che si propongono al mercato con una struttura d’offerta integralmente o prevalentemente digitale oppure con una rete distributiva priva di sportelli e dedicata esclusivamente alla gestione del risparmio. Seppure in modo differente, la generazione di “banche agili” e di “e-bank” si mette seriamente in competizione con le banche tradizionali sfruttando anche la presenza di alcuni effetti concomitanti: da un lato, la reazione emotiva di una parte della clientela che, a fronte di presunte paure legate alle norme sul bail-in, diversifica e fraziona l’allocazione dei propri depositi; dall’altro lato, una strategia di comunicazione mirata da parte proprio di queste banche, che ne mette in luce la forte solidità patrimoniale per intercettare le ansie e l’esigenza generale di sicurezza della clientela stessa. Ma al di là di questi fattori congiunturali, l’affermazione progressiva (e inesorabile!) dell’offerta digitale si basa su componenti ben più solide e di lungo periodo che caratterizzano il cambiamento dell’industria bancaria, come già avvenuto in altri settori. Tre sono i fattori principali da osservare.

In primo luogo, la ricerca di redditività delle banche, in presenza di regole che conducono ad elevato assorbimento di capitale in numerose aree di business, spinge ad individuare nuove combinazioni produttive che si basano: sulla riduzione dei costi, attraverso il ridimensionamento consistente del sistema distributivo degli sportelli; sulla ricerca di attività che non portano all’impiego di capitale regolamentare, come ad esempio nella gestione dei risparmi e dei servizi di pagamento. La ricerca di soluzioni “light-capital” trova quindi nel banking on-line una formula che risponde perfettamente a queste esigenze. In secondo luogo, la trasformazione digitale di numerosi settori produttivi produce un effetto domino e un effetto imitativo delle industrie a queste collegate. Nella misura in cui le reti distributive di beni sia di largo consumo che di lusso si modifica e si integra con la componente digitale, i servizi di pagamento, di finanziamento e assicurativi a questi collegati devono rapidamente evolvere in una dimensione on-line per intercettare la domanda. Inoltre, nella misura in cui la domanda di servizi bancari vede sempre più una presenza massiccia di “millennials” e nativi digitali, l’effetto domino risulta ancora più amplificato.

Infine, l’affermazione di player non bancari, etichettati nel loro insieme con il termine “shadow banking”, richiede una risposta forte dagli operatori bancari tradizionali che rischiano di perdere significative quote di mercato. Le piattaforme di P2P lending, di comparazione e acquisto di mutui e polizze assicurative, di offerta di servizi di pagamento come PayPal si stanno affermando con successo non solo perché on-line e digitali “dalla nascita” ma soprattutto perché non devono affrontare nessun processo di ristrutturazione e di abbandono di una rete distributiva tradizionale come deve avvenire per le banche. Nel mercato più grande in assoluto, rappresentato dalla Cina, le nuove banche private hanno tutte una connotazione on-line (WeBank, MyBank, MyShare Bank of Wenzhou), vedono fra gli azionisti i principali colossi della distribuzione (Tencent, Alibaba, Baidu) e affermano la loro forza non solo sull’aspetto distributivo ma anche su una maggiore capacità di valutazione del rischio di credito attraverso l’intercettazione del comportamento on-line degli stessi consumatori.

Se quindi inizia ad avverarsi la profezia del 1994 di Bill Gates “banking is necessary banks are not”, le banche tradizionali che sapranno cogliere con agilità questa fase irripetibile di cambiamento, potranno legittimare il loro successo diventandone attori principali.

Quali strumenti offre il mercato per la pianificazione finanziaria e la finanza d’impresa?
Il tema della capitalizzazione delle imprese si inserisce nella fase di dibattito sulle misure dedicate allo sviluppo del paese: in particolare, il tema specifico della quotazione non può essere relegato al solo ambito delle scelte individuali della singola impresa ma deve essere inserito a pieno titolo nel quadro degli strumenti di politica economica utilizzabili per la crescita. Il dubbio latente è però sempre lo stesso da anni: la quotazione in borsa è effettivamente utile all’azienda, soprattutto se di piccole dimensioni? Le storie di limitato successo degli ultimi trent’anni di Mercato Ristretto, Nuovo Mercato e Expandi mettono purtroppo in luce una scarsa utilità dei circuiti di mercato. Ma i segnali di luce ci sono eccome e la spinta encomiabile di Borsa Italiana allo sviluppo dello Star e poi allo sviluppo dell’AIM ci dimostrano che cambiare è possibile. L’infrastruttura di Borsa Italiana si è adeguata eccome a questo e adesso le scelte sono nel campo delle imprese. Che, in un certo senso, si devono assumere la responsabilità di usare o non usare il mercato dei capitali, portando o non portando in dote al paese nuovo sviluppo e nuova occupazione.

Con riferimento ai vantaggi e agli svantaggi della quotazione, il quadro è nitido, soprattutto in una fase storica di minore disponibilità del credito concesso con abbondanza. Fra i principali vantaggi emergono l’apertura di un canale di raccolta di risorse, la possibilità di raccolta di un ammontare rilevante di risorse finanziarie, il miglioramento del rating e la conseguente riduzione del costo dei finanziamenti, la crescita della reputazione utilizzabile a fini commerciali, la maggiore visibilità internazionale che porta poi allo sviluppo di nuovi canali commerciali. E soprattutto, l’effetto disciplina sui conti, sulla comunicazione, sul modo di interagire con le regole ed il fisco. Sul fronte degli svantaggi (in larga parte solo presunti, e perfettamente utilizzabile come scuse) si annoverano: il costo di gestione ante e post quotazione, gli eccessivi obblighi regolamentari, l’ingresso di soggetti terzi (che distabilizzano lo status quo) e i rischi derivanti da un ciclo di borsa sfavorevole. Se il confronto fra benefici e svantaggi è stato prevalentemente superato dalla presenza di credito abbondante e dal funzionamento dei processi creditizi su base prevalentemente relazionale, il maggiore rigore nella concessione del credito da parte delle banche e la presenza di metriche valutative analoghe alla finanza di mercato, riportano il confronto in un’area di analisi senza dubbio molto più equilibrata. O meglio, in un’area dove il tempo delle scuse è finito. Per cui non provare a cimentarsi con il mercato dei capitali, per chi ne ha la possibilità, è una scelta di retroguardia e di scarsa responsabilità.

Questo confronto risulta spesso privo di una concreta via d’uscita se non si indagano seriamente le condizioni che rendono i vantaggi significativamente superiori agli svantaggi. Ciò permette di individuare quali imprese (e quali imprenditori) presentino un profilo appropriato. I requisiti che un’impresa (soprattutto se di piccole e media dimensione) deve presentare per sfruttare la quotazione in chiave di sviluppo sono allora tre.

Il primo concerne la presenza di un progetto di crescita. La richiesta di capitale acquista un significato virtuoso solo se esiste un fabbisogno finanziario collegato ad iniziative che nel corso del tempo saranno in grado di ripagare gli azionisti per gli sforzi effettuati. I processi di internazionalizzazione, la crescita della scala dimensionale e della capacità produttiva, le acquisizioni, l’impegno nell’attività di ricerca e sviluppo sono esempi significativi in questa direzione.

Il secondo requisito riguarda la capacità di declinare la sfida della crescita in un piano economico e finanziario nitido e valutabile dal mercato. Il fiuto e l’istinto dell’imprenditore non sono in questo senso una condizione sufficiente a dimostrare la validità delle idee e delle intuizioni. Occorre piuttosto una capacità progettuale che traduca la business idea in un processo fattibile, e quindi utile, nella competizione.

Il terzo requisito verte sulla qualità e sull’eccellenza dell’azienda e del management che vi lavora. L’appetibilità da parte del mercato finanziario non è legata solo alla valutazione del ritorno finanziario ma soprattutto alla percezione del valore delle idee e della squadra manageriale che ne garantisce nel tempo l’integrità. Ciò è fondamentale per creare una relazione fiduciaria con gli intermediari finanziari che, ad azienda quotata, potranno sostenere la vivacità degli scambi e la liquidità del titolo.

La disponibilità dei requisiti sostanziali che un’azienda deve possedere può essere ulteriormente potenziata, in chiave di politica economica, dalla presenza di condizioni esterne favorevoli, quali la regolamentazione e l’imposizione fiscale ed i servizi di supporto. Ma di questo parleremo nel prossimo capitolo. Se in Italia saranno introdotte anche moderate ma strutturali forme di incentivo fiscale e verrà data continuità ad iniziative coraggiose come il progetto Elite di Borsa Italiana, che ha peraltro avuto molti sostegni da istituzioni e stakeholders esterni, gli imprenditori avranno il dovere di lanciare il cuore oltre l’ostacolo e manifestare una volontà di crescita e di eccellenza. Su questo punto, forse vale la pena di ricordare che molte aziende familiari francesi, tedesche o americane (Michelin, Renault, BMW, Banco di Santander), grazie alla quotazione in borsa hanno raggiunto dimensioni rilevanti, offrendo un servizio anche al loro paese. E quella piccola quota che la famiglia proprietaria aveva nella sua azienda, oggi, per l’imprenditore, ha un valore immenso.

Stefano Caselli è Professore Ordinario di Economia degli Intermediari Finanziari presso l’Università Bocconi, dove è Prorettore agli Affari Internazionali e Algebris Chair in Long-Term Investment and Absolute Return. Editorialista per L’Economia del Corriere della Sera, segue da sempre il tema del rapporto fra sistema bancario, mercato finanziario e sistema industriale.

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