
Il nostro protagonista giunge dunque dal regno dei morti (sarà un caso, ma il suo cognome rievoca Dante) e assurge alla gloria di un paradiso mondano: e che la sua residenza parigina sia agli Champs-Élysées, a questo punto, non sarà più un caso. In mezzo, tanti inferni e tante morti rituali, dalla segreta del carcere al sacco scaraventato in mare alle catacombe di San Sebastiano; anzi lo stesso anonimato è una morte, perché ribadisce nella coscienza di tutti la definitiva uscita di scena del giovane marinaio, “l’uomo vecchio”. Una strana febbre di contraffazione onomastica attraversa tutto il romanzo: non solo Montecristo cambia in continuazione identità (strepitoso paradosso narrativo, trattandosi di un super-individuo), ma Fernand Montego diventa Morcef, Benedetto diventa Andrea Cavalcanti, Danglars (come Morcef e il vecchio Cavalcanti) si fregia di un fittizio titolo nobiliare, Noirtier rimane nascosto fino all’ultimo dietro la carica di presidente di un circolo bonapartista, Eugénie Danglars fugge da Parigi come signor d’Armilly, e così via. Tutto è maschera, e non è un caso (ancora) che il tempo scelto per rappresentare l’Italia – l’Italia dei pugnali, dei veleni e dei briganti tanto cara a Stendhal – sia quello del carnevale, il tempo in cui uno sprovveduto come Albert de Morcef può seguire un brigante convinto che si tratti di una nobildonna travestita da contadina.
Nel caos mondano – o meglio in quell’apparente caos sotto il quale si disegna e si struttura il cristallo della vendetta di Montecristo –, fra le chiacchiere dei giornalisti e dei bellimbusti e il piccolo e grande cabotaggio degli affaristi (lo stesso mondo destinato ad essere dominato da Bel-Ami per la strada opposta, quella dell’empatia), gli unici momenti di “verità” sono costituiti dagli interni abitati dal conte: la grotta nell’isola di Montecristo, la casa sugli Champs-Élysées, la casa di Auteuil, la casa di Le Tréport, la cabina dello yacht. Qui tutto è sopraffino e fiabesco, con un gusto infantile dell’accumulo e del “meglio” (lo storione più pregiato, i profumi più rari, le gemme più grandi, le sete più preziose…) che ricorda molto da vicino l’appartamento immaginato da Huysmans per il suo Des Esseintes: e lo ricorda, più che per la quantità delle eccellenze e dei mirabilia, per gli effetti sinestetici che quel fasto suscita nell’inquilino, un inquilino che, come ogni dandy che si rispetti (si pensi a Sherlock Holmes) non disdegna l’uso delle droghe, al punto da teorizzarne la bontà. E insieme alle droghe, i farmaci miracolosi che fungono da veleno o da vaccino o da antidoto, e che inducendo una morte apparente revocabile a piacere fanno del conte, oltre che un grande exploiteur teatrale, una sorta di moderno psicopompo se non addirittura la reincarnazione di Ermete Trismegisto. In combutta con la scienza illuministica i riti ermetici menano dritto alla massoneria, e in quale altro romanzo, anche se in assenza della cosa e del nome, si respira una simile atmosfera massonica?
Massonica è anche la contrapposizione fra tenebra e luce, con imprevedibili esiti […] che sembrano preludere alla teoria positivista dell’ereditarietà (i due figli di Villefort, l’illegittimo Benedetto e il legittimo Edouard, nascono naturalmente malvagi) se non addirittura a Lombroso: come Jago, Danglars odia Dantès a prescindere («Io, motivi per odiare Dantès? Nessuno, parola mia», afferma con più verità di quanto egli stesso creda), e il suo odio scaturisce di necessità, come per Riccardo III, dalla propria conformazione fisica: «quell’uomo è proprio un’orrida creatura», osserva Montecristo: «Come si fa a non capirlo già alla prima occhiata, a non riconoscere il serpente dalla fronte piatta, l’avvoltoio dal cranio bombato e la poiana dal becco tagliente!» Danglars è costretto all’odio per coazione, così come per coazione Morcef è costretto a inanellare un tradimento dietro l’altro (non meno di loro si ripete Villefort, che dopo aver seppellito vivo Dantès e, letteralmente, Benedetto, per ironia farà inconsapevolmente seppellire viva sua figlia Valentine al Père Lachaise): ma per confondere tanta tenebra, per far trionfare la luce occorre qualcosa di ancor più tenebroso, non solo la vendetta («occhio per occhio, dente per dente, come dicono gli orientali, i nostri maestri in ogni cosa»), ma la vendetta ad opera del rimosso e del tabù (“Com’è resuscitato, quel passato tremendo?” si chiede Villefort, “dal fondo della tomba e dal fondo dei nostri cuori dove dormiva […]?”). Per questo Montecristo non è quasi mai rappresentato nel segno della luce, ma come «angelo malvagio» o «angelo delle tenebre»; anzi, ci sono pagine in cui la penna di Dumas ne fa una specie di golem («Sono lo spettro di uno sventurato che avete sepolto nelle segrete del castello d’If. Su questo spettro uscito finalmente dalla tomba Dio ha imposto la maschera del conte di Montecristo»); ed è solo per una questione di pruderie – quella stessa per cui per l’edizione in volume Salgari fu costretto a rimuovere il cannibalismo e l’efferatezza di Sandokan – che la vendetta del conte non si attuerà nei modi sadici da lui a lungo sognati («… il palo dei turchi, le vasche dei persiani, i nervi attorcigliati degli irochesi sarebbero supplizi troppo blandi…»), preferendo declinarsi nei modi sociali del discredito morale, della rovina economica e della vergogna famigliare.
C’è un aggettivo che fin dalle prime pagine domina ossessivamente il racconto, ed è “cupo” (sombre): cupo è, pressoché sempre, Montecristo, cupo è il castello di If, cupo chiunque, a partire da Villefort, covi sinistri o tetri pensieri. Da una parte la policromia del mondo, euforizzata nel carnevale romano e nelle feste parigine, dall’altra le ragioni del silenzio e dell’attesa. Come in un’operetta morale leopardiana, solo dalla specola della morte si può comprendere (e paradossalmente orientare) lo spettacolo della vita: «bisognerà prendere il posto dei morti», annuncia Dantès, cui la futura e favolosa ricchezza apparirà come mero strumento del volere divino, e cioè né più né meno che un sacerdozio («io, tradito, assassinato, gettato anch’io in una tomba, sono uscito da quella tomba per grazia di Dio, e a Dio devo la vendetta. Mi manda per questo, ed eccomi»). Coerentemente, tutta la sua condotta si svolgerà sotto il segno dell’ascesi, come se tutto quel lusso e quelle cornucopie di cibi pregiati fossero solo un trompel’oeil: individuo eccezionale («Sono uno di quegli esseri eccezionali, sì» si lascia sfuggire in un raro momento di civetteria), egli è in realtà un servo, destinato a rientrare nel nulla dopo la propria missione («il morto ritornerà nella tomba, il fantasma ritornerà nella notte»). Per questo è un personaggio così magnetico, perché, frustrandola, continua a difendersi dalla curiosità del lettore.
Impossibile, infine, non vedere nel ritorno di Dantès e nella punizione dei colpevoli il sogno del bonapartismo, il ritorno dell’uomo eccezionale dall’esilio e dal mare, il “raddrizzamento” della Francia. Non è un caso che l’unico altro vero personaggio demiurgico della vicenda sia Noirtier, il vecchio bonapartista che pur nell’impedimento fisico (paralitico e muto, ma con uno sguardo degno del vecchio del Cuore rivelatore di Poe) tiene sotto scacco la famiglia del rinnegato Villefort contribuendo alla salvezza di Valentine e al suo matrimonio con il giovane Morrel. E, alla fine, quello che Dumas dice di Montecristo assomiglia molto al giudizio finale di Hegel su Napoleone come “uomo storico-cosmico”: «Potevano esserci uomini più belli, ma di certo non ce n’erano di più significativi».»