
di Hans Jonas
«È mia intenzione presentare un frammento di teologia speculativa. Non mi pongo la questione se sia o meno legittimo per un filosofo affrontare tale argomento. Non posso affermare con assoluta certezza che ciò sia compito di un filosofo. Immanuel Kant ha escluso la questione di Dio dalla ragione teoretica e perciò dalla filosofia; e il positivismo logico del nostro secolo, l’intera filosofia analitica dominante ai nostri giorni, hanno negato ogni significato reale alle espressioni linguistiche cui si ricorre per gli oggetti della teologia filosofica […].
In questo contesto si impone la domanda: che cosa ha aggiunto Auschwitz a ciò che da sempre siamo in grado di sapere sulle proporzioni delle cose spaventose e terribili che gli uomini sono capaci di commettere verso i loro simili? A ciò che da sempre hanno commesso? E che cosa in particolare, che noi ebrei non abbiamo conosciuto in una storia millenaria di sofferenze e di dolori, patrimonio essenziale della nostra memoria collettiva? La domanda di Giobbe è da sempre il problema fondamentale della teodicea — in senso generale in quanto si riferisce all’esistenza del male nel mondo, per l’ebraismo in particolare in quanto rende più aspro e difficile da comprendere l’enigma dell’elezione, dell’alleanza stipulata fra Israele e il suo Dio. Questo doloroso inasprimento della domanda di Giobbe — cui non sfugge il nostro problema — poteva essere inizialmente chiarito dai profeti biblici — ricorrendo ancora una volta all’alleanza: il popolo che l’aveva stipulata con Dio, era diventato infedele. Ma nei lunghi secoli di fedeltà che seguirono, nessuna colpa poteva essere invocata per giustificare il dolore; si ricorse allora all’idea di testimonianza, categoria sorta originariamente nell’età dei Maccabei e che i posteri hanno ereditato col concetto di martirio. Secondo questa idea proprio gli innocenti e i giusti sono chiamati a sopportare lo scandalo del male. […]
Nulla di tutto ciò può essere di una qualche utilità per comprendere l’evento che ha nome Auschwitz. Non vi è più posto per fedeltà o infedeltà, fede o agnosticismo, colpa e pena, o per termini come testimonianza, prova, e speranza di salvezza e neppure per forza e debolezza, eroismo o viltà, resistenza o rassegnazione.
Di tutto ciò non sapeva nulla Auschwitz che divorò bambini che non possedevano ancora l’uso della parola e ai quali questa opportunità non fu neppure concessa. Chi vi morì, non fu assassinato per la fede che professava e neppure a causa di essa o di una qualche convinzione personale. Coloro che vi morirono, furono innanzitutto privati della loro umanità in uno stato di estrema umiliazione e indigenza; nessun barlume di dignità umana fu lasciato a chi era destinato alla soluzione finale — nulla di tutto ciò era riconoscibile negli scheletrici fantasmi sopravvissuti nei Lager liberati. E tuttavia — paradosso dei paradossi — fu proprio l’antico popolo dell’alleanza — alleanza a cui nessuno di quanti presero parte allo sterminio, assassini e martiri, più credeva —, fu proprio questo popolo e non un altro ad affrontare il destino dell’annientamento totale con il falso pretesto della razza: il più mostruoso capovolgimento della elezione in maledizione che rese ridicolo ogni tentativo di attribuirvi un senso. Quindi un qualche nesso sussiste — del tipo più perverso — con coloro che cercarono Dio e coi profeti, i cui discendenti furono tratti dalla dispersione e riuniti nell’unità di una morte comune. Dio permise che ciò accadesse. Ma quale Dio poteva permetterlo?
Si deve considerare a questo punto, il fatto che l’ebreo, di fronte a un simile interrogativo, si trova teologicamente in una situazione più difficile del cristiano. Infatti, per il cristiano che attende l’autentica salvezza dall’al-di-là, questo mondo (e in particolare il mondo umano a causa del peccato d’origine) è il mondo di Satana e conseguentemente un mondo non degno di fiducia. Ma per l’ebreo che vede nell’al di qua il luogo della creazione, della giustizia e della salvezza divina, Dio è in modo eminente il signore della storia, e quindi “Auschwitz”, per il credente, rimette in questione il concetto stesso di Dio che la tradizione ha tramandato. Come ho cercato di dimostrare, Auschwitz rappresenta quindi per l’esperienza ebraica della storia una realtà assolutamente nuova e inedita, che non può essere compresa e pensata con le categorie teologiche tradizionali. Quindi chi non intende rinunciare sic et simpliciter al concetto di Dio (e il filosofo può legittimamente rivendicare il diritto a non rinunciarvi), deve pensare questo concetto in modo del tutto nuovo e cercare una nuova risposta all’antico interrogativo di Giobbe. Ove decidesse di farlo, dovrebbe anche lasciar cadere l’antica concezione di Dio signore della storia: perciò, quale Dio ha permesso che ciò accadesse?»