“Il comico. Teorie, forme, rappresentazioni” a cura di Maria Cristina Cabani, Marina Foschi e Mauro Tulli

Il comico. Teorie, forme, rappresentazioni, Maria Cristina Cabani, Marina Foschi, Mauro TulliLa raccolta di studi Il comico. Teorie, forme, rappresentazioni, a cura di Maria Cristina Cabani, Marina Foschi, Mauro Tulli (Pisa, PUP, 2019), nasce da un seminario sul tema che si è tenuto nell’ottobre 2018 e ha visti riuniti i tre dottorati del Dipartimento di Filologia, letteratura e linguistica. La scelta del tema è stata dettata dal fatto che la nozione di ‘comico’, vasta e costantemente da ridefinire, riguarda i più diversi campi artistici e consente pertanto l’impiego di un’ottica pluridisciplinare (letteraria e linguistica nel caso specifico) e di ampio spettro cronologico (dai classici al contemporaneo). Il compito dei diversi interventi è stato quello di definire e precisare quella nozione – tanto ampia quanto vaga – rapportandola di volta in volta a testi, generi ed epoche specifici. Pur essendo difficile e in fondo scorretto dare una definizione univoca e lineare del comico in letteratura, è possibile tuttavia abbozzare una storia del comico nelle sue diverse manifestazioni letterarie.

In ambito letterario il comico nasce con la nascita stessa della letteratura. Questo vale tanto per la tradizione classica, quanto per quella moderna. Per l’ambito classico basti pensare a un genere costituzionalmente ‘comico’ qual è la commedia, che percorre quasi immutato l’arco dei secoli, affiancandosi fin dalle origini al suo contraltare ‘serio’, la tragedia (“La verità sui poeti tragici risiede nei comici”: vita morte e miracoli della tragedia nelle Rane di Aristofane OLIMPIA IMPERIO); ma anche alle potenzialità comiche di un personaggio ‘epico’ come il Paride dell’Iliade (“La debole ignoranza” del personaggio di Paride LUCA FERRI), semplice spunto di quello che diventerà un genere, l’eroicomico, che dall’antichità (la pseudo omerica Batracomiomachia) giungerà al Seicento e oltre. Sul versante moderno, osserveremo, con ELISA ORSI (Alle origini della poesia comico-realistica: il caso di Rustico Filippi), che, alle origini della letteratura italiana, la poesia duecentesca viaggia su due linee parallele e non intersecantesi. La produzione di Rustico Filippi si divide infatti equamente fra una linea amorosa di stampo cortese e una linea comico-burlesca che non può essere letta, tuttavia, come semplice parodia, come controcanto dell’altra. Questa seconda linea, definita anche comico-realistica, attinge semplicemente a una realtà diversa da quella cortese, una piccola realtà municipale osservata nei suoi livelli più bassi e spesso degradati. Bisognerà attendere il Cinquecento, con la codificazione bembiana del petrarchismo lirico, per assistere alla nascita di una vera e propria poesia comico-parodica, nella quale il comico si manifesta dichiaratamente come rovesciamento del canone.

Come illustra il volume, il comico investe, seppur in modi e diversi, i diversi generi letterari: sia in quelli ad esso specificamente votati (la commedia, il capitolo bernesco, il travestimento), sia in quelli che possono comunque accoglierlo fra le loro componenti (la novella, il romanzo, perfino l’epistolografia). Fa eccezione la tragedia, ma anch’essa conoscerà una versione per così dire ‘addolcita’ con la tragicommedia. Il comico risponde infatti a un bisogno profondo e continuamente teorizzato: quello del “diletto”, della pausa festiva nel dramma esistenziale.

A questo proposito, si può notare che ben tre saggi del volume sono dedicati proprio all’epistolografia: tre saggi, non a caso, di ambito cinquecentesco, essendo il Cinquecento il secolo in cui più forte si manifesta la spinta teorica (teoria dei generi) e, di conseguenza, la sperimentazione. Le analisi sulla corrispondenza fra Bembo e Bernardo Dovizi (Bembo comico? Linguaggio cifrato e tentazioni parodiche nella corrispondenza con Bernardo Dovizi detto il Bibbiena FRANCESCO AMENDOLA) su Tasso e Annibal Caro (“Hor lasciando da parte le burle” su una lettera di Bernardo Tasso ad Annibal Caro VALENTIN A LEONE) mostrano come il comico e il burlesco facciano breccia anche nelle lettere, ma sempre con uso locale, come breve intermezzo nel quadro di un discorso più sostenuto, quasi a sperimentare le potenzialità del comico sia come semplice varietas stilistica (in questo modo lo usa il Tasso dialogando col Caro), sia come mezzo per accattivarsi la simpatia dell’interlocutore prima di parlare di cose ‘serie’. Insomma, Tasso e Bembo si sintonizzano momentaneamente sul registro faceto per creare una maggiore intesa.

Erasmo e Guillaume Budé, invece, affrontano la questione da un punto di vista teorico, discutendo nel loro scambio epistolare sulla legittimità e dignità di forme minori come il proverbio e i leptologemata in generale , cioè “discorsi leggeri e opere futili” ( Erasmo, Budé e i Leptologemata: retorica del comico e comico della retorica ELISA BACCHI) con la certezza, da parte di Erasmo (autore degli Adagia 1508), che proprio nelle forme brevi e leggere, futili e degne di riso, si manifesti la maggior quantità di ingegno e di sapienza costruttiva. Erasmo rivaluta la festivitas classica tanto nella teoria quanto nella prassi, rifacendosi ad una antica tradizione che ha il suo massimo rappresentante in Luciano di Samosata.

Il discorso sul comico nella letteratura si incontra inevitabilmente con quello sulla parodia: un genere (o piuttosto una forma) di difficile definizione, una nozione non meno sfuggente di quella di comico. La questione della parodia compare in numerosi saggi (il concetto risale, anche in questo caso, all’antichità classica) ed è affrontata in modo organico in quello di DARIO NICOLOSI (Parodie di tragedie nel Settecento francese, o come è possibile ridere del serio), volto a definire specificamente la parodia nella tragedia del Settecento francese, ma passando di necessità attraverso una definizione generale del concetto, a partire da quella, ormai classica, ma assai discussa, di Gérard Genette (Palimpsestes. La littérature au second degré 1982) e in quello di CAMILLA DEL GRAZIA (La parodia nella postmodernità) sul romanzo postmoderno di Tom Holt. La parodia presuppone un testo-oggetto su cui esercitarsi, ma a quali livelli di esso si estende? Lettera, significato, stile? E qual è il fine della parodia? Attacco all’oggetto parodiato o semplice presa di distanza da esso dettata da un’esigenza di svincolamento dai modelli, di rinnovamento, e, di conseguenza, di messa in discussione? La parodia coinvolge solo l’ambito letterario o va oltre, coinvolgendo il politico e il sociale? L’indagine di Nicolosi conduce alla considerazione che nel Settecento “emozionarsi per il patetico tragico e riderne nella parodia” non si escludono né contraddicono ma coesistono nella sperimentazione di un ampliamento delle possibilità espressive. Simili forme di coesistenza, del resto, erano già state sperimentate in precedenza, come per esempio nell’Adone  di Marino, un poema aperto al massimo a quella che Nicolodi definisce ‘poliedricità del reale’ e nel quale il confine fra tragico e parodico è spesso indecidibile. Come tutte le categorie, anche quella di parodia muta nel tempo e nel modo. Nel post moderno il quadro intertestuale (indispensabile per una letteratura di ‘secondo grado’ qual è quella parodica) è del tutto insufficiente a comprendere il fenomeno, non solo perché il post moderno tende a superare le distinzioni fra i generi e, di conseguenza, a rendere più difficile l’individuazione dell’oggetto della parodia, ma anche perché il fenomeno parodico tende a superare i limiti di genere e a estendersi oltre i confini letterari.

Per sua natura la parodia presuppone un rapporto intertestuale nel quale il testo o il frammento testuale ‘parodiato’ è ripreso dal ‘parodiante’ previa decontestualizzazione e ricontestualizzazione straniata. Proprio questo fenomeno di straniamento può procurare un effetto ridicolo, comico. Ma la parodia si lega necessariamente al riso? Ogni atto parodico è fonte di comicità? È quanto si chiede, per esempio, Linda Hutcheon, per escludere poi il rapporto forzoso fra parodia e comico. La parodia stabilisce piuttosto una funzione di distanza critica fra il parodiante e il parodiato, spesso con intenzioni distruttive nei riguardi del secondo.

L’esperienza insegna, però, che non solo la parodia non genera necessariamente il comico, ma anche che essa non aggredisce necessariamente l’oggetto su cui si esercita, cioè il rapporto che con esso stabilisce, lungi dall’essere critico, può essere semplicemente ‘ludico’. La componente intertestuale e trasformativa è costitutiva del processo parodico; gli effetti (comico, ludico, serio, demolitivo) possono variare di volta in volta e le intenzioni che presiedono all’esercizio parodico possono risultare talvolta sfuggenti.

Caso esemplare quello considerato da MARTINA TALIANI (Il rovescio comico della follia amorosa: la Marfisa bizzarra). La Marfisa bizzarra è il poema di un goffo continuatore del Furioso, Dragoncino da Fano, il quale riprende situazioni tipicamente ariostesche rovesciandole di segno: da uomo a donna, per esempio, nel caso della follia amorosa (della quale è vittima Marfisa). Ma la pratica del rovesciamento non ha in questo caso alcun intento polemico o aggressivo nei confronti di Ariosto e oscilla fra il semplice bisogno di variatio ottenuta con poco dispendio di energie e il desiderio di alleggerire il contesto, privandolo di ogni nota tragica.

Fra gli obiettivi della parodia può esserci la satira. Quando, per esempio, Tassoni parodia il modello epico tassiano (nella Secchia rapita) la parodia dell’epica (genere non più praticabile in una società degradata come è ai suoi occhi quella primo seicentesca) non si rivolge contro i modelli (Tasso in primis) ma contro la società stessa. La guerra fra due comuni vicini per il possesso di una secchia di legno (moderno corrispettivo della bella Elena) altro non è che il simbolo di una degradazione che coinvolge la guerra, i suoi obiettivi, i personaggi che la combattono: una guerra ridicola e insensata. L’eroicomico, del resto, sfrutta spesso la parodia letteraria con obiettivi satirici. Ma la satira non necessita per forza della parodia, né la parodia è necessariamente satirica. Il genere satirico ha, in letteratura, uno statuto autonomo tanto nei riguardi della parodia quanto in quelli del comico e un percorso riconoscibile dall’antichità al Cinquecento e oltre, fino alla contemporaneità. Lo illustra il saggio di FRANCESCO CANNIZZARO Tra diminutio sui e critica alla società: follia e presentazione del proprio corpo in Orazio e nelle Satire dell’Ariosto che mette a confronto il ritratto della persona poetica nel poeta classico e in quello moderno e le diverse finalità della loro satira.

L’umorismo e il racconto umoristico (altro aspetto del comico) sono un fenomeno essenzialmente ottocentesco. Assai diverso rispetto a quello teorizzato da Pirandello e da altri suoi contemporanei era infatti il concetto di umorismo presso i membri dell’Accademia primo seicentesca che si intitola appunto “degli Umoristi”. Per Tassoni, che di quella accademia fu membro e principe, l’umorismo è, prima di tutto, bizzarria, stravaganza, spirito “bisquadro” (secondo una sua definizione). La visione umoristica, che ILARIA MUOIO illustra (“L’opposta faccia di ciascuna cosa”) negli scritti di Luigi Antonio Villari, un “umorista” che si colloca “fra Capuana e Pirandello”, consiste invece proprio nel cogliere il rovescio delle cose, in un atteggiamento di costante ambivalenza, fra riso e pianto, fra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, fra serio e ridicolo, fra follia e saggezza profonda. Il Mutamondo di Villari si inserisce all’interno di un ricco panorama di opere umoristiche (Tarchetti, Cagna, Dossi, Faldella), e di teorie sull’umorismo inquadrabili entro limiti cronologici definiti e come reazione a un momento specifico di crisi politico-sociale.

Il discorso sul comico contemporaneo supera i confini della letteratura e confonde i confini di genere. Non mancano, nella raccolta, indagini su moderne forme di comicità intermediale come quella di MARTINA LEMMETTI sullo sketch televisivo Ladicraker. In questo genere più teatrale che letterario (come accade del resto nel cabaret) la parola si associa, come nel teatro, alla mimica facciale e al gesto ed è pilotata dall’artificio, ben noto a ogni spettatore televisivo, della risata artificiale, a comando. Eppure, se ci pensiamo, quell’artificio è antichissimo. Nella scena della rete di Vulcano, per esempio, nella quale i due amanti (Ares e Afrodite) sono catturati durante un amplesso amoroso, gli dei spettatori hanno reazioni diverse, ma soprattutto ridono. Così facendo, essi sollecitano il lettore a fare altrettanto. I meccanismi del comico, profondamente radicati nel genere umano, sono fondati su alcune costanti che si ripetono oltre i tempi e oltre la varietà dei generi.

Cristina Cabani
Professore Ordinario di Letteratura Italiana presso il Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Università di Pisa

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link