
In che modo il tema dell’organizzazione del comando militare si connette a quello dell’imperialismo romano?
L’espansione di Roma prima in Italia, quindi nel bacino mediterraneo, che conobbe il suo periodo più spettacolare tra il IV e il II secolo a.C., rappresenta uno dei fenomeni politici, militari e culturali più interessanti del mondo antico. A rendere peculiare questo processo fu non solo la rapidità con cui si svolse – che già impressionò il contemporaneo Polibio – ma il fatto che Roma riuscì nell’impresa di sottomettere le grandi potenze del tempo (soprattutto quella cartaginese) mantenendo più o meno intatte le sue strutture istituzionali, che erano quelle proprie di una città-Stato. Una delle sfide più grandi che la classe dirigente romana si trovò ad affrontare fu quella di adattare il proprio apparato bellico alle mutate esigenze militari. Un problema che si traduceva nella ricerca di un difficile compromesso tra la necessità di dispiegare ogni anno un numero sempre più crescente di armate e il bisogno di mantenere inalterati gli equilibri politici tra i sempre più ambizioni membri della nobilitas. Era cioè necessario evitare, da una parte, che singoli personaggi acquisissero un potere eccessivo mantenendo troppo a lungo il controllo di un esercito, ma garantire, dall’altra, che a comando delle operazioni più delicate si trovassero gli uomini in possesso di maggiore esperienza militare. Così come in altri campi, i Romani procedettero con continue sperimentazioni fino a quando non riuscirono a elaborare un sistema adatto a far fronte alle sfide imposte soprattutto dai primi due conflitti combattuti contro la città di Cartagine.
Se quindi le guerre condotte durante l’età dell’imperialismo funsero da propulsore per stimolare continue innovazioni nel sistema bellico romano, allo stesso tempo, però, i mutamenti prodotti in questo campo finirono per avere profonde ripercussioni sulla conduzione della politica espansionistica romana: il fatto di aver elaborato un apparato in grado di sconfiggere quella che era considerata come una delle più grandi potenze del tempo rese i Romani confidenti sulla possibilità di sottomettere al loro dominio altre parti del mondo conosciuto. In un certo senso, furono proprio le modifiche introdotte nell’organizzazione del comando militare a lanciare definitivamente Roma sulla strada dell’imperialismo.
A chi spettava il comando militare a Roma nella prima fase della storia repubblicana?
I primi centocinquant’anni della storia repubblicana (509-367 a.C.) rimangono per molti aspetti avvolti nel mistero. Per quest’epoca disponiamo di poche fonti letterarie e quelle superstiti (pur basandosi su una tradizione precedente) furono redatte a secoli di distanza dagli avvenimenti. Ciò crea numerosi problemi per la ricostruzione storica dell’evoluzione delle strutture istituzionali della neonata Repubblica, tra cui ricade anche l’organizzazione del comando militare. La versione più accreditata (trasmessa da autori di età augustea come Tito Livio e Dionigi di Alicarnasso) afferma che già nel 509 a.C. il comando militare, che prima era appannaggio pressoché esclusivo del re, sarebbe passato nelle mani di due magistrati – i consoli – contrassegnati da una piena e pari collegialità. Tale stato di cose si sarebbe mantenuto grosso modo inalterato per tutta l’epoca successiva (salvo una parentesi di circa trent’anni, all’inizio del IV secolo a.C., in cui ai consoli sarebbero subentrati dei magistrati noti con il nome di ‘tribuni militari con potestà consolare’). In realtà la stessa tradizione letteraria ha lasciato indizi che spingono verso una ricostruzione diversa e che dipingono uno scenario caratterizzato, almeno in principio, da numerose sperimentazioni. In particolare, è del tutto probabile che in una prima fase (corrispondente alla prima metà del V secolo a.C.) il comando venisse regolarmente assegnato a uno solo dei due nuovi magistrati repubblicani e che solo con il tempo si sia giunti a una piena collegialità – almeno in ambito militare – tra queste due figure. A determinare questo passaggio fu probabilmente la necessità di dispiegare regolarmente (quasi ogni anno) almeno due eserciti cittadini per far fronte ai sempre più numerosi conflitti in cui si trovava coinvolta la città.
Quale processo evolutivo caratterizzò le strutture di comando romane durante la prima guerra punica?
Come si è già accennato, lo scontro con Cartagine rappresentò una delle sfide più impegnative per la Repubblica romana, che si trovò coinvolta in un lunghissimo conflitto (circa 23 anni, dal 264 al 241 a.C.) con una potenza extra-italica che fondava la sua forza su un’impressionante marina da guerra. Per uscire vittoriosi da questa contesa i Romani furono costretti a introdurre significative modifiche al proprio sistema di comando: per la prima volta entrambi i consoli vennero impegnati regolarmente al di fuori della penisola per quasi tutto l’arco annuale della loro carica e anche i pretori (magistrati colleghi, ma in un certo senso inferiori ai consoli) videro aumentate le proprie responsabilità militari, arrivando a occuparsi della difesa di tutte le coste italiche dalle incursioni della flotta punica mentre i consoli erano impegnati in Sicilia. Ad ogni modo, ciò che emerge con una certa chiarezza e in modo abbastanza sorprendente, è che la classe dirigente romana si dimostrò ben attenta a non spingere troppo oltre questo processo evolutivo: per esempio in questo periodo si fece un uso limitatissimo della prorogatio imperii, una pratica già introdotta alla fine del IV secolo e che permetteva a un console, una volta terminata la sua carica annuale, di mantenere il comando (imperium) sull’esercito per un periodo supplementare necessario a completare le operazioni in cui era impegnato. Tale reticenza ad abusare di questo così come di altri istituti va letta ancora una volta alla luce della volontà, da parte della classe dirigente, di limitare le opportunità di gloria per i propri membri ed evitare che alcuni personaggi acquisissero, in virtù di un prolungato esercizio del comando e dei successi militari eventualmente conseguiti, una posizione dominante all’interno dello Stato.
Quali cambiamenti furono introdotti nell’organizzazione del comando militare con la seconda guerra punica?
Se il primo conflitto con Cartagine aveva rappresentato per Roma una sfida notevole, la seconda guerra punica (218-201 a.C.) assunse sin dalle prime battute una portata addirittura mondiale. La fulminea e vittoriosa marcia di Annibale in Italia costrinse i Romani a una guerra logorante e ad affrontare numerose altre minacce (in Spagna, Grecia, Sicilia e Sardegna) da parte di potenze desiderose di approfittare delle difficoltà incontrate da Roma per liberarsi dalla sua egemonia. Di fronte alla rapida ed esponenziale crescita dei fronti bellici, i Romani furono costretti a dar fondo a tutte le risorse e a rivedere profondamente l’organizzazione del proprio apparato bellico. Per quanto riguarda la sfera di comando, questo processo si tradusse in una ben più generosa e articolata concessione dell’imperium a diverse figure istituzionali. Nell’arco quasi ventennale di questo conflitto vi furono personaggi che finirono per mantenere il comando di un esercito per molti anni di seguito (o attraverso successive elezioni al consolato o per mezzo di continue proroghe dell’imperium), travalicando quei limiti che fino a quel momento la classe dirigente aveva strenuamente difeso. Sicuramente l’introduzione più interessante fu quella che nel 210 a.C. vide il conferimento del comando militare sulle legioni impegnate in Spagna a un giovane cittadino che non aveva ancora rivestito alcuna magistratura curule (cioè la pretura o il consolato): il ventiquattrenne P. Cornelio Scipione, successivamente conosciuto come “Africano” per aver posto vittoriosamente fine al conflitto. Si introduceva nella prassi politica un precedente pericoloso, che disgiungeva il comando di un esercito dall’esercizio di una regolare magistratura. Non è un caso, quindi, che proprio gli ultimi anni del conflitto furono dominati da numerosi contrasti tra il giovane Scipione – ancora al comando di un esercito, questa volta impegnato in Africa – e i neoeletti consoli, che reclamavano il diritto di essere posti a capo delle più importanti operazioni militari, come era sempre avvenuto fino a quel momento. Lo stato emergenziale vissuto da Roma alla fine del III secolo a.C. permise al Senato di risolvere pacificamente questi conflitti, ma fu in questo contesto che vennero gettate le basi per quegli scontri politico-istituzionali che, poco più di un secolo dopo, porteranno al collasso l’intero sistema repubblicano.
Michele Bellomo è Professore a contratto di Antichità e istituzioni romane presso l’Università degli Studi di Milano, dove ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Antichistica nel 2015. Nei suoi lavori si è occupato dello sviluppo delle istituzioni e delle magistrature romane in età repubblicana e dei mutamenti e delle differenti articolazioni in cui venne configurandosi, alla svolta tra III e II sec. a.C., la concezione dell’imperialismo a Roma.