
Secondo le evidenze scientifiche, le emozioni costituiscono un elemento fondamentale del comportamento umano e rivestono un ruolo primario nella comprensione di qualsiasi comportamento individuale o di gruppo. Per l’individuo, le emozioni sono sistemi evoluti di elaborazione delle informazioni necessarie alla sopravvivenza in grado di attivare risposte comportamentali immediate.
Le emozioni hanno un’unica matrice psicologica e neurofisiologica e realizzano connessioni tra ricordi e cognizione, fungendo da motivazioni del comportamento umano.
Le emozioni collettive si manifestano quando una parte preponderante dei membri di un gruppo condividono la stessa reazione emotiva per un dato fenomeno o condividono l’emozione degli altri; come gli individui, i gruppi hanno reazioni emotive agli eventi che impattano sulla percezione di benessere collettivo e sulla sopravvivenza del gruppo stesso, innescando motivazioni alla base del comportamento generale.
Le emozioni costituiscono anche il tessuto connettivo della cronologia della vita dei gruppi e forniscono le linee guida per la valutazione di “chi è dentro e chi è fuori dal gruppo”: riconoscere l’importanza delle emozioni come elemento chiave della motivazione, è fondamentale nella valutazione predittiva di atti di ostilità o di violenza da parte degli individui e/o dei gruppi di individui.
I leader carismatici sono in grado di influenzare/condizionare i gruppi a reinterpretare gli eventi secondo modalità che determinano la formazione delle emozioni di gruppo.
Questo meccanismo di influenza è fondato su storie basate su valutazioni o rivalutazioni di eventi e situazioni critiche e sulla condivisione di emozioni associate espresse dai leader.
La comunicazione incrementa la sua efficacia attraverso l’integrazione del canale verbale (utilizzo di parole specifiche, metafore, immagini e analogie cariche di emozioni) e non verbale (espressioni facciali, tono di voce, gesti e linguaggio del corpo).
Le emozioni non vengono condivise direttamente (per esempio, “abbiamo percepito un ostacolo, quindi dobbiamo essere arrabbiati”); ma comunicate indirettamente attraverso le associazioni tra gruppi di parole, metafore, analogie e comportamenti non verbali a forte contenuto emozionale. Attraverso l’uso attento e integrato del linguaggio verbale e dei comportamenti non verbali, i leader sono in grado di motivare, intensificare o disinnescare le situazioni e incitare i gruppi all’azione o meno, attraverso l’attivazione emotiva.
Le espressioni emotive non verbali espresse dai leader facilitano la condivisione delle emozioni e la valutazione degli eventi da parte dei componenti del gruppo (“contagio emotivo”); gli eventi possono essere percepiti come atti di ingiustizia o di benevolenza, e gli autori di questi atti possono essere visti alternativamente come “cani infedeli” o “combattenti per la libertà”.
La condivisione delle emozioni consente ai leader di motivare i seguaci a intraprendere determinate azioni perché le emozioni costituiscono il fondamento della motivazione ad agire.
Questo modello di comunicazione mirata all’influenza dei gruppi è stato definito in ambito scientifico “ipotesi ANCODI”: questa ipotesi sostiene che la combinazione delle emozioni di rabbia, disprezzo e disgusto abbia un effetto sinergico più potente degli effetti indipendenti di ciascuna emozione data. Pensate ai componenti della polvere da sparo: carbone, zolfo e nitrato di potassio hanno singole proprietà caustiche, ma non sono esplosivi: tuttavia, quando sono compressi insieme, diventano un mix pericoloso che è instabile e quindi combustibile.
Un processo simile è quello effettuato dai leader carismatici attraverso le emozioni di rabbia, disprezzo e disgusto, utilizzati come elementi potenzianti ed integranti del messaggio verbale.
Quali sono gli strumenti di analisi del comportamento non verbale?
L’analisi degli elementi fondamentali del comportamento non verbale è stata il tema del mio libro “Segnali in codice – L’analisi del comportamento non verbale”, pubblicato nel 2017 da Armando Editore.
Nella prima parte di questo testo viene presentato lo stato dell’arte della conoscenza scientifica circa le espressioni facciali, la voce, il corpo e i gesti, le influenze culturali sul comportamento non verbale e l’inganno, evidenziando gli strumenti cui è attualmente possibile attingere per le attività di applicazione pratica.
Nella seconda parte sono stati inseriti i contributi e le esperienze di professionisti provenienti da diversi settori che hanno mostrato in che modo l’utilizzo degli strumenti della comunicazione non verbale risulta essere un fattore cardine nel miglioramento della qualità e dell’efficacia dell’attività professionale.
Attraverso questa condivisione è stato possibile mostrare in che modo certe conoscenze e strumenti possono essere utilizzati nei vari settori specifici, evidenziando i vantaggi e le caratteristiche di questo approccio, verificando come e con quali risultati le conoscenze e gli strumenti derivati dalla ricerca scientifica possono essere trasferiti nella pratica quotidiana.
La comunicazione non verbale è attualmente un settore di studi che incorpora numerose discipline scientifiche: sociologia, psicologia, antropologia ed etologia, comunicazione ma anche arte, informatica, criminologia e criminalistica. Ognuna di queste specialità si focalizza su differenti aspetti della comunicazione non verbale: la psicologia si è concentrata principalmente sull’espressione non verbale delle emozioni umane; l’antropologia ha approfondito l’uso dello spazio e dei gesti nelle differenti culture; l’informatica, specialmente nella cosiddetta realtà virtuale, ha focalizzato l’attenzione sul comportamento non verbale per rendere più realistiche le rappresentazioni umane e il loro avatar (si pensi all’attuale massiccio uso che si fa di questi strumenti nella fiction cinematografica); la criminologia si è servita della comunicazione non verbale per la profilazione dei comportamenti dei criminali e per l’analisi degli indicatori di menzogna nell’interrogatorio giudiziario e nell’intervista investigativa.
Si tratta di un elenco non esaustivo e completo dei contesti di applicazione: in “Segnali in codice” viene condivisa una panoramica molto dettagliata di quali categorie professionali possono risultare sensibili all’utilizzo degli strumenti di analisi del comportamento non verbale.
In questo ambito, i principali strumenti di valutazione utilizzati nell’analisi sono rappresentati prevalentemente dai cosiddetti “comportamenti dinamici” dei soggetti, ovvero:
– comportamento motorio-gestuale o come viene comunemente definito linguaggio del corpo o body-language, ovvero l’insieme di gesti e movimenti del corpo, sguardo e contatto oculare, gestione dello spazio personale, orientazione e prossemica, contatto fisico, postura e andatura;
– le espressioni facciali primarie (universali) e secondarie (frutto di una integrazione adattiva tra elementi universali e apprendimento sociale), gli illustratori e i regolatori della conversazione (o segnali di interpunzione) e gli emblemi facciali;
– la voce e gli elementi non verbali del parlato (il cosiddetto “para-verbale”), ovvero tono della voce, ritmo e velocità dell’eloquio, tempi di latenza nelle risposte, pause, rumori para-verbali (balbettii, segregati vocali);
Un aspetto molto importante consiste nella valutazione delle differenze e delle influenze culturali nelle espressioni non verbali dei vissuti emotivi e delle intenzioni individuali.
Una sintesi di questi elementi di analisi del comportamento non verbale è alla base di modelli di valutazione della credibilità, inganno e menzogna.
Effettuare un’analisi di credibilità è un mestiere tutt’altro che semplice: la ricerca scientifica ha dimostrato come le persone siano molto spesso preda di stereotipi nella valutazione degli indicatori comportamentali e che le effettive abilità dei singoli nel distinguere verità e menzogna non siano direttamente correlate con risultati concreti e misurabili. La stessa ricerca scientifica ha decisamente sottostimato i significativi risultati ottenuti dai professionisti che cercano di scoprire chi mente (investigatori, ufficiali della dogana, esperti di sicurezza nazionale); essi ci mostrano come il tipo di metodologia d’indagine sia l’elemento discriminante per ottenere un buon risultato oppure un insuccesso.
Risultati degni di nota si ottengono quando gli indicatori non verbali vengono utilizzati come dati per ampliare la base informativa, per ottenere dagli altri maggiori e migliori informazioni e non come informazioni-chiave per l’elaborazione di un giudizio sulla persona che mente o meno. Per dichiarare una persona colpevole di un qualsiasi reato ci vogliono solide prove e gli indicatori non verbali di menzogna non sono mai prova della colpevolezza di qualcuno, ma solo indicazioni della sua volontà di falsificare o dissimulare la realtà o parte di essa. Per esempio, un soggetto mostra una micro-espressione di paura mentre nega di conoscere un certo spacciatore di droga durante un interrogatorio: significa che il soggetto sta mentendo? Oppure che il soggetto ha paura dello spacciatore? Oppure ha paura di non essere creduto?
Sulla base di quanto condiviso in “Segnali in codice”, noi possiamo concludere che il soggetto probabilmente sta vivendo un’involontaria e incontrollabile manifestazione di paura e l’investigatore può considerare questo segnale come un “hot spot”, approfondendo con altre domande il livello di conoscenza tra il soggetto e lo spacciatore di droga. Nel corso di questo approfondimento l’investigatore esaminerà il comportamento del soggetto, secondo un modello di analisi “verticale” sui principali canali di comunicazione non verbale, considerando eventuali discrepanze e incoerenze tra il contenuto verbale e i segnali non verbali emessi dal volto, dal corpo inteso come body language/gesti/prossemica e postura e dal tono di voce: le risultanze di questa analisi, debitamente collezionate e considerate sia in funzione del contesto che della relazione temporale tra gli indizi e le “fasi calde/argomenti chiave” del colloquio, determineranno l’elaborazione del giudizio di credibilità o meno del soggetto.
Ricordiamo come, in presenza di un’alta posta in gioco, i giudizi di credibilità emessi dai professionisti differiscono sensibilmente da quelli dei “cacciatori di menzogna” non professionisti (67% vs 54%): il motivo principale di questa differenza consiste proprio nel metodo d’indagine.
Una micro-espressione facciale di paura può tradire una intenzione di falsificazione o dissimulazione, ma non è un segnale di menzogna di per sé e, secondo l’analisi scientifica, non esistono singoli comportamenti o combinazioni di questi che si manifestano esclusivamente quando si mente, né segnali la cui assenza può indicare una possibile verità: sfortunatamente, “il naso di Pinocchio” non esiste.
L’elemento chiave nella ricerca della menzogna (lie detection) è rappresentato dalla congruenza/incongruenza tra il contenuto verbale espresso e gli indizi comportamentali mostrati in un determinato momento: secondo quanto espresso dalle ricerche scientifiche sulla cognizione incapsulata (embodied cognition) la cognizione è espressa con le azioni del corpo e se anche ci sforziamo di scegliere e controllare i nostri gesti, questi ultimi possono riflettere i nostri pensieri in maniera impercettibile: per questo è molto probabile che chi mente mostri un comportamento che contraddice le sue parole.
Lei ha analizzato i processi di generazione dell’odio di gruppo da parte di leader carismatici: quali evidenze empiriche ne ha tratto?
Recentemente, è stato condotto uno studio pilota su queste teorie, che ha analizzato le emozioni espresse dai leader internazionali e/o capi di gruppi ideologicamente motivati, all’interno di discorsi che contenevano riferimenti a gruppi che i leader disprezzavano. Questi discorsi sono stati correlati all’effettivo accadere di un atto di aggressione verso il gruppo/i gruppi avversi, selezionandoli relativamente a cinque specifici intervalli temporali (3, 6, 12, 18 e 24 mesi) prima degli atti di aggressione. Sono stati inclusi per confronto una piccola quantità di atti e discorsi di gruppi ideologicamente motivati verso gruppi avversi oggetto di odio, che non hanno provocato atti di violenza. I discorsi sono stati analizzati nel loro contenuto emotivo e sono state misurate le differenze di contenuto, separando quelle relative a gruppi che hanno commesso un atto di aggressione da quelle che non hanno dato luogo a comportamenti aggressivi (definite “atti di resistenza”). E’ stato ipotizzato che gli “atti di aggressione” sarebbero stati caratterizzati da un incremento delle emozioni di rabbia, di disprezzo e disgusto verso gli “altri” man mano che si avvicinava l’evento, mentre negli “atti di resistenza” non vi sarebbe stato alcun incremento di queste emozioni.
Come previsto dalle ipotesi alla base di questi studi (Ipotesi ANCODI), gli atti di aggressione sono stati effettivamente associati all’incremento della rabbia, del disprezzo e del disgusto nei periodi immediatamente precedenti gli atti di aggressione: è interessante notare come negli “atti di resistenza” esaminati si siano al contrario evidenziate diminuzioni della presenza di queste emozioni nello stesso intervallo temporale. Non sono state inoltre rilevate variazioni in qualsiasi altra emozione in caso di atti di aggressione o di resistenza.
Questi risultati non sono stati influenzati dalla cronologia degli eventi, perché sono state condotte analisi separate esclusivamente di quegli eventi che negli ultimi cinquant’anni hanno prodotto gli stessi risultati; essi dimostrano come l’analisi delle emozioni specifiche di rabbia, disprezzo e disgusto (e non di generiche emozioni negative), si rivela particolarmente significativa per comprendere come le emozioni di gruppo contribuiscono all’aggressività o ostilità.
Come evidenziato nella prospettiva “discreta” di classificazione delle emozioni primarie, la rabbia è innescata da ciò che un individuo o un gruppo può compiere in termini di atti fisici; il disprezzo e disgusto si concentrano su chi sono le persone o i gruppi.
L’analisi dei discorsi di Martin Luther King, Mahatma Gandhi e il Dalai Lama mostra che spesso questi leader esprimono forte rabbia nei loro discorsi e talvolta anche disprezzo ma non è mai stata rilevata l’emozione di disgusto nei riguardi dei loro avversari nella mimica facciale correlata alle espressioni verbali.
“Il codice dell’odio” esplicita le evidenze empiriche dell’ipotesi ANCODI, unitamente alla condivisione di un nuovo modello di analisi, condotta dall’autore, che aveva lo scopo di verificare se le emozioni di ANCODI, quando causate incidentalmente, possono produrre linguaggio ostile, cognizioni, e comportamenti aggressivi impliciti. Si volevano verificare gli effetti combinati di queste emozioni da una prospettiva applicativa, presupponendo coerentemente con l’ipotesi ANCODI che la manipolazione di tutte e tre le emozioni alteri qualsiasi interpretazione dei possibili effetti di ognuna di queste emozioni provate singolarmente.
Nella precedente ricerca sull’ipotesi ANCODI le emozioni differivano a seconda che l’argomento in discussione fosse relativo al gruppo avversario o meno; per questo motivo nella ricerca condotta in Italia sono stati reclutati soggetti appartenenti a gruppi politici caratterizzati da un gruppo/i avversario/i identificato e con obiettivi, valori e convinzioni contrarie a quelle del gruppo affiliato.
Nell’impostazione base di questo studio, fondata sul concetto di reti neurali, viene ipotizzato che l’elicitazione emotiva sia coerente con l’attività delle reti neurali preesistenti correlate al gruppo avversario; anche quando innescate incidentalmente, queste reti neurali si attivano generando cognizioni associate, linguaggio, emozioni e motivazioni del comportamento. Conseguentemente, se le emozioni elicitate risultassero incoerenti con l’attività delle reti neurali preesistenti il fenomeno non dovrebbe manifestarsi.
Lo studio ha prodotto prove sperimentali iniziali di una correlazione causa-effetto di rabbia, disprezzo e disgusto incidentale sulle cognizioni ostili relative alle condizioni intergruppo, sul linguaggio e sui comportamenti.
Qual è l’importanza in particolare delle metodologie narrative che utilizzano elementi emozionali espressi in modalità non verbale nella creazione delle basi motivazionali dell’aggressività e dell’odio verso i gruppi avversari?
Utilizzando l’ipotesi CAD di Sternberg come base di partenza, abbiamo ritenuto che le emozioni di base si trasformino nel tempo, spesso attraverso la narrazione di storie aventi l’obiettivo di promuovere una cultura basata sull’odio e sulla violenza.
Nello specifico, si possono evidenziare tre elementi di questa trasformazione emotiva:
Elemento Uno – Odio basato sulla Rabbia – riguarda il gruppo che identifica gli eventi che ostacolano gli obiettivi o si basano sulla percezione di ingiustizia; questo elemento può anche interessare il gruppo che identifica le minacce al benessere, alla sicurezza fisica o alle abitudini di vita.
Elemento Due – Superiorità morale basata sul Disprezzo – i gruppi iniziano a reinterpretare situazioni ed eventi che suscitano rabbia identificati nell’Elemento Uno, rivalutando gli eventi da una posizione di superiorità morale, e identificando i collegamenti tra comportamenti o eventi simili (non importa quanto espliciti) codificando l’inferiorità morale del gruppo avverso; questa operazione di rivalutazione è alimentata dall’emozione del disprezzo.
Elemento Tre – Eliminazione basata sul Disgusto – viene effettuata un’ulteriore rivalutazione di eventi e situazioni che portano alla creazione della distanza tra il gruppo e gli “altri”, (che corrisponde alla forma leggera di eliminazione), o all’eliminazione del gruppo avversario (la forma estrema).
Queste convinzioni vengono potenziate e alimentate dall’emozione di disgusto.
La condivisione delle emozioni consente ai leader di motivare i seguaci a intraprendere determinate azioni perché le emozioni costituiscono il fondamento della motivazione ad agire.