
Cos’è, per l’autore di Lolita, la traduzione?
Rispondere in poche parole a questa domanda non è semplice. C’è qualcosa di contraddittorio, di paradossale, quasi, nella concezione della traduzione di Nabokov. Da un lato vi sono i saggi che accompagnano le sue traduzioni e dicono una cosa, dall’altra le sue traduzioni che dicono altro, e infine la sua attività di autotraduttore o di traduttore in collaborazione dei propri testi che è ancora diverso (si veda Traduzioni pericolose. Scritti 1941-1969, Mucchi, 2019, da me curato). Le teorie di Nabokov sulla traduzione così come la sua pratica evolvono nel tempo e diventano sempre più estreme e controcorrente. Schleiermacher aveva parlato di due differenti tipologie di traduttori e traduttrici, coloro che lasciano in pace l’autore o l’autrice e provocano il lettore o la lettrice e coloro che lasciano in pace il lettore o la lettrice ma disturbano l’autore o l’autrice. Se Nabokov comincia col lasciare in pace chi legge come quando traduce Alice nel paese delle meraviglie di Lewis, le sue simpatie saranno sempre più esplicitamente rivolte a chi scrive. I lettori o le lettrici, allora, saranno costretti a meritarsela, quella traduzione, che ha il dovere di lasciar trasparire l’originale.
Come vive, Nabokov, il passaggio dalla prosa russa a quella inglese?
In risposta a un’intervista a Robert Hughes pubblicata nel volume Intransigenze (Strong opinions), Nabokov scrive (e scrive perché, è risaputo, non amava improvvisare): «Il passaggio definitivo dalla prosa russa a quella inglese è stato quanto mai doloroso – come imparare di nuovo a maneggiare gli oggetti dopo aver perso sette o otto dita in un’esplosione». Come chi, menomato, serba il ricordo e la sensazione fisica delle membra perse, la memoria della lingua naturale plasma l’inglese dell’autore di Lolita. Anni di pratica nella propria madrelingua gli avevano permesso di costruire, con dedizione e caparbia, il suo unico e straordinario idioma personale. Finché fu esule in Europa, continuò a servirsi dell’amato russo, affinandolo, addestrandolo, appropriandosene come se si trattasse di un essere vivente e docile. Il suo grande trauma non fu tanto l’esilio quanto il dover sostituire quell’adorata sua lingua con un’altra, l’inglese. Ma se da un lato l’uso di quest’idioma – che pratica fin dall’infanzia – comporta l’“amputazione” del russo, dall’altro permette di conservare la traccia della lingua perduta. Il suo inglese all’inizio scorrevole e normato, se ci è permesso questo termine (si pensi a The real life of Sebastian Knight), man mano che l’autore prende confidenza e acquisisce fama, diventa sempre più complesso e ricco e meticciato (si pensi a Ada o ardore). Lingue straniere e costruzioni sempre più esigenti vengono a incastonarsi all’interno di quell’inglese, come a significare che chi scrive non è (solo) anglofono e che la lingua, come quella di Joyce, è malleabile e in continuo movimento.
Quale sodalizio professionale si instaura tra Vera e Vladimir Nabokov?
Quando Vera Slonim incontra per la prima volta Nabokov a un ballo in maschera, conosceva già alcune delle sue poesie a memoria. L’ammirazione della giovane donna per quel poeta in fiore, goffo e triste (reduce dall’assassinio del padre e da una cocente delusione amorosa), era già presente. Forse è la maschera che non si toglierà nel corso di tutta la serata, forse la sua intelligenza, forse anche quell’ammirazione alla quale Nabokov non era insensibile, o forse sono tutti questi fattori insieme a sedurre lo scrittore. Fin dall’inizio della loro relazione Vera è la musa ispiratrice: “Sono incredibilmente spossato dal mio lavoro. La notte i miei sogni sono in rima e durante il giorno ho i postumi dell’insonnia. Il mio grosso blocchetto degli appunti con le bozze sarà per te – con una dedica in versi. Indirettamente, in un certo modo tortuoso – come la storia dei Medi – mi hai inspirato. Senza di te non mi sarei mosso in questa direzione, per parlare la lingua dei fiori”. Vera, è cosa nota, rappresenta il sogno di ogni artista: la donna che lo capisce e lo sostiene, sgravandolo di quando potrebbe impedirgli di raggiungere il suo obiettivo: creare capolavori. Aiuta il marito, lo sostiene, lo sprona, lo accompagna, prepara le lezioni e lo assiste durante i corsi, legge quanto lui scrive e le relative traduzioni, è il suo autista e guardia del corpo (ha una pistola nella borsa). Ma Vera, così severa con sé stessa, è anche estremamente esigente col suo uomo al punto da rimproverarlo quando si concede qualche distrazione. Forse anche perché, agli inizi, era soprattutto lei a mantenere la famiglia. La sua intelligenza, contrariamente a quella del marito, non manca di senso pratico. Fu lei a salvare Lolita dal rogo contribuendo alla fama imperitura del suo autore. E Nabokov, che le dedica ogni suo libro, scrive: “Senza Vera non avrei scritto un solo romanzo”.
Perché mai Nabokov, tanto severo con i traduttori, mette l’amato figlio a tradurre i propri testi?
Se da un lato i Nabokov desideravano che il figlio avesse una professione nel caso in cui la carriera di cantante d’opera non andasse a buon fine, dall’altro vedono nel figlio il traduttore più congeniale dell’opera di Nabokov. Dmitri conosce a fondo i testi e il modo di pensare e scrivere del padre. Il suo inglese è più spontaneo: è cresciuto in America e pratica la lingua dei suoi coetanei meglio di Nabokov Senior. Rispetta inoltre le istruzioni del padre, e cioè traduce nel modo più letterale possibile proponendo varie soluzioni e lasciando l’ultima parola all’autore che ha il diritto di modificare la traduzione a suo piacimento. Contrariamente agli altri traduttori che potevano risentirsi dei commenti e delle modifiche dell’autore, Dmitri non si sente ferito nel suo orgoglio di traduttore, anzi, è fiero di poter d’essere d’aiuto al padre. Nabokov riconosce il suo contributo, non solo finanziariamente, ma anche citandolo come traduttore in collaborazione con l’autore pur specificando, talvolta, che è l’autore ad assumersi tutte le responsabilità sul lavoro finito. Sembra che questa precisazione sia volta a proteggere il figlio da eventuali attacchi,. anche severi, contro i quali dovrà difendersi alla morte del genitore. E si difenderà così come proteggerà l’opera del padre da critiche e illazioni talvolta in modo molto polemico. Alla morte della madre Dmitri sarà l’erede dell’opera e grazie alla sua iniziazione come traduttore potrà portare avanti il suo compito.
Perché quel figlio indocile rinuncia alla carriera di cantante operistico e pilota accettando di diventare traduttore e custode dell’arte del padre?
Dopo il terribile incidente che per poco non gli costò la vita, Dmitri Nabokov ha un’illuminazione. Esce dal tunnel della morte con nuove priorità: “ho deciso di dare il mio miglior contributo dedicandomi alla scrittura, quella di mio padre e la mia. Contro ogni pronostico, le mie condizioni fisiche risulteranno migliori di quanto non fossero prima dell’incidente, e potrò presto riprendere il tennis, le scalate e lo sci. Di fatto mi dedicherò principalmente all’attività letteraria, ma accetterò volentieri alcuni ruoli speciali che mi vengono proposti per il canto, tra cui un festival turco o lo splendido Requiem di Dvořák per la Israel State Radio.” Non rinuncia ai suoi passatempi preferiti, ma, all’età di 45 anni sceglie, forse per la prima volta, una professione: quella di traduttore e custode dell’opera paterna. Ma se continuerà a svolgere il proprio compito come previsto, i tentativi di scrittura personale cui allude, non avranno altrettanto successo. Scriverà due romanzi, non pubblicati, molte prefazioni talvolta polemiche all’opera del padre e alcune belle pagine autobiografiche, che ritroviamo in Our Private Lives di Daniel Halpern. Forse Brancusi aveva ragione, “all’ombra dei grandi alberi non cresce niente”. Il figlio di Nabokov riuscirà a pubblicare traduzioni di qualità (non sempre sue), ma non riuscirà nel suo intento di emulare il padre come autore, contrariamente a quanto forse avrebbe sperato.
Chiara Montini è traduttrice e ricercatrice. Ha pubblicato una cinquantina di saggi e articoli in italiano, francese e inglese e curato volumi, tra i quali La lingua spaesata. Il multilinguismo oggi (2014); Traduire: genèse du choix (2016); Towards a Genetic of Translation Studies (2017). Nel 2019 ha curato una raccolta dei saggi sulla traduzione di V. Nabokov, Traduzioni pericolose. Saggi 1941-1969 (2019). Tra le sue traduzioni: Mercier e Camier, di Samuel Beckett (Einaudi, 2015)