“Il clan Nabokov. Quando l’erede è il traduttore” di Chiara Montini

Chiara Montini, Lei è autrice del libro Il clan Nabokov. Quando l’erede è il traduttore, edito da Mimesis. Vladimir Nabokov rappresenta, insieme a Samuel Beckett, l’autotraduttore più noto del secolo scorso; in realtà, un altro Nabokov avrà il compito di trasporre, da una lingua all’altra, l’opera del grande scrittore russo: chi è Dmitri Nabokov e quali vicende ne segnano l’esistenza?
Il clan Nabokov. Quando l’erede è il traduttore, Chiara MontiniDmitri Nabokov (1934-2012) è l’unico e adorato figlio di V & V, Vera e Vladimir, Nabokov. Dopo un’infanzia e un’adolescenza molto agiata in Russia, la mitica coppia di trova costretta, ad affrontare esilio, indigenza, lutti e nazismo (ricordiamo che Vera Slonim era ebrea). Eppure, malgrado i terribili eventi, i coniugi tentano di proteggere l’adorato figlio, talvolta viziandolo, e di instillare in lui un senso di amore e sicurezza. Una volta che la famiglia approda in America, quel bambino adorato, fragile di salute e dal carattere irruento e capriccioso, si trasforma in un ragazzone particolarmente portato per gli sport pericolosi e fatalmente attratto dai passatempi più dispendiosi. Di rara intelligenza e proverbiale pigrizia (almeno per quanto riguardava il lavoro), è poco studioso ma sicuro di sé. I genitori osservano con inquietudine quel grande giovanotto dall’indole instabile e procrastinatrice, che sempre rincorre l’adrenalina. Quando decide di perseguire la carriera di cantante d’opera rinunciando agli studi di legge come avrebbero auspicato la madre e il padre, questi vengono ancora una volta in suo soccorso. Decidono di iniziarlo alla traduzione: la carriera operistica è ardua e occorre garantire al figlio un’attività remunerata, un’ancora che possa assicurargli una forma di stabilità. A quell’epoca Nabokov cominciava ad essere conosciuto e già aveva avuto molto da discutere con i suoi traduttori. Questi accettavano con difficoltà le sue ingerenze di autore “primario” sul loro operato: lui voleva una traduzione letterale che avrebbe poi modificato a proprio piacimento (dragonize, è il termine di cui si serve). Nabokov raccomanda allora il figlio a un editore garantendo per lui, e Dmitri esordisce con una traduzione dal russo all’inglese del capolavoro di Lermontov, Un eroe del nostro tempo. Con l’ironia che lo distingue, il padre riassume all’amico Edmund Wilson la distribuzione dei compiti: “Dmitri ci ha dato una mano, a me e a Vera, per la nostra traduzione di Lermontov”. Da quel momento in poi Dmitri tradurrà esclusivamente l’opera del genitore. Ma non sarà questa la sua priorità, almeno in principio. Il grande seduttore si trasferisce in Italia, canta sul palcoscenico, corre in macchina e in offshore, pilota aerei, sfida la morte partecipando ad escursioni sempre più ardue, e un bel giorno si schianta a bordo di una delle sue Ferrari. Sopravvive anche a questo incidente. E rinasce, mutato.

Cos’è, per l’autore di Lolita, la traduzione?
Rispondere in poche parole a questa domanda non è semplice. C’è qualcosa di contraddittorio, di paradossale, quasi, nella concezione della traduzione di Nabokov. Da un lato vi sono i saggi che accompagnano le sue traduzioni e dicono una cosa, dall’altra le sue traduzioni che dicono altro, e infine la sua attività di autotraduttore o di traduttore in collaborazione dei propri testi che è ancora diverso (si veda Traduzioni pericolose. Scritti 1941-1969, Mucchi, 2019, da me curato). Le teorie di Nabokov sulla traduzione così come la sua pratica evolvono nel tempo e diventano sempre più estreme e controcorrente. Schleiermacher aveva parlato di due differenti tipologie di traduttori e traduttrici, coloro che lasciano in pace l’autore o l’autrice e provocano il lettore o la lettrice e coloro che lasciano in pace il lettore o la lettrice ma disturbano l’autore o l’autrice. Se Nabokov comincia col lasciare in pace chi legge come quando traduce Alice nel paese delle meraviglie di Lewis, le sue simpatie saranno sempre più esplicitamente rivolte a chi scrive. I lettori o le lettrici, allora, saranno costretti a meritarsela, quella traduzione, che ha il dovere di lasciar trasparire l’originale.

Come vive, Nabokov, il passaggio dalla prosa russa a quella inglese?
In risposta a un’intervista a Robert Hughes pubblicata nel volume Intransigenze (Strong opinions), Nabokov scrive (e scrive perché, è risaputo, non amava improvvisare): «Il passaggio definitivo dalla prosa russa a quella inglese è stato quanto mai doloroso – come imparare di nuovo a maneggiare gli oggetti dopo aver perso sette o otto dita in un’esplosione». Come chi, menomato, serba il ricordo e la sensazione fisica delle membra perse, la memoria della lingua naturale plasma l’inglese dell’autore di Lolita. Anni di pratica nella propria madrelingua gli avevano permesso di costruire, con dedizione e caparbia, il suo unico e straordinario idioma personale. Finché fu esule in Europa, continuò a servirsi dell’amato russo, affinandolo, addestrandolo, appropriandosene come se si trattasse di un essere vivente e docile. Il suo grande trauma non fu tanto l’esilio quanto il dover sostituire quell’adorata sua lingua con un’altra, l’inglese. Ma se da un lato l’uso di quest’idioma – che pratica fin dall’infanzia – comporta l’“amputazione” del russo, dall’altro permette di conservare la traccia della lingua perduta. Il suo inglese all’inizio scorrevole e normato, se ci è permesso questo termine (si pensi a The real life of Sebastian Knight), man mano che l’autore prende confidenza e acquisisce fama, diventa sempre più complesso e ricco e meticciato (si pensi a Ada o ardore). Lingue straniere e costruzioni sempre più esigenti vengono a incastonarsi all’interno di quell’inglese, come a significare che chi scrive non è (solo) anglofono e che la lingua, come quella di Joyce, è malleabile e in continuo movimento.

Quale sodalizio professionale si instaura tra Vera e Vladimir Nabokov?
Quando Vera Slonim incontra per la prima volta Nabokov a un ballo in maschera, conosceva già alcune delle sue poesie a memoria. L’ammirazione della giovane donna per quel poeta in fiore, goffo e triste (reduce dall’assassinio del padre e da una cocente delusione amorosa), era già presente. Forse è la maschera che non si toglierà nel corso di tutta la serata, forse la sua intelligenza, forse anche quell’ammirazione alla quale Nabokov non era insensibile, o forse sono tutti questi fattori insieme a sedurre lo scrittore. Fin dall’inizio della loro relazione Vera è la musa ispiratrice: “Sono incredibilmente spossato dal mio lavoro. La notte i miei sogni sono in rima e durante il giorno ho i postumi dell’insonnia. Il mio grosso blocchetto degli appunti con le bozze sarà per te – con una dedica in versi. Indirettamente, in un certo modo tortuoso – come la storia dei Medi – mi hai inspirato. Senza di te non mi sarei mosso in questa direzione, per parlare la lingua dei fiori”. Vera, è cosa nota, rappresenta il sogno di ogni artista: la donna che lo capisce e lo sostiene, sgravandolo di quando potrebbe impedirgli di raggiungere il suo obiettivo: creare capolavori. Aiuta il marito, lo sostiene, lo sprona, lo accompagna, prepara le lezioni e lo assiste durante i corsi, legge quanto lui scrive e le relative traduzioni, è il suo autista e guardia del corpo (ha una pistola nella borsa). Ma Vera, così severa con sé stessa, è anche estremamente esigente col suo uomo al punto da rimproverarlo quando si concede qualche distrazione. Forse anche perché, agli inizi, era soprattutto lei a mantenere la famiglia. La sua intelligenza, contrariamente a quella del marito, non manca di senso pratico. Fu lei a salvare Lolita dal rogo contribuendo alla fama imperitura del suo autore. E Nabokov, che le dedica ogni suo libro, scrive: “Senza Vera non avrei scritto un solo romanzo”.

Perché mai Nabokov, tanto severo con i traduttori, mette l’amato figlio a tradurre i propri testi?
Se da un lato i Nabokov desideravano che il figlio avesse una professione nel caso in cui la carriera di cantante d’opera non andasse a buon fine, dall’altro vedono nel figlio il traduttore più congeniale dell’opera di Nabokov. Dmitri conosce a fondo i testi e il modo di pensare e scrivere del padre. Il suo inglese è più spontaneo: è cresciuto in America e pratica la lingua dei suoi coetanei meglio di Nabokov Senior. Rispetta inoltre le istruzioni del padre, e cioè traduce nel modo più letterale possibile proponendo varie soluzioni e lasciando l’ultima parola all’autore che ha il diritto di modificare la traduzione a suo piacimento. Contrariamente agli altri traduttori che potevano risentirsi dei commenti e delle modifiche dell’autore, Dmitri non si sente ferito nel suo orgoglio di traduttore, anzi, è fiero di poter d’essere d’aiuto al padre. Nabokov riconosce il suo contributo, non solo finanziariamente, ma anche citandolo come traduttore in collaborazione con l’autore pur specificando, talvolta, che è l’autore ad assumersi tutte le responsabilità sul lavoro finito. Sembra che questa precisazione sia volta a proteggere il figlio da eventuali attacchi,. anche severi, contro i quali dovrà difendersi alla morte del genitore. E si difenderà così come proteggerà l’opera del padre da critiche e illazioni talvolta in modo molto polemico. Alla morte della madre Dmitri sarà l’erede dell’opera e grazie alla sua iniziazione come traduttore potrà portare avanti il suo compito.

Perché quel figlio indocile rinuncia alla carriera di cantante operistico e pilota accettando di diventare traduttore e custode dell’arte del padre?
Dopo il terribile incidente che per poco non gli costò la vita, Dmitri Nabokov ha un’illuminazione. Esce dal tunnel della morte con nuove priorità: “ho deciso di dare il mio miglior contributo dedicandomi alla scrittura, quella di mio padre e la mia. Contro ogni pronostico, le mie condizioni fisiche risulteranno migliori di quanto non fossero prima dell’incidente, e potrò presto riprendere il tennis, le scalate e lo sci. Di fatto mi dedicherò principalmente all’attività letteraria, ma accetterò volentieri alcuni ruoli speciali che mi vengono proposti per il canto, tra cui un festival turco o lo splendido Requiem di Dvořák per la Israel State Radio.” Non rinuncia ai suoi passatempi preferiti, ma, all’età di 45 anni sceglie, forse per la prima volta, una professione: quella di traduttore e custode dell’opera paterna. Ma se continuerà a svolgere il proprio compito come previsto, i tentativi di scrittura personale cui allude, non avranno altrettanto successo. Scriverà due romanzi, non pubblicati, molte prefazioni talvolta polemiche all’opera del padre e alcune belle pagine autobiografiche, che ritroviamo in Our Private Lives di Daniel Halpern. Forse Brancusi aveva ragione, “all’ombra dei grandi alberi non cresce niente”. Il figlio di Nabokov riuscirà a pubblicare traduzioni di qualità (non sempre sue), ma non riuscirà nel suo intento di emulare il padre come autore, contrariamente a quanto forse avrebbe sperato.

Chiara Montini è traduttrice e ricercatrice. Ha pubblicato una cinquantina di saggi e articoli in italiano, francese e inglese e curato volumi, tra i quali La lingua spaesata. Il multilinguismo oggi (2014); Traduire: genèse du choix (2016); Towards a Genetic of Translation Studies (2017). Nel 2019 ha curato una raccolta dei saggi sulla traduzione di V. Nabokov, Traduzioni pericolose. Saggi 1941-1969 (2019). Tra le sue traduzioni: Mercier e Camier, di Samuel Beckett (Einaudi, 2015)

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