“Il cinema americano in Italia. Industria, società, immaginari. Dalle origini alla seconda guerra mondiale” di Federico di Chio

Prof. Federico di Chio, Lei è autore del libro Il cinema americano in Italia. Industria, società, immaginari. Dalle origini alla seconda guerra mondiale edito da Vita e Pensiero: quando e come le case di produzione americane sbarcano in Italia? E quali mo­delli commerciali adottarono nel nostro Paese?
Il cinema americano in Italia. Industria, società, immaginari. Dalle origini alla seconda guerra mondiale, Federico di ChioI film americani arrivano da noi fin dai primi anni del Novecento, e conoscono una prima significativa circolazione con i titoli della Vitagraph, nei primi anni dieci. Ma è solo nel dopoguerra, verso la metà degli anni Venti, che il cinema americano diventa davvero rilevante sui nostri schermi, fino a diventare in poco tempo predominante

Agli inizi degli anni Dieci erano già presenti in Italia i film di tutte le principali case americane dell’epoca. Parliamo di un numero significativo di titoli: fino al 1912 non abbiamo dati, ma dal 1913 al 1915, grazie ai Registri della Censura, sappiamo che arrivarono in Italia più di un migliaio di film americani, in massima parte di corto metraggio. A distribuire tali film, però, non erano succursali delle case americane, ma importatori europei. Anzitutto, i due colossi francesi Pathé e Gaumont, che insieme giunsero a pesare per la metà dei titoli; ma anche alcune ditte italiane: specialmente quelle di Ferrari, Barattolo e Ferretti. Detto questo, nonostante i volumi non trascurabili, il cinema americano contava ancora poco sul nostro mercato, dominato da una parte dalla cinematografia francese e dall’altra dalla nostra produzione.

Il vero salto di qualità si ha, come dicevo, negli anni Venti, quando aprono le filiali delle case di distribuzione americane. Gli Studios aprirono perlopiù filiali dirette. Alcune di queste erano filiali operative e cioè dotate di agenzie di noleggio proprie: la Universal Film s.a.i. (operativa dal 1923 al 1927); la Paramount Corporation s.a.i., la Fox Film Corporation s.a.i., la Metro Goldwyn Mayer Films s.a.i.; l’Italo-American Consortium, espressione diretta di United Artists dal 1926 al 1929. Altre erano invece filiali di pura rappresentanza, che cioè continuarono ad appoggiarsi a noleggiatori locali: penso alla First National, alla Warner Bros., alla Universal dopo il 1927. Vi furono poi due realtà locali dedicate, costituite ad hoc: l’Artisti Associati, che servì United Artists prima e dopo la parentesi dell’Italo-american Consortium, e il Consorzio EIA, esclusivista di Columbia.

Rimasero comunque attivi moltissimi noleggiatori italiani, spesso però dalla vita brevissima, una-due stagioni al massimo. Tra questi si distinse per forza e longevità la SASP di Stefano Pittaluga, che rappresentò a fasi alterne moltissime case americane, anche importanti, distribuendo dal 1921 al 1929 oltre mille film, di tutti i formati.

Quanti e quali film sono stati importati dalle origini alla Seconda guerra mondiale?
Le quantità sono assai variabili, a seconda degli anni. Il libro riporta delle accurate serie storiche e anche dei grafici, per meglio visualizzare gli andamenti.

Se consideriamo tutti i formati (lungometraggi e cortometraggi) e tutti i generi (di finzione e factual, esclusi solo i news-reel), si va dai 400-500 titoli all’anno di metà anni Dieci, ai 100-200 del dopoguerra, ai 600-700 di metà anni Venti.

Se consideriamo solo i lungometraggi, si va dalle poche decine a stagione degli anni Dieci ai 250 circa degli anni Venti. Poi si oscillò tra i 100 e i 180 negli anni Trenta, fino al 1939 quando l’introduzione di una legislazione protezionistica causò un sensibile calo delle importazioni. In conflitto infine fece il resto: con l’entrata in guerra degli Stati Uniti il flusso di importazione andò ad interrompersi.

Come si è evoluta nel tempo la quota di mercato del cinema americano?
La quota incassi crebbe vertiginosamente durante gli anni Venti, arrivando a toccare l’80%. Poi scese un po’, complice la grande crisi economica post-1929 e le difficoltà di circolazione dei film americani incontrarono durante i primi anni del sonoro, in cui – non tutti lo sanno – non si poteva ancora doppiare. Per tutti gli anni Trenta la quota si assestò attorno al 65%, fino appunto al 1939 e alla ricordata legislazione sul monopolio, a seguito della quale la quota americana crollò prima sotto il 30% e poi sotto il 20%. Di nuovo, con la guerra la quota scese ancora.

Che impatto ha avuto la cinematografia americana sui quadri valoriali, sul costume e sull’immaginario degli italiani?
Il cinema americano, a partire dagli anni Venti, ha modificato in profondità l’immaginario e il paesaggio emotivo, culturale, affettivo, sociale, ideologico degli italiani. Ha inciso sulla mentalità, sulle percezioni, sull’elaborazione dei sentimenti,

Eravamo una nazione povera e arretrata: nel 1921 quasi un italiano su tre era analfabeta e moltissimi erano i semi-analfabeti. E per tutti gli anni Venti, nonostante i programmi di modernizzazione intrapresi dal governo fascista e la prima affermazione delle marche dei prodotti di largo consumo, il paese rimase in buona parte caratterizzato da un’economia di sussistenza. Proprio per questo, però, la percezione dell’abbondanza materiale, della libertà, delle opportunità che la società americana riservava all’individuo, con tutta la loro carica utopica, catturarono l’immaginario degli spettatori italiani. Tra sorpresa e sconcerto, meraviglia e turbamento, ampie fette della popolazione entrarono in contatto con il modello americano e, in qualche misura, dovettero fare i conti con esso. In modo particolare, gli esponenti dei nostri ceti medi, di recente costituzione, e dei ceti operai urbani, cioè la parte della popolazione più esposta alle contraddizioni insite nel modello economico-industriale e socio-culturale fascista – in cui lo slancio di modernizzazione si scontrava con spinte conservatrici – guardarono oltreoceano non solo per svagarsi, ma anche per avere dei termini di paragone, proiettarsi nel futuro, negoziare il proprio rapporto con la modernità, l’evoluzione dei costumi e dei consumi. Si pensi, solo per fare un esempio, alla figura della donna….

Che rapporti vi furono tra gli Studios e il regime fascista: funzionari della censura, ministri e responsabili della cinematografia, fino al Duce stesso?
L’America era sinonimo di progresso, di modernità, parole d’ordine che anche il regime fascista non disdegnava. Mussolini stesso, perlomeno fino alla svolta reazionaria e imperialista dei secondi anni Trenta, mantenne una posizione ambivalente verso gli Stati Uniti, manifestando sia attrazione che diffidenza; e comunque cercò in molti modi di diffondere oltreoceano un’immagine dell’Italia, e sua personale, affidabile, positiva e dinamica. Tutti i primi anni della sua politica economica e monetaria furono direttamente ispirati dalle linee guida della Banca Morgan, che fu consulente strategico del nuovo regime. Negli anni, anche grazie agli uffici di Margherita Sarfatti – amante e ghostwriter del Duce – Mussolini si guadagnò la stima di molti membri dell’establishment americano: il potente editore Randolph Hearst (per le cui testate Mussolini firmò anche dei pezzi nel 1931), il rettore della Columbia University Nicholas M. Butler, il banchiere italo-americano Amadeo P. Giannini, il produttore cinematografico Louis B. Mayer e l’influente Will Hays. Tra il 1925 e il 1936 anche i newsreel americani diedero copertura in modo sistematico agli atti e ai discorsi del Duce con almeno un contributo al mese.

Nonostante tutto questo, però, il gusto per la libertà individuale, per il sacrificio e il self improvement, che rappresentavano i tratti caratteristici dell’indole americana, erano anche percepiti come pericolosi, facilmente degenerabili in arbitrio, disordine, dipendenza dalle cose materiali. A valle della crisi del 1929, poi, divenne ancora più chiaro a tutti che l’America, con il suo modello sociale e di sviluppo economico, era un gigante dai piedi di argilla. Anche la Chiesa condivideva questa visione critica, peraltro. Ora, in questa cornice risulta ben comprensibile l’operato severo della Censura, la quale intervenne per bandire i riferimenti più pericolosi a principi e visioni del mondo che si discostassero da quelli promossi dal regime. Così come comprensibili saranno le spinte protezionistiche a contenere lo strapotere americano e addirittura ad approfittare della forza del cinema americano per sovvenzionare e promuovere il nostro, che si fecero sempre più forti nella seconda metà degli anni Trenta.

Quali film americani hanno avuto particolare successo e perché? E quali divi?
Impossibile fare un elenco esaustivo: il libro dedica molte pagine all’analisi dei film e della loro accettazione da parte del pubblico italiano.

All’inizio, cinema americano era sinonimo di spettacolarità e ritmo; e anche di semplicità ed efficacia narrativa, condita con robuste dosi di azione. Il cinema di Hollywood, meno legato rispetto a quello europeo alla tradizione letteraria e teatrale, aveva trovato molto presto la strada per raccontare con le immagini, affrancandosi dalla parola scritta a cui raramente veniva affidato il compito di portare avanti l’azione. Un po’ tutti i generi della produzione americana si affermarono da noi. Anzitutto quelli appunto spettacolari: avventura, kolossal storici e fiabeschi (qui il campione indiscusso fu Douglas Fairbanks), film di guerra, western. Ma col tempo preso piede anche i drammi sentimentali e familiari (campionessa ne fu Mary Pickford, amatissima dal nostro pubblico), le commedie romantiche e il cinema comico propriamente detto, con la straordinaria affermazione di Chaplin prima e di Laurel e Hardy successivamente.

Oltre alla straordinaria qualità della fattura produttiva, quello che colpiva il nostro pubblico dei film americani era la visione nuova dell’individuo e della società. L’idea che l’uomo potesse essere padrone del proprio destino e motore della trasformazione del mondo; che l’appartenenza di classe e l’ordine patriarcale non fossero più dei condizionamenti decisivi; che la modernizzazione e l’innalzamento del tenore di vita fossero oramai alla portata di tutti,… davano corpo a una prospettiva del tutto inedita; non priva, magari, di elementi di inquietudine, ma certamente affascinante per il pubblico del nuovo secolo. Questo del resto era ciò che faceva dell’America un mito, nella percezione collettiva: l’essere il luogo dell’abbondanza materiale e della rigenerazione spirituale; la terra delle opportunità infinite per tutti e del sogno per ciascuno; la nazione in cui il progresso industriale e tecnologico rendono possibile una nuova società, libera ed egualitaria. E senza dubbio la straordinaria accoglienza riservata in Italia alle pellicole d’oltreoceano va anche considerata alla luce dell’interesse e del favore di cui l’America e i suoi simboli già godevano nel nostro paese.

Quale influenza hanno avuto le produzioni americane sul cinema di casa nostra e i suoi autori?
Le due cinematografie, quella americana e quella italiana, lavoravano su orizzonti simbolici molto diversi. Il cinema classico americano portava il pubblico in mondi aperti e dinamici, animati da spinte modernizzatrici e da una vivace dialettica culturale e valoriale (per quanto questa vitalità dovesse trovare forme espressive compatibili con i dettami dal Production Code). Mondi in grado di interpretare le aspirazioni dell’ampio segmento sociale della middle-class. Mondi che offrivano, sì, resistenze ai sogni dell’individuo, ma che non di meno l’individuo poteva cambiare con la sua azione intraprendente.

Il nostro cinema, viceversa, portava gli spettatori in mondi chiusi, statici, lontani dalla verità delle cose e comunque immodificabili. Mondi in cui venivano sì messe in scena fantasie di modernizzazione, di emancipazione, di mobilità sociale, che però finivano ben presto per fare i conti con le resistenze della realtà. Invariabilmente, i personaggi di questi film, dopo le fughe, gli scarti, i travestimenti, le finzioni di ruolo – surrogato di un autentico cambiamento – sono poi costretti a rientrare nell’alveo della quotidianità e delle routine sociali (Quattro passi fra le nuvole, Il signor Max, Gli uomini che mascalzoni! sono emblematici a riguardo).

Ben per questo i nostri autori furono comunque molto attratti dalla capacità americana di scrivere e portare in scena l’azione e di avvincere il pubblico. Questo successe fin dagli anni Venti, ma è soprattutto dall’introduzione del Monopolio in poi, e dunque sul finire degli anni Trenta, che registriamo una più marcata tendenza da parte dei nostri film a mutuare esplicitamente i paradigmi dalla produzione d’oltreoceano. Faccio solo qualche esempio. La sophisticated comedy americana è evidente modello di La vispa Teresa, Fuga a due voci, Barbablù e Giorno di nozze (che riecheggia Signora per un giorno di Capra). Il light-drama a sfondo sociale e morale guarda ancora più spudoratamente a Frank Capra: dopo il battistrada Non c’è bisogno di denaro di Palermi, che si ispirava a La follia della metropoli, Centomila dollari di Camerini si rifà esplicitamente a L’eterna illusione; Scarpe grosse di Malasomma a È arrivata la felicità; e Quattro passi fra le nuvole di Blasetti cita chiaramente Accadde una notte. L’esigenza di surrogare il cinema hollywoodiano si ritrova anche nella presenza di musical, come Miliardi, che follia! di Brignone; di film gangster, come Grattacieli di Giannini e Harlem di Gallone; di western nostrani, come Il fanciullo del West di Ferroni e Una signora dell’Ovest di Koch; e soprattutto nel ritorno in auge, dopo un lungo periodo di latitanza, del genere avventuroso-fiabesco-spettacolare, con film di successo come Ettore Fieramosca, Un’avventura di Salvator Rosa e La corona di ferro (tutti di Blasetti), Il Corsaro nero (Palermi) e altri titoli tratti dai romanzi di Salgari, perlopiù prodotti dalla Scalera Film.

Il ricorso esplicito al paradigma hollywoodiano si spiega con la necessità di far fronte a una impetuosa crescita dei volumi di produzione, praticamente raddoppiati dal 1938 al 1940, e con la contestuale opportunità di disporre di modelli offerti da film di successo impossibilitati a circolare in Italia. Forse però alla base c’era, più semplicemente, la forza ed il radicamento degli schemi drammaturgici hollywoodiani, oramai imprescindibili per far sognare gli spettatori, in tempi in cui di sognare c’era assoluto bisogno.

Federico di Chio, lavora nel mondo dei media e dei contenuti audiovisivi. È stato amministratore delegato di Medusa Film e direttore dei palinsesti delle reti Mediaset. Oggi dirige il marketing strategico del gruppo televisivo. Insegna Strategia e gestione dei media audiovisivi presso l’Università Cattolica di Milano e l’Università di Bologna. Tra le sue pubblicazioni: Analisi del film (con F. Casetti, Bompiani, 1990), L’illusione difficile. Cinema e serie tv nell’età della disillusione (Bompiani, 2011) e American Storytelling. Le forme del racconto nel cinema e nelle serie tv (Carocci, 2011).

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