“Il cibo e la storia: il Medioevo europeo” di Antonella Campanini

Prof.ssa Antonella Campanini, Lei è autrice del libro Il cibo e la storia: il Medioevo europeo edito da Carocci: è possibile tracciare una storia alimentare europea e quali ne sono i principali eventi?
Antonella Campanini - Il cibo e la storia: il Medioevo europeoSono convinta che si possa tracciare una storia alimentare europea – ed è quello che, per il Medioevo, ho inteso fare – a condizione di arrivare a leggere un’identità comune, al di là delle declinazioni locali a grande o piccola scala. Se nel Medioevo quella identità si costruisce, ma su questo torneremo, si potrebbe seguirne l’evoluzione sino ai nostri giorni. Occorre semplicemente mettersi da un punto di vista “esterno”, e allora sarà possibile coglierne gli aspetti culturali che accomunano i Paesi che compongono il nostro Continente. Dall’interno, invece, è più facile focalizzarsi sulle differenze: differenze che indiscutibilmente esistono, ma sono in costante dialogo tra loro ed è proprio quel dialogo a fungere da collante. Definirne i principali eventi non è semplice: sulle tappe medievali torneremo subito, poi in Età moderna probabilmente dovremmo focalizzarci sulla vera e propria rivoluzione proposta dalla Francia e dalla sua Corte a partire dalla fine del XVI secolo. È allora che si passa da una cucina sintetica, di stampo medievale, in cui gli ingredienti nel piatto costituiscono un tutt’uno che non permette di distinguere le componenti, a una piuttosto analitica, in cui il gusto dei singoli prodotti costituisce valore aggiunto all’interno del piatto stesso. Non è un vero e proprio evento, ma un processo di lunga durata reso possibile dalla circolazione del sapere culinario tramite cuochi e libri di ricette. D’altra parte, poi, in cucina non trovano posto le svolte repentine, i cambiamenti avvengono in modo graduale e sono recepiti in forme diverse a seconda del sostrato con cui si trovano a impattare. Neppure l’arrivo dei nuovi prodotti dalle Americhe provoca cambiamenti a breve termine anche se, alla lunga, alcuni di essi sono entrati a far parte a pieno titolo della nostra identità italiana ed europea.

Nel Suo libro Lei descrive un processo di costruzione di un’Europa alimentare
Lo scopo della mia ricerca era in effetti quello. Sono partita dalle avvisaglie di crollo dell’Impero romano d’Occidente, tappa finale di una lenta decadenza che impiega almeno un paio di secoli per giungere a compimento. Con il crollo dell’Impero crollano anche, per molti, parecchie certezze. Arrivano quegli invasori che impropriamente definiamo “barbari”, portatori di una cultura differente destinata a fondersi con quella più “classica” (potremmo anche dire “più mediterranea”) della Grecia e di Roma. Gli alimenti portanti dell’una, fondamentalmente frumento, vite e olivo, in generale prodotti dell’agricoltura, e in più le carni d’allevamento, si trovano a contatto con quelli dell’altra, selvaggina, latte, birra, frutti spontanei. Dopo una fase iniziale, quello che veniva attribuito all’altro diviene patrimonio comune, sino alla fusione. È proprio nei primi secoli del Medioevo che può essere collocata la costruzione di un’idea d’Europa tramite scambi fra le differenti culture, che avrebbero modificato – sempre lentamente, senza fretta alcuna – il modo di concepire l’alimentazione e la cucina in direzione di un’unità che tende a caratterizzare l’Europa. L’altro, a quel punto, non è più il barbaro, che barbaro non è più, ma l’extra-europeo.

Lei si è molto occupata di leggi suntuarie: esistevano prescrizioni di tal genere anche in materia alimentare?
Certamente. Sebbene leggi simili non fossero una novità, ma un retaggio di epoca romana, è nel basso Medioevo che esse si affermano a livello europeo: non vi è praticamente città né regno che non decida di dotarsene. I legislatori delle varie realtà locali partono dalla considerazione che, perché il lusso signorile sia percepito come tale, occorre impedire di organizzare manifestazioni di lusso a coloro che signori non sono. Facile a dirsi ma non a farsi: perché il cittadino che si è arricchito e ha dunque la possibilità economica di organizzare magnifici banchetti dovrebbe rinunciarvi? La risposta è semplice: perché è vietato. Tale divieto costituisce l’asse portante di quel particolare genere di normative – le cosiddette leggi suntuarie – emanate dapprima da alcuni comuni e poi dalla maggior parte dei signori delle città e dei sovrani. Non è un caso che ciò avvenga proprio nel periodo in cui non è più la quantità di cibo divorato che “fa il nobile”, ma piuttosto il banchetto bello da vedere e opulento. Unitamente alla possibilità di mettere a tavola gran numero di persone, è quello l’elemento che connota a partire da allora la ricchezza e soprattutto la nobiltà. Se il numero di persone è regolamentato, in genere, già nel XIII secolo, è intorno al XIV che i legislatori iniziano ad occuparsi anche di ciò che sta sulla tavola e non solo di quante persone vi sono sedute attorno. Insomma, anche il concetto di lusso conosce un’evoluzione nel corso del tempo. Per i lettori particolarmente curiosi, posso rinviare alla disamina del caso bolognese che ho recentemente pubblicato (in Bologna e il cibo. Percorsi archivistici nel Medioevo della “Grassa”, a cura di Antonella Campanini, Slow Food Editore).

Come si affermarono le identità alimentari sociali e nazionali?
Più che di affermazione occorrerebbe forse parlare di sviluppo. Le identità in generale, ma qui stiamo occupandoci in particolare di quelle aventi a che fare con l’alimentazione, sono normalmente frutto di un’evoluzione dettata da molti fattori. Per quanto ci riguarda, possiamo fare un esempio europeo che tocca in particolare le identità sociali. Queste trovano infatti nel cibo e nel modo di consumarlo uno tra i terreni più fertili in cui manifestarsi. La condivisione della tavola, anche al di là della quotidianità familiare, avviene normalmente in contesti sociali definiti e relativamente omogenei. In una città, i nobili mangiano con i nobili, gli artigiani con gli artigiani, e via dicendo: all’interno dell’omogeneità, il cibo può divenire un’arma potente di differenziazione. Se per quanto riguarda la tavola povera c’è poco da riflettere sulle scelte – povero è normalmente chi, in assenza di potere d’acquisto, si nutre soltanto di quanto produce, o di poco altro – la tavola ricca presenta tutt’altre possibilità e le scelte che vengono fatte sono raramente funzionali al semplice gusto degli individui. In altre parole, la tavola condivisa, il banchetto delle grandi occasioni, il momento festivo, sono altrettante possibilità di mettere in luce il potere, la ricchezza, la magnificenza e la generosità dell’anfitrione. Il modo di manifestare tutto questo cambia però a seconda delle epoche, oltre che dei luoghi. Ad alcune tendenze generali europee fanno da contraltare usi e declinazioni locali: comune è la volontà di utilizzare la tavola come fattore di diversificazione sociale, talora differenti i modi con cui le élites la utilizzano. Nei primi secoli del Medioevo, soprattutto a causa dell’influenza della cultura alimentare degli invasori, la supremazia a tavola è dimostrata mangiando in maniera smisurata, soprattutto carne. È il modo che il potente utilizza perché la sua immagine sia collegata a quella della forza: una forza fisica, quella che il guerriero sviluppa grazie alla caccia e alle battaglie. Questo genere di ostentazione richiede una disponibilità economica sufficiente per allestire una tavola fuor di misura abbondante, ma anche una capacità d’introiezione di gran lunga superiore allo standard. In altre parole, il potente alto-medievale che decide di mostrare la sua posizione sociale e la sua ricchezza lo fa sulla propria pelle, utilizzando il corpo come parte integrante della macchina ostentatoria. In prosieguo di tempo e per diverse ragioni gli appetiti dei potenti si placano spontaneamente. Al nobile che vive in città non interessa mangiare fuor di misura, non è più necessario dimostrare la propria forza ma piuttosto la propria ricchezza e la propria raffinatezza. Lo scopo è raggiunto attraverso l’ostentazione di una tavola il più possibile strabiliante: quantità e qualità concorrono entrambe, ma non tutto il cibo è destinato alla consumazione da parte dei commensali. Deve però essere ugualmente imbandito: questo permetterà di ammirarlo, di goderne innanzitutto con la vista e di apprezzarne poi, in seconda battuta, il gusto e la varietà, senza alcuna necessità di alzarsi da tavola riempiti come botti. Proprio in questa fase scatta la necessità di regolamentazione del fenomeno e, dunque, le leggi suntuarie cui sopra si faceva riferimento.

Nel Medioevo la pinguedine era demonizzata come ai nostri tempi?
Non propriamente. A essere demonizzata era piuttosto l’incapacità di moderarsi, riguardo alla quantità di cibo e anche a molti altri aspetti, alimentari e non. Non si tratta di un’istanza esclusivamente religiosa, anche se è evidente che la Chiesa ne è tutt’altro che estranea. Troviamo tuttavia richiami alla moderazione anche in pensatori e scrittori laici e, per fare un esempio, anche nelle stesse leggi suntuarie. Quanto all’aspetto religioso, occorre considerare che il peccato di gola – che nel corso dei secoli risponde a diverse definizioni e arretra anche sensibilmente nella “classifica” della gravità dei peccati – non è soltanto legato all’assunzione smodata di cibo ma anche a tutto quello che eccede la necessità: cibi troppo raffinati, dunque, o abitudine al fuori pasto, e si potrebbe continuare. Anche l’opposto dell’assunzione smodata di cibo, il digiuno, è tuttavia guardato con sospetto se praticato in maniera eccessiva. Solo mantenendosi sulla linea del giusto mezzo, in sostanza, si è sicuri di non sbagliare.

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