
Le abitudini alimentari sono da intendersi come regole, per l’appunto “canoni”, criteri di vita condotta armoniosamente quale “arte di stare al mondo” e nello scegliere ciò di cui desideriamo cibarci, e prima ancora nel produrlo e cucinarlo.
Le religioni svolgono in tale prospettiva un ruolo decisivo. Esse producono regole alimentari frutto delle loro tradizioni e liturgie e che si traducono a volte in meri consigli, ma più spesso in veri e propri precetti di obbligatoria osservanza per il fedele. Si è voluto sintetizzare tale legame con l’espressione “il cibo degli dei” ove gli “dei” sono i suggeritori, gli ispiratori ed i consiglieri delle condotte alimentari dei fedeli, non i dispensatori delle “messi”.
Il protagonismo delle fedi religiose nel mondo di oggi pone all’attenzione dell’osservatore la considerazione che il fenomeno religioso è base e motore delle culture dei popoli. Occorre quindi sviluppare una proficua collaborazione tra ordinamenti religiosi intesi come “matrici di senso”, e ordinamenti civili. Tale alleanza si è dimostrata particolarmente proficua nel campo d’indagine oggetto della ricerca, soprattutto nel suggerire ai popoli condotte alimentari ed ambientali che tengano in debito conto le non illimitate risorse del globo e la loro indefettibile esigenza di redistribuzione.
Le religioni ispirano e consigliano ai loro adepti tutta una serie di comportamenti che si traducono in azioni e atti densi di contenuto giuridico. In tale prospettiva si può parlare di proiezioni civili delle religioni. Detti comportamenti (in esercizio della propria libertà religiosa) si sviluppano nel mondo del diritto ispirando le persone nelle scelte tra i vari istituti giuridici predisposti dagli ordinamenti, con l’effetto a volte di causarne uno spostamento causale e un’interpretazione difforme da quella tradizionale e tipica del tessuto culturale di appartenenza.
Appartenere ad una religione è sempre un esercizio di libertà che incide (sembra un paradosso) sull’esercizio di altre libertà attinenti a bisogni primari dell’essere umano.
La guerra per i diritti ora si combatte non più soltanto per la conquista formale di essi ma anche per il raggiungimento del benessere sociale ed economico, ovvero per l’occupazione degli spazi del vivere. La libertà religiosa quindi va non solo riconosciuta nelle (importanti) enunciazioni di principio ma deve essere valutata nella sua qualità reale. È questa una delle nuove sfide del “diritto”. Si dovrebbe riuscire a creare un “lessico giuridico condiviso” che aiuti nelle relazioni interculturali create dalle diversità religiose. La verifica è possibile sul presupposto che la religione è la principale componente culturale della società. I fedeli spingono per vivere secondo le regole della loro religione scegliendo gli “istituti” che ne rispettino i principi. Le opzioni giuridiche divengono così inevitabilmente anche il frutto di scelte religiose.
Che nesso esiste tra religioni e alimentazione?
La religione influenza la cultura e i comportamenti della gente. Il “cibarsi” rappresenta uno dei gesti antropologicamente più importanti. Le modalità dell’alimentazione di un popolo sono certamente una parte fondamentale di quella cultura. A tale riguardo si può parlare di culture religiose alimentari. Il paradosso è che proprio in un contesto mercantile iper-globalizzato sono ancora più necessarie adeguate forme di tutela giuridica volte a garantire il rispetto di differenze e tradizioni, cioè delle stesse tipicità alimentari. Il tutto sull’indefettibile presupposto che gran parte della popolazione mondiale si sente vicina per appartenenza ad un credo religioso, come dimostrano le proiezioni di crescita dei popoli divisi per l’appunto per gruppi religiosi.
Si tende spesso a consumare ciò che il proprio credo suggerisce. I consigli alimentari delle confessioni religiose si trasformano in veri e propri precetti giuridici o per diretta previsione dei diritti religiosi oppure per consuetudine alimentare ma, in entrambi i casi, l’effetto non cambia, nel senso che si tende spesso a consumare ciò che il proprio credo suggerisce oppure ha suggerito nel corso del tempo.
Come si manifesta il legame tra religioni e alimentazione?
Le religioni predispongono codici di comportamento anche in campo alimentare. Queste fungono da vere e proprie misure di prevenzione della salute. Si pensi alle regole restrittive in materia di alcool o alla riduzione di consumo di grassi animali. In tale contesto si collocano le regole sulla macellazione. Il rispetto di criteri rigidi per la macellazione animale riduce, ad esempio, il rischio di infezioni. Per tali ragioni, tra l’altro, la qualità certificata dalle confessioni religiose è anche sinonimo d’igiene, sicurezza e benessere. Queste sono, infatti, alcune delle ragioni del successo che la cucina kosher e halal hanno nel contesto italiano ed europeo, ove conquistano sempre più consumatori, non solo tra gli osservanti.
La presenza delle certificazioni religiose non aumenta la qualità del prodotto, ma attribuisce caratteristiche aggiuntive. Maggiore salubrità del prodotto ad esempio. La considerazione delle esigenze religiose denota una maggiore attenzione verso il consumatore. I prodotti kosher sono spesso garanzia di qualità, salubrità, sicurezza alimentare, dal momento che il processo produttivo avviene sotto il controllo dei rabbini in tutte le sue fasi.
Tra i precetti religiosi di tutte le fedi fanno parte consigli alimentari, legati al territorio oppure a particolari momenti della vita sia religiosa che civile. Se si osservano i piatti della tradizione si noterà come risalta il legame tra eredità religiosa e produzione tipica di un certo territorio e della stagione nella quale il piatto abitualmente si consuma.
Quale impatto hanno i consigli alimentari delle religioni sui mercati?
Nei luoghi in cui la fede è libera e i credenti sono adeguatamente tutelati nell’esercizio delle loro pratiche religiose, non solo calano le tensioni sociali e i possibili contrasti tra i diversi gruppi ma vi è anche un incremento dell’attività economica in generale e, in particolare, degli investimenti sia interni sia provenienti dall’estero. Occorre aumentare il livello di “libertà religiosa” non soltanto con dichiarazioni di principio ma soprattutto con l’assunzione di concreti strumenti giuridici che aiutino tale processo.
Vi è, quindi, un rapporto simbiotico tra libertà religiosa e sviluppo economico, poiché quest’ultimo sarà direttamente proporzionale al livello di riconoscimento e tutela approntato dagli ordinamenti giuridici proprio al diritto di libertà religiosa. È anzi evidente che a maggiori standard di libertà religiosa corrisponderanno migliori performance economiche, intese come significativi miglioramenti di qualità etica e maggiore rispetto dei diritti.
La necessità di transitare dall’eguaglianza formale alla libertà religiosa delle opportunità, dunque, è confermata nel settore economico. In esso l’elemento etico-religioso diviene un elemento importante per orientare le scelte dei fedeli-consumatori, e indirizzarli oltre i confini del mercato tradizionale.
Il florido mercato degli alimenti è direttamente influenzato dalle religioni e deve coglierne tutte le suggestioni e le opportunità, attraverso l’analisi delle condotte alimentari religiose e il loro diretto impatto sui consumi attraverso una sorta di marketing religioso. Sicché, l’antropologo delle religioni, ma anche il giurista sensibile al fattore religioso nelle sue molteplici sfumature, divengono i migliori alleati possibili dell’imprenditore del settore, il primo aiutandolo nella scoperta dei comportamenti il secondo confortandolo nel proporre le idonee soluzioni giuridiche che tengano opportuno conto delle tipicità culturali, e delle loro differenze.
È un’esigenza dell’economia moderna avere la capacità d’intuire le richieste dei consumatori. In tale modo si può contribuire all’espansione e alla crescita delle economie nazionali e favorire lo sviluppo del benessere sociale. Il tutto attraverso una proficua unione tra esercizio della libertà religiosa e sviluppo economico.
I precetti religiosi rappresentano una di quelle “forze” culturali in grado di condizionare le scelte di acquisto dei consumatori. I gruppi religiosi agiscono, quindi, come “vettori” culturali, ovvero trasportano le proprie tradizioni, soprattutto alimentari e culinarie, in altre culture spesso profondamente diverse, favorendo il processo d’inclusione sociale. Il fattore religioso è spesso condizionante delle abitudini alimentari e, dunque, delle scelte dei consumatori di acquisto di determinati cibi. Attente ricerche hanno evidenziato che le religioni sono in grado di influenzare le scelte di vita quotidiana dei fedeli quali, ad esempio, le attività da compiere durante il tempo libero, i veicoli da acquistare, gli animali domestici da adottare o la scelta della dimora familiare.
Il Pew Research Center ad esempio ha evidenziato che nel 2019 il valore del mercato alimentare halal è stato di 1.292 miliardi di dollari ed è destinato a raddoppiare nel 2020. Il centro di ricerca, inoltre, ha sottolineato che Le prescrizioni religiose islamiche interessano anche altri settori dell’economia (moda, turismo e finanza), i quali hanno fatto registrare negli ultimi anni una importante progressione.
In che senso si può parlare di ‘libertà religiosa alimentare’?
L’interesse del giurista su tale tematica è legato alla caratterizzazione dell’alimentarsi come diritto al cibo e diritto sul cibo. La prima fattispecie rappresenta il bisogno che gli ordinamenti tutelino l’accesso ad una sana alimentazione a tutti gli esseri umani. In tal senso, il diritto al cibo va assunto tra ciò che caratterizza un rinnovato statuto ontologico dell’essere umano e di conseguenza inserito a pieno titolo tra i diritti fondamentali che a tale stato ineriscono. La seconda ricomprende anche il diritto alle scelte alimentari ovvero a ciò di cui ciascuno desidera nutrirsi, trattandole come opzioni di libertà e di soddisfacimento di un proprio modo di essere e di vivere.
Il diritto di cibarsi secondo le proprie regole etico-religiose deve essere favorito non solo nello spazio pubblico (istituti di detenzione, ospedali, scuole), ma anche nello spazio privato. Anche qui, infatti, particolari circostanze possono impedirne un regolare esercizio. Il diritto ad una sana alimentazione rientra tra le sfide dei moderni sistemi giuridici. Esso fa parte di quel complesso di situazioni soggettive attive che investono la persona umana in quanto tale, e che va sviluppata in parallelo ad altre esigenze della stessa. In un mondo globalizzato ma anche culturalmente frazionato occorre, tuttavia, declinarle in chiave interculturale, garantendo a tutti eguale spazio di libertà e di opportunità. Occorre anche la consapevolezza che le regole della moderna economia impongono la verifica di ciò nel mercato dei servizi alimentari; anche se auspicabilmente in un mercato sano e regolamentato.
Gli ordinamenti, di conseguenza, sono chiamati alla sfida della modernità anche garantendo un parallelo sviluppo della libertà religiosa alimentare con il diritto ad alimentarsi. Gli ordinamenti religiosi, difatti, possono sempre più assumere il ruolo di promotori di tali situazioni, aiutando gli ordinamenti civili nell’attenzione e nello sviluppo di tali diritti fondamentali dell’uomo, in quanto direttamente connessi con la dignità che deve riconoscersi alla persona umana in quanto tale. È stato, infatti, opportunamente evidenziato che “attraverso il cibo adeguato e sicuro non si nutre solo il corpo ma la stessa dignità della persona”.
Al giurista contemporaneo è, quindi, affidato sempre più il delicato compito di sostenitore dei diritti, per fare sì che con la propria opera le culture e le religioni siano promosse e protette, anche nelle dinamiche dell’economia di mercato. Il diritto al cibo è dunque una delle sfide della nostra civiltà e del nostro tempo.
In che modo il problema del cibo si connette a quello ecologico?
Il tema del diritto al cibo è legato a doppio filo con un altro aspetto oggi molto importante: quello dell’ecologia.
In proposito va detto che il ruolo dalle grandi religioni in questo campo è fondamentale e si affianca a quello delle Istituzioni Civili nazionali e internazionali.
Le grandi religioni, infatti, con la loro catechesi ambientale costituiscono un argine contro la dissipazione di “beni comuni” come acqua e cibo. Finalità queste ultime che, com’è noto, rientrano tra i primi sei obiettivi dei Sustainable Development Goals (SDG’s) delle Nazioni Unite, ovvero: Obiettivo n. 2 “Zero Hunger” e Obiettivo n. 6 “Clean water and sanification”.
In tale prospettiva è pacifico l’impegno profuso dalla Chiesa cattolica a livello internazionale. L’adesione alla Carta della Terra delle Nazioni Unite, il discorso di Papa Francesco alla FAO per la “Giornata Mondiale dell’Alimentazione” passando per la Lettera enciclica Laudato sì, sono tutte testimonianze del grande sforzo della Chiesa per sostenere i temi dell’ecologia ambientale.
Da questo punto di vista non va trascurato l’apporto di altre grandi religioni su questi temi.
Per rimanere ai monoteismi, ad esempio, nell’ebraismo il divieto di Bal-Tashchit impedisce l’inutile dissipazione di risorse naturali, di deviare il normale corso dei fiumi e di sprecare acqua. L’alimentazione Kasher – poi – ha origine nel rispetto degli animali e nel dovere di non procure loro sofferenze nel corso della macellazione. L’anno sabbatico, invece, serviva per far riposare i campi e non sfruttare troppo gli animali, così come il riposo del sabato per contemplare la bellezza del Creato e ricordarsi che la natura dà tutto ciò che serve per tutti.
Passando al mondo musulmano, i precetti della fede islamica sul binomio cibo-ambiente non sono meno rilevanti. Nel Corano è disposto ad esempio l’obbligo di Hima, ovvero il dovere di istituire riserve naturali all’interno delle quali è vietato abbattere alberi, uccidere animali o impedire alle creature l’accesso all’acqua. Tutto ciò anche al fine di garantire una migliore preservazione dell’ambiente e delle connesse risorse alimentari. Va da sé che nell’Islam rispettare ambiente e natura è un atto assolutamente meritorio agli occhi di Dio.
In ultima analisi è dunque chiaro che tra ordinamenti civili e ordinamenti religiosi si può e si deve raggiungere un’alleanza per cibo e ambiente. Una grande collaborazione finalizzata a implementare comportamenti più equi, solidali e attenti sia sotto il profilo dello sfruttamento del capiate ambientale che, in particolare, sotto quello dello dell’accesso e della distribuzione delle risorse alimentari.
Come è possibile sviluppare una proficua collaborazione tra ordinamenti religiosi e civili nella promozione di un nuovo “mangiare etico”?
L’analisi della relazione tra religione e mercato deve essere valutata anche sotto un altro profilo. Le recenti crisi hanno riportato all’attenzione di tutti le distorsioni del capitalismo più aggressivo. Così in questi anni sempre più spesso si è parlato di una “economia etica” e sempre più alte sono le voci che chiedono di imboccare con decisione questa strada.
Tra queste la posizione della Chiesa cattolica con il recente magistero di Francesco ha assunto un ruolo decisivo. Tuttavia, come è stato chiarito anche nel mondo laico criteri di selezione basati sulla “qualità della vita” o il “benessere sociale” stanno assumendo un ruolo centrale nella valutazione non soltanto dei sistemi “paese”, ma anche delle imprese che competono nei mercati, così come, addirittura, delle singole opportunità di lavoro.
Il ruolo delle religioni è fondamentale anche in questi campi, e si è ulteriormente rafforzato con il diffondersi della crisi economica e dei conflitti sociali che quest’ultima ha causato. I precetti religiosi forniscono al fedele una chiave di lettura al suo agire nel mondo dell’economia, indirizzandolo verso il rispetto di valori come l’equità, la sostenibilità e l’attenzione per gli altri. Sotto questo profilo un esempio collocabile nel solco delle possibili derivazioni prodotte dai rapporti tra religione, economia e scelte alimentari etiche un posto di assoluto rilievo va assegnato all’introduzione tra le forme del commercio mondiale di beni e servizi, di quelle che si sviluppano secondo le modalità del commercio equo e solidale.
Il “Fair trade”, infatti, favorisce la diffusione di processi produttivi fondati sul rispetto del lavoro e delle risorse naturali soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. Ciò consente di offrire a Paesi e mercati maggiormente progrediti nuovi prodotti alimentari (e non solo) che rispondono alle richieste di qualità dei consumatori “eticamente orientati”, contribuendo così a tradurre nella realtà percorsi di globalizzazione sostenibile.
In questo modo, gli aspetti sociali ed ecologici della produzione sono conseguenza degli effetti di una “responsabilità” proveniente dal basso, che si atteggia a fattore di cambiamento interno allo stesso sistema produttivo e commerciale. Del resto, gli approcci al commercio internazionale possono essere di differente natura, e comprendere forme alternative in cui, valori sociali, domanda e offerta possono coniugarsi efficacemente tra loro, dando vita ad un mercato eticamente orientato in favore dell’individuo, e non solo in favore del binomio consumo-profitto.
All’origine del commercio equo e solidale risiede dunque un principio regolatore basato sulla soddisfazione dei bisogni di solidarietà e giustizia sociale di ciascun individuo, che trova anche nei valori religiosi e nelle diverse appartenenze confessionali, gli elementi propulsivi per il suo sviluppo.
Da un recente studio è emerso ad esempio che tra i consumatori che effettuano precise scelte sociali e contrari alle disuguaglianze ben il 60% ha un credo religioso. Dai dati raccolti si evince che la caratterizzazione religiosa di una parte rilevante degli intervistati, mette in evidenza come si possa affermare nel mondo anche un consumismo più intelligente e riflessivo. Perfino un “consumismo etico”. In questo senso, infatti, anche i consumi e le scelte indirizzate verso forme di commercio equo-solidale diventano il mezzo attraverso le quali i consumatori, compresi i consumatori-fedeli, manifestano la loro identità (anche religiosa), “in modo tale che chi acquista un prodotto equo-solidale possa proiettare all’esterno una certa idea di sé e una sua originale visione del mondo”.
Mangiare etico è quindi, in definitiva, nutrirsi in modo più sano e solidale contribuendo al contempo ad una più efficace tutela dell’ambiente, e accettando il rispetto delle “suggestioni” che provengono dalle religioni anche all’interno dei mercati.
Antonio Fuccillo è Professore ordinario di Diritto ecclesiastico e interculturale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”