
In che modo il suo stesso corpo diventò oggetto di culto?
Il corpo del sovrano è sempre stato storicamente oggetto di culto. Napoleone non fa eccezione, se pensiamo ad esempio che una sola foglia d’oro – dieci grammi di peso – della corona creata per l’incoronazione a Notre Dame del dicembre 1804 è stata aggiudicata in asta nel 2017 per la cifra record di 625.000 euro. Ma oltre agli oggetti simbolo convenzionale del potere, come appunto la corona imperiale, nel suo caso anche oggetti di uso quotidiano diventarono poi reliquie laiche, concentrando su di sé l’interesse quasi feticistico e voyeuristico riservato ai memorabilia delle celebrità. Caricati di significato politico negli ambienti liberali della Restaurazione, essi vennero risemantizzati e agirono da vettori di sentimenti di nostalgia e di resistenza politica rispetto all’ordine stabilito a Vienna: tabacchiere, fazzoletti, oggetti da scrivania, pipe, brocche…sino alla carta da parati riprodussero elementi iconici del mito e collegarono tra loro, senza bisogno di parole, le emozioni di veterani devoti e di borghesi insofferenti. La fisicità del mito rimanda però anche alla volontà di Napoleone di disporre del proprio corpo, chiedendo che l’autopsia venisse eseguita esclusivamente dal suo ultimo medico, il corso Francesco Antommarchi – figura sfaccettata di cui il libro racconta la vita globale attraverso tre continenti – e raccomandandosi che nessun medico inglese lo toccasse. Il rito della presa del calco per la maschera mortuaria dette origine a un vero e proprio affaire, anch’esso ricostruito nelle pagine del volume, che avrebbe visto l’autenticità del manufatto contesa da più medici, e la commercializzazione, non senza polemiche, delle riproduzioni dal calco Antommarchi nella Francia orleanista degli anni Trenta. Ciocche di capelli, organi e parti di organi sopravvissuti all’autopsia, presunti calchi delle dita delle mani divennero poi ulteriori reliquie che attraversarono diversi spazi geografici e diverse stagioni politiche: come accadde del resto alle stesse spoglie di Napoleone, rimpatriate a Parigi da S. Elena nel 1840, ma anche a quelle del figlio, morto nel 1832, restituite da Hitler nel 1940 alla Francia occupata, in un tentativo fallito di evento propagandistico.
Cosa stabilì nel suo testamento, riguardo ai propri beni, l’imperatore dei francesi?
Napoleone fu estremamente dettagliato nell’elencare i suoi averi e i relativi destinatari. Dettato a metà aprile del 1821, il suo testamento si compose di elenchi e codicilli coi quali egli intese ricompensare i membri fedeli del suo entourage, soprattutto coloro che lo avevano seguito a S. Elena, e i membri della sua grande famiglia. Il primo pensiero fu tuttavia per il figlio, al quale destinò una lunga serie di oggetti di uso personale, quelli a lui più cari – di valore affettivo e simbolico –, come l’amata collezione di tabacchiere, orologi, armi, uniformi. Oggetti che il fanciullo avrebbe dovuto ricevere al compimento del suo sedicesimo anno, ma che il cancelliere Metternich e gli altri custodi della sua prigione dorata alla corte del nonno a Vienna impedirono gli fossero consegnati. Oltre ai legati economici, dunque, molti dei quali restarono ineseguiti per mancanza di copertura finanziaria nei depositi che Napoleone aveva presso i banchieri Lafitte di Parigi, furono proprio gli oggetti, protagonisti di questo libro i veicoli cui egli affidò la trasmissione emotiva della propria memoria: oggetti disparati, come il lavabo d’argento proveniente dall’Eliseo, trasportato e usato a S. Elena, camicie, biancheria intima, l’ormai famosa redingote grigia e il mantello usato a Marengo erano tra quelli più cari da consegnare al figlio, testimonianza di un’eredità quanto più possibile visibile e tangibile, per compensare la lontananza cui il destino li aveva condannati.
Quali tra i resti, le reliquie e i cimeli napoleonici, a Suo avviso maggiormente incarna il flusso emotivo generato dalla figura di Napoleone?
Credo che la maschera, o meglio, le maschere mortuarie (perché ne esistono più versioni, più pretese paternità e dunque più filiere) sia tra le reliquie legate al corpo quella più emozionante, reliquia per eccellenza in quanto realizzata “per contatto”: lo fu di sicuro per i contemporanei che a Parigi furono ammessi a vederla, come l’incisore Luigi Calamatta, che ne fu ispirato per un pregevole disegno, e tutti coloro che vi intravvidero il «sardonico riso» col quale Napoleone sembrava prendersi la rivincita sugli inglesi e sulla storia. Ancor oggi nelle sue varie versioni musealizzate, ma soprattutto in quella della genealogia cosiddetta Antommarchi, in bronzo o in marmo, essa è un potente veicolo di emozioni. Oltre alla maschera, credo proprio il cappello del titolo del volume, indossato in maniera originale parallelo alle spalle per farsi riconoscere anche da lontano, sia ancor oggi l’icona che più sintetizza a livello planetario il mito, come del resto aveva già compreso il pittore Carl von Steuben, che in un dipinto del 1826 conservato al Museo della Malmaison riassunse le fasi dell’epopea con otto bicorni in diverse posizioni. Non a caso, si tratta del cimelio che ha scatenato in aste recenti la passione dei compratori, come è accaduto all’esemplare aggiudicato nel 2014 per poco meno di due milioni di euro, e a quello assegnato nel 2018 per 350.000 euro.
Quale interpretazione è possibile dare del vasto fenomeno di merchandising delle tracce materiali legate alla persona e al privato di Napoleone?
Nel volume ho cercato di ricostruire la genesi del culto materiale collocandola al 1815, ossia all’inizio dell’esilio a S. Elena: è questa fase infatti, come ha scritto Jean Tulard in un ormai classico studio, la responsabile della “torsione” della leggenda che, con solo apparente paradosso – e grazie soprattutto all’operazione del Memoriale di Las Cases –, ribaltò un Napoleone sconfitto e umiliato in un campione di resistenza di cui si sarebbe appropriato l’immaginario romantico e liberale europeo. Il merchandising che precocemente e poi per buona parte dell’Ottocento fiorì intorno alla fisionomia e alle gesta del generale/imperatore, ma anche intorno ai suoi simboli evocativi (api, aquile, monogrammi N), nutrì da un lato la nostalgia di coloro che dall’esperienza napoleonica avevano tratto identità professionale ed esistenziale – primi tra tutti i veterani dell’Armée –, dall’altro il dissenso di coloro che erano disallineati rispetto ai regimi dell’Europa post-napoleonica. Interpretando il gusto borghese e l’affermazione di una cultura visuale di sempre più larga fruizione, l’oggettistica di ispirazione napoleonica rappresentò insomma una risposta estetica e funzionale, ma anche politica, alle esigenze di un pubblico assetato di esperienza visiva e tattile rispetto a un fenomeno di celebrità che non lasciò indifferenti, si è visto, neppure i nemici. L’evoluzione nella domanda politica e nel gusto della borghesia europea abbinata alle capacità di produzione e riproduzione in serie resero così possibile un fenomeno su vasta scala che può riservarci ancora molte sorprese, e che riesce ancora ad affascinare la nostra società del visuale e dei consumi. Se poi consideriamo il tema delle falsificazioni e delle riproduzioni che percorre il mondo del collezionismo napoleonico, e non solo, è facile comprendere come la caccia alla reliquia e all’oggetto autentico resti una sfida allettante con un suo pubblico di esperti e di appassionati che continuerà ad alimentare in futuro la memoria e la circolazione del mito.
Arianna Arisi Rota è professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Pavia. Tra le sue pubblicazioni: I piccoli cospiratori. Politica ed emozioni nei primi mazziniani (il Mulino, 2010), 1869: il Risorgimento alla deriva. Affari e politica nel caso Lobbia (il Mulino, 2015), Risorgimento. Un viaggio politico e sentimentale (il Mulino, 2019).