“Il canto e il veleno. Bucolici greci minori” a cura di Francesco Bargellini

Prof. Francesco Bargellini, Lei ha curato l’edizione del libro Il canto e il veleno. Bucolici greci minori edito da Inschibboleth, che raccoglie le opere di Mosco, Bione e altri anonimi: cosa sappiamo dei due poeti?
Il canto e il veleno. Bucolici greci minori, Francesco BargelliniLe opere ascritte a Mosco e Bione fanno parte di quel corpus “bucolico” che contiene innanzitutto gli Idilli di Teocrito siracusano, riconosciuto inventore, se così si può dire (più esatto, io credo, il termine “codificatore”), del genere pastorale. Non che i testi inclusi nel corpus suddetto fossero tutti di genere bucolico: il che vale per Teocrito stesso e più ancora per i cosiddetti bucolici minori, tra i quali spiccano le personalità, benché biograficamente molto esili, di Mosco e Bione.

Mosco è inquadrabile nel tempo con buona certezza grazie alla notizia di suoi rapporti con Aristarco di Samotracia, il sommo omerista del II secolo a. C.; quanto a Bione, è opinione invalsa e ragionevole che le notizie antiche su di lui, che ne facevano il terzo bucolico dopo Teocrito e Mosco, vadano lette anche in senso cronologico, così che la sua attività si stenderebbe grossomodo tra la seconda metà del II e l’inizio del I secolo a. C.

Di Mosco di Siracusa – cui un tempo si attribuivano anche i poemetti Epitafio di Bione e Megara, in realtà anonimi – possediamo un lungo epigramma in esametri, l’Eros fuggitivo; quattro frammenti (il quarto, in verità, è un epigramma completo: lo si trova nel sedicesimo libro dell’Antologia Palatina); e soprattutto l’Europa, un epillio – cioè un poemetto mitologico – che racconta il rapimento dell’eroina eponima del nostro continente a opera di Zeus trasformatosi in toro. L’Europa presenta aspetti decisivi per l’evoluzione del genere epico – oltre a una nativa grazia, non priva di maliziosi pimenti, che ne raccomanda certamente la lettura – , nel segno di un generale descrittivismo che ruba spazio all’azione, e che si esplica in modo esemplare nel “pezzo forte” dell’ekphrasis, la descrizione, del cestello d’oro della protagonista (una tranche lunga circa una trentina di versi, su poco più di centocinquanta complessivi).

Bione di Smirne è autore del carme più notevole, a mio avviso, del secondo Ellenismo, l’Epitafio di Adone: componimento a metà tra il thrènos, la lamentazione, che si riservava a mortali defunti, e l’inno alla divinità, che qui è protagonista; squisito esemplare di una letteratura a forti tinte e d’irrefrenabile pathos, notevolmente in contrasto, su questo fronte, con l’idea classicista di una tendenza anticogreca a un equilibrio, nell’arte, tale da comporre immancabilmente le fughe emotive nel cristallo della forma. Per il resto si posseggono 17 frammenti, non pochi di preziosa fattura, e i primi trenta versi di un carme di discussa attribuzione e che personalmente rivendico al Nostro, cioè l’Epitalamio di Achille e Deidamìa. Aggiungerò che è lecito desumere più di un’informazione su questo poeta dall’Epitafio a lui dedicato, che pure presento nel mio volume, di autore anonimo ma che si qualifica come allievo di Bione, e del maestro allude a una misteriosa morte per avvelenamento, nonché a un magistero poetico esercitato nell’Italia meridionale.

Quali elementi caratterizzano il genere bucolico?
Un considerevole filone della critica sostiene che la bucolica di ascendenza teocritea non sia, in fin dei conti, un genere precisamente caratterizzato, ma un’insegna dietro cui si procede di volta in volta a contaminazioni, ibridazioni o giustapposizioni di elementi spesso “di riporto”, che la tradizione ha cioè già consacrato in altri contesti; di qui l’opinione che Teocrito non sia dunque propriamente un inventor, e che se quel che ha fatto è stato percepito in seguito come innovativo, di questa novità egli stesso non avesse sentore. Più volte, nel libro, do conto di questi giudizi a cui sempre oppongo, d’altronde, la mia lettura “forte” della bucolica – basata proprio sulle coordinate che Teocrito, come credo, impostò definitivamente: un’ambientazione campestre e amena, pastori-poeti che intrecciano i loro canti o li fanno “scontrare” in rustici agoni, presenza – che non sottovaluterei – della divinità e di un suo sottile, prezioso commercio con gli uomini attraverso la natura e le sue voci. Poi, certo, c’è la poesia tecnicamente intesa; poesia di convenzionale patina dialettale dorica e composta in esametri, dunque metricamente analoga al lontanissimo epos, il che è sorprendente e mi porta a avanzare, nel libro, una teoria sulla pertinenza essenziale della bucolica, che qui non anticipo.

Come si sviluppa la storia della tradizione bucolica?
Il corpus bucolico greco, coagulatosi certo attorno ai carmi di Teocrito durante i secoli bizantini (di eventuali edizioni antiche complessive è lecito dubitare) , compare a stampa per la prima volta nel ‘400, arricchendosi nelle successive edizioni di ulteriori apporti fino almeno alla decisiva pubblicazione dello Stephanus (1566), che presenta il materiale bucolico grossomodo nell’ordine in seguito invalso. Segnalo che nel mio Il canto e il veleno, per la prima volta, l’Epitafio di Bione e la Megara, un tempo attribuiti a Mosco e pur sempre stampati all’interno della sua opera anche dopo che se ne riconobbe il carattere spurio, sono tradotti e commentati a parte.

La storia editoriale dei nostri bucolici ovviamente non ha niente a che fare con la storia della bucolica come genere letterario, che grazie alle Bucoliche di Virgilio – in Occidente regolarmente lette, riprodotte e imitate – si praticherà senza interruzione o quasi almeno fino al ‘700 arcadico, secondo una varietà di forme e “contenitori” di cui do conto, in una rapida panoramica, nel paragrafo “Eterna bucolica” dell’Introduzione. Dove per “eterna” intendo, malgrado l’esaurirsi, dal Romanticismo in avanti, di un richiamo esplicito ai parametri del genere delineati da Teocrito, il necessario riproporsi alla fantasia umana di un sogno di evasione e di raccoglimento insieme che è il fondo antropologicamente essenziale della bucolica – questione su cui mi spendo, forse non inutilmente, alla fine del paragrafo di cui sopra.

Quali scelte formali e contenutistiche si riscontrano nei componimenti presenti nel volume?
I bucolici minori rappresentano una fase del genere i cui caratteri, benché giocoforza sfuggenti dato lo stato frammentario dei testi – senza contare il non semplice inquadramento anche dei carmi conservati per intero – si situano oltre la pastorale di Teocrito in una direzione che fantasticamente prelude a Virgilio e all’invenzione del sogno arcadico. Sono tratti riconosciuti di questa bucolica “di mezzo” certo manierismo di stile, una ragionata e al limite “barocca” accentuazione del pathos, il dato – di cui certi frammenti di Bione darebbero testimonianza, e soprattutto l’anonimo Epitafio in onore di questo poeta – della presenza dell’autore o del suo personaggio all’interno dello stesso mondo bucolico (come andassero sfumando i confini tra realtà e finzione, o come se la prima si trovasse vieppiù inglobata nella seconda; in direzione, comunque, di una sempre maggiore emancipazione dai dati concreti, da quei realia che erano pur sempre notevoli nell’opera di un Teocrito).

Ciò detto, le differenze tra un Mosco e un Bione sono sensibili, senza dire degli anonimi della Megara e dell’Epitafio di Bione – o della breve anacreontica Per Adone morto, che completa la rosa dei testi di cui mi sono occupato. Per limitarci ai primi: Mosco si caratterizza per una morbida tenuità che impressionò Leopardi, attratto da quella che per lui era, nella sua opera, una mirabile sintesi di arte e natura; ma prima di lui il Tasso, che intese replicarne il cȏté sensuale (una corda che Mosco volentieri pizzica) in un suo Amor fuggitivo che compariva in un’edizione cinquecentesca dell’Aminta. Bione è poeta di altro genere, e non tanto nei frammenti, dove pure balenano, a tratti, indizi di una nuova maniera – e soprattutto di una riflessione sulla maniera stessa –, quanto nel citato Epitafio di Adone, nel quale davvero la compenetrazione di eros e thanatos sprigiona una poesia di inedità intensità, e, per così dire, il disegno non riesce a arginare il colore. Nel gioco dell’ut pictura poesis: tanto le tinte tenui corrispondono a Mosco, quanto un colorismo esagitato, tutto frizione (chi legge il carme capirà) tra estremo bianco e cupezza sanguigna, anima almeno il Bione maggiore.

Quali problemi suscita la traduzione italiana di questi testi poetici?
I problemi cui va incontro il traduttore di questi poeti – linguisticamente non impervi, assai meno comunque di un Teocrito – corrispondono, io credo, all’ufficio che bisogna assumersi di restituire a ciascuno la patina stilistica sua propria, ed è una banalità di cui anzi mi scuso. Le ambizioni divulgative del libro implicano una fedeltà che si pone ipso facto al servizio degli autori e dei carmi che si vuol far conoscere. Se tradurre è, come noto, inevitabilmente tradire, sarò stato allora solo in parte fedifrago (una professa adesione integrale, meriterebbe, d’altronde, come minimo il sospetto). Fra l’altro non ci sono solo Mosco e Bione: gli altri tre carmi presenti nel libro, che verosimilmente rimontano a tre autori diversi, presentano ciascuno un proprio clima e una propria temperatura emotiva. L’Epitafio di Bione è di più tumultuante pathos ancora dell’Epitafio di Adone del maestro Bione, che con tutta evidenza prende a modello; la Megara è un dialogo domestico tra figure di pertinenza epico-tragica, e vive artisticamente di questa discrasia; Per Adone morto, infine, è un breve carme, come di regola nelle odicine anacreontiche, di una grazia leggera ai limiti dell’evanescenza. È chiaro che in un così variegato insieme ho le mie predilezioni, e ci sono tipi a me più consentanei di altri; la speranza è che il complesso risulti tale da non pregiudicare la nozione di nessuna delle voci che ho avuto il privilegio di mediare – peraltro in un tempo (2020-2021) in cui occuparsi di canti in spazi aperti, di pastori e ninfe e di amori en plein air ha avuto la sua dose di ironia, oltreché di piacere.

Francesco Bargellini è nato a Pistoia il 19 marzo 1977, dove risiede. Dopo il diploma di liceo classico si laurea in Filologia Bizantina, addottorandosi poi, presso la stessa Università degli Studi di Firenze, in Filologia Greca e Latina. Attualmente è docente di latino, greco e italiano al liceo Carlo Lorenzini di Pescia (PT). Al suo attivo registra cinque raccolte poetiche: Il significato (Pezzini editore, 2009), dresda (Pezzini editore, 2011) Sono paura (Polistampa, 2013), l’esperimento, fra traduzione e ri-creazione – anch’essa in versi -, del Platone! (Aragno, 2016), volume autorevolmente prefato da Alessandro Fo, e l’ultimo L’impresa di ponte (Oèdipus, 2019). È anche autore di contributi scientifici apparse su riviste di antichistica: Per un’analisi strutturale dell’Ekphrasis tou kosmikou pinakos di Giovanni di Gaza, in “Medioevo Greco”, 6, 2006, pp. 41-68; Questioni di cronologia nell’opera di Giovanni di Gaza, in “Prometheus”, 2008, pp. 65-86. Nel 2021 esce a suo nome, per i tipi di Inschibboleth, Il canto e il veleno. Bucolici greci minori – monografia con traduzioni da poeti “negletti” del corpus bucolico antico. Collabora dal 2018 al mensile satirico toscano “Il vernacoliere”.

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