
di Gianfranco Ravasi
EDB
«Il Cantico è il gioiello della Bibbia», «non c’è nulla di più bello del Cantico»: ecco due definizioni, la prima di un esegeta, E. Osty, la seconda di un famoso scrittore, R. Musil, che lapidariamente esprimono la costante ammirazione di cui è stato oggetto questo libretto biblico dalla titolatura tradizionale emblematica, šîr haššîrîm, «Cantico dei cantici», cioè il «Cantico per eccellenza», il «Cantico sublime». Come scriveva nel [suo] commento […] A. Robert, «non c’è libro biblico che abbia esercitato sull’anima cristiana un effetto di seduzione comparabile a quello del Cantico. Non c’è altro che questo breve poema ad aver sfidato gli sforzi degli interpreti» (p. 333). E non è mancata anche l’incomprensione, come si vedrà all’interno del lungo viaggio testuale che abbiamo ora di fronte: Renan, ad esempio, associava Cantico e Qohelet per affermare che essi sono rispettivamente «un libretto erotico e un opuscolo di Voltaire nascosti tra le grandi pagine “in folio” di una biblioteca di teologia». Attorno a questi 117 versetti si sono accaniti esegeti e teologi, scrittori e interpreti, lettori rigorosi e fantasiosi. Si è giunti fino al punto di tradurlo in dialetto: nel 1859 J.T. Staton, su commissione del principe Luigi Luciano Bonaparte, tradusse il Cantico «nel dialetto del Lancashire così come è parlato a Bolton» (The Song of Solomon in the Lancashire dialect, as spoken at Bolton), mentre l’anno dopo J.P. Robson lo avrebbe reso nel dialetto dei carbonai del Northumberland, contea dell’Inghilterra settentrionale, con particolare attenzione alla variante in uso sulle rive del fiume Tyne (The Song of Solomon, versified from the english translation of James of England, into the dialect of the colliers of Northumberland, by principally those dwelling on the banks of the Tyne). In seguito offriremo altri esempi di simili curiosità.
Forse aveva ragione Agostino quando scriveva che «il Cantico è un enigma» o – per conservare il plurale «Cantica», divenuto poi in un italiano approssimativo «la Cantica» – quella serie di cantici che, secondo alcuni, sarebbero collezionati nel Cantico raccolgono al loro interno una serie di enigmi. Eppure siamo di fronte a un pugno di parole. Secondo la General statistics of the Hebrew Bible di H.Th. Willers, il Cantico si compone di sole 1250 parole ebraiche (lo 0,42% dell’intero AT) che – secondo i calcoli della piccola Masora – avrebbero il loro centro o metà nel nrd wkrkm, «il nardo e lo zafferano» di 4,14. Però queste poche parole contengono ben 43 hapax, termini esclusivi del Cantico, con una percentuale (6,6%) che in assoluto è la più alta dell’AT (a distanza seguono Nahum col 4,78%, Abacuc col 4,46% e le Lamentazioni col 4,41%).
Sulle parole del Cantico si è raggrumata una fitta coltre di interpretazioni e si è disteso uno sterminato manto bibliografico che si tenta faticosamente di catalogare e vagliare: nel suo pletorico commento al Cantico, il più vasto dell’epoca contemporanea, l’americano M.H. Pope della Yale University offre dal 1800 al 1975 un eccessivo (ma incompleto) elenco di circa 760 titoli. All’interno di questa massa di studi, di letture, di applicazioni varie, che dovremo anche noi sondare soprattutto nella storia dell’ermeneutica del Cantico, si può trovare tutto e il contrario di tutto. Anche su questioni di dettaglio: l’«antifona» o «ritornello» di 2,7; 3,5; 8,4, ad esempio, è messa in bocca alla donna del Cantico già dal codice Sinaitico dei LXX, da Origene, da Meek, da Guitton, da Ringgren ecc. (e anche da noi); la Vulgata, invece, come Robert, Buzy, Dhorme ecc. optano per lo sposo, mentre Schneider immagina che sia un’irruzione del poeta stesso e Fischer suppone si tratti di una glossa del redattore! Ma le impressioni più forti si hanno, come si vedrà, a livello ermeneutico ove si oscilla tra la più esaltante e trasparente lettura spirituale in cui si muovono solo anime in un’atmosfera liquida e la più cruda e corposa interpretazione erotica in cui si celebrano i fasti di una carnalità sontuosa.
L’enorme produzione ermeneutica sorta attorno al Cantico, anziché illuminarne il senso, sembra aver avuto l’effetto di una diffrazione o rifrazione in uno spettro multicolore indecifrabile. E se nei primi secoli e in quelli successivi il testo non era un’enigma irrisolubile, anzi era quasi una sequenza didascalica ed evidente, l’epoca più recente ha visto di molto oscurarsi il disegno dell’opera e il suo significato. Se escludiamo alcune esili eccezioni (si pensi al famoso Teodoro di Mopsuestia su cui ritorneremo), sarà solo nel 1685 che ci si incontrerà con una netta rottura nei confronti dell’unanimismo allegorico imperante nell’esegesi del Cantico. J. Le Clerc, prendendo lo spunto dalla celebre e innovatrice Histoire critique du Vieux Testament del p. Richard Simon, scriveva: «Si crede comunemente che il Cantico sia un libro misterioso, che descrive l’amore mutuo che intercorre tra Gesù Cristo e la sua chiesa. Ma di ciò non si ha nessuna prova né nell’AT, né nel NT, né nello stesso libro… Non avendo nessuna prova dei misteri che si cercano in questo libro, se noi giudichiamo il libro per se stesso, troveremo che altro non è che un idillio o un’egloga».»