
D’altra parte, per chi è abituato alla fonetica dell’italiano, accentare il latino può presentare varie difficoltà, perché tra le due lingue, che pure son madre e figlia, ci sono differenze strutturali di un certo rilievo. Per poter riuscirci bene bisogna fare prima due operazioni: 1. individuare le sillabe; 2. stabilire la quantità di quelle determinanti al riguardo, da cui appunto dipende la posizione dell’accento. Con “quantità” qui non si intende il loro numero, ma una certa proprietà fonologica che in latino classico avevano tutte le sillabe. Si tratta della loro durata relativa intrinseca, il tempo che la loro pronuncia richiedeva rispetto a quella delle altre, e che poteva essere percepito come lungo o come breve. Questa quantità, lunga o breve, nel latino classico aveva valore distintivo: per esempio malum cambiava significato a seconda che la prima sillaba fosse pronunciata come lunga (e allora voleva dire ʻmela’) o come breve (ʻmale’).
Dato che questa caratteristica del latino classico si è persa in italiano, si può pensare che ai fini dell’accento, tra le due operazioni di cui sopra, la più difficile sia la seconda. L’esperienza insegna che non sempre è così: gli studenti italiani hanno spesso difficoltà anche a dividere in sillabe le parole latine, soprattutto a causa del modo diverso in cui l’italiano e il latino trattano le vocali. Faccio un esempio. A molti viene naturale pronunciare sòcietas, trisillabo, senza nemmeno far sentire la i. Il modello è l’italiano: società, sòcio, in cui la i non è più una vocale, ma è ridotta a segno diacritico o addirittura a ricordo etimologico. E invece no, in latino quella i è una vocale a tutti gli effetti ed è pure accentata: si dice socìetas. Anche se son più rari, non mancano i casi in cui avviene l’inverso: lo studente prende per vocale, e magari accenta, una lettera che della vocale ha solo l’apparenza (ad esempio ìam invece di iàm, cioè jàm). Evitare errori del genere non sarebbe difficile, ma nell’insegnamento c’è sempre stata la tendenza a trascurare questi aspetti, dando per scontato un po’ troppo: anche per questo nel mio manuale ho dedicato un intero capitolo a come distinguere le vere vocali da quelle che non lo sono.
Per la scansione dei versi le cose sono effettivamente più complicate. Il verso latino classico segue principii completamente estranei a quello italiano. In entrambi è essenziale il ritmo, ma in quello latino gli accenti non hanno alcuna parte, e ciò che lo determina invece è la successione di quantità secondo una sequenza predeterminata. Anche nella metrica quindi ritorna il concetto di quantità, ignoto in ambito italiano; e ritorna in modo molto più pervasivo di quanto non fosse riguardo all’accentazione. Per scandire i versi bisogna stabilire la quantità non di alcune sillabe determinanti, ma di tutte le sillabe di tutte le parole, tenendo anche d’occhio la loro posizione reciproca nel verso.
Eppure forse non è ancora questa la difficoltà principale che incontra lo studente. Tutti i versi hanno alla base uno schema ideale che esprime nel modo più semplice la loro identità ritmica, ma poi nel concreto lo possono realizzare con variazioni più o meno complicate, che spesso comportano un aumento o una diminuzione del numero di sillabe (una cosa pressoché esclusa nel verso italiano). Queste variazioni sono fisiologiche, previste dal tipo di metro e soggette a regole determinate, ma naturalmente allontanano i singoli versi dal ritmo più semplice dello schema ideale, e a volte arrivano a farli diventare anche molto diversi, da quello e tra loro. Così, oltre a stabilire le quantità di tutte le sillabe, bisogna anche interpretarne la sequenza in modo che risulti una possibile variante dello schema ideale. Per questo, nel presentare i varii metri, ho innestato la consueta classificazione ritmica su un’altra, inedita, che si basa sul tipo di variazione che essi ammettono, partendo dal più semplice fino ad arrivare al più complesso. Così lo studente alle prese con un metro ha presente fin da subito nel modo più chiaro quale principio regola la sua fisiologia.
Quali sono i principii fondamentali della prosodia latina?
Quello che sta alla base di tutto è che a ogni vocale corrisponde una sillaba, e quindi ogni sillaba ha una e una sola vocale. Questo vale anche quando c’è un dittongo, per esempio au in cauda. A vederlo scritto sembra composto da due vocali, ma in realtà una di esse, la u, ha il valore di una consonante. Quindi, in cauda, cau- è un’unica sillaba con una sola vocale, la a.
Se in ogni sillaba è necessaria una vocale, le consonanti, tanto prima quanto dopo di essa, possono esserci oppure no; ma ai fini della prosodia hanno un ruolo molto importante, perché la loro presenza e la loro posizione incidono sul tempo necessario alla pronuncia della sillaba, e quindi sulla sua quantità. In particolare, se dopo la vocale la sillaba continua con una o più consonanti (e allora si dice che è “chiusa”), la sua pronuncia dura sempre abbastanza da essere percepita come lunga. Se invece la sillaba finisce con la vocale (e in questo caso è detta “aperta”), allora la sua quantità dipende da quella della vocale stessa. Perché nel latino classico anche le vocali, di per sé, hanno una loro quantità, che non sempre coincide con quella della sillaba.
Quali leggi segue l’accento latino?
Nel latino classico la posizione dell’accento è determinata automaticamente dalla struttura prosodica della parola.
Per prima cosa non tutte le sillabe di una parola possono portar l’accento. Nelle parole più lunghe, per esempio, quelle prima della terzultima son sempre atone: parole come càpitano… non càpitano, non sono possibili. A questa regola si dà il nome di “legge del trisillabismo”, perché limita la posizione dell’accento alle ultime tre sillabe della parola.
In realtà però anche l’ultima sillaba è quasi sempre atona (tranne ovviamente quando è l’unica). Salvo qualche rara eccezione che nel mio manuale presento nel dettaglio, non ci sono parole come tribù, virtù, libertà: in latino si dice trìbus, vìrtus, libèrtas. Questa norma si chiama “legge della baritonesi”, perché richiede che le parole di almeno due sillabe siano baritone; e una parola è baritona quando non è ossitona, cioè quando non è tronca.
Quindi in effetti restano disponibili solo la penultima sillaba e, dove c’è, la terzultima. Anche in questo spazio ristretto però l’accento non è libero, perché la sua posizione dipende strettamente (pur con un paio di eccezioni anche qui) dalla quantità della penultima sillaba, la sillaba determinante di cui dicevo all’inizio: tant’è vero che si parla di “legge della penultima”. E qui sta la difficoltà maggiore, perché spesso la quantità della penultima non è immediatamente chiaro quale sia. Per capirlo bisogna conoscere bene le regole della prosodia a cui accennavo prima, e a volte non bastano nemmeno quelle: allora bisognerà consultare un dizionario oppure, per suffissi e desinenze, il repertorio con cui ho aperto il mio manuale. Ma c’è anche qualche trucco empirico per evitarlo, che di solito funziona.
Quali suggerimenti pratici può essere utile seguire per individuare quantità ed accenti?
L’italiano ha cambiato parecchie cose rispetto al latino, ma non è un figlio degenere; e anche se ha perduto il senso della quantità (che del resto era già scomparso nel latino tardontico), per lo più ha ereditato le parole con l’accento che avevano nella lingua madre. Questo per lo studente italiano può essere un gran vantaggio, perché gli dà già pronta la posizione dell’accento senza che debba consultare il vocabolario e nemmeno fare le operazioni di cui parlavo sopra (individuare le sillabe e la quantità determinante). E quindi come si dirà in latino indìco? Indìco (mentre ìndico vuol dire ʻìndico’). E spècchio? Spèculum. E cadére? No, in questo caso il latino è diverso: càdere. Bisogna fare attenzione ai “falsi amici”, che non mancano soprattutto tra i verbi. Nel mio manuale ce n’è una lista, lunga eppure senza pretese di completezza. Ma nella maggior parte dei casi il trucco funziona.
Alcuni sistemi empirici possono essere utili anche per stabilire la quantità di alcune vocali. Faccio solo un esempio. Se al posto di una u tonica latina in italiano c’è una o, quella u è senz’altro breve: se in italiano abbiamo gola, sappiamo già che la u del latino gula è breve senza bisogno di cercare sul vocabolario. Anche questo trucco si basa sul rapporto tra il latino e l’italiano, e in particolare su come le vocali della lingua madre si sono trasformate nella nostra. Ma anche qui bisogna fare attenzione ad alcuni fattori che scompaginano i rapporti: soprattutto ai prestiti, che l’italiano ha preso dal latino come da qualunque altra lingua, e che non seguono le stesse regole delle parole ereditarie.
Quali sono i principali versi della poesia latina?
Il verso di gran lunga più importante nella poesia latina classica è l’esametro dattilico. Per frequenza e versatilità si avvicina al nostro endecasillabo, e infatti viene usato praticamente in tutti i generi letterarii. In misura diversa, però: la lirica e il teatro hanno i loro metri proprii e lì, a differenza del nostro endecasillabo, l’esametro si trova solo sporadicamente. In compenso è l’unico verso ammesso in altri generi, a cominciare dall’epica: tanto che gli antichi lo chiamavano anche heròus, “(verso) eroico”. Ma anche nella satira, nella poesia didascalica e in quella bucolica è il metro esclusivo o almeno prevalente. Tutta la poesia di Virgilio, almeno quella di paternità sicura, è in esametri: e questo significa che per diventare il maggior poeta di Roma non c’era bisogno di usare altri metri.
Fratello minore dell’esametro è il pentametro, che ha una base ritmica simile: entrambi sono metri dattilici. Anche questo è un verso molto importante nella Roma classica, ma non si trova mai da solo: è sempre unito all’esametro in una una coppia di versi che si chiama “distico elegiaco”. Come dice il nome, questa strofetta è il metro in cui è scritta l’elegia, la poesia d’amore di Properzio, Tibullo, Ovidio. Ma anche i carmi brevi di Catullo e di Marziale sono spesso in distici: talvolta anche uno solo bastava per un epigramma di incisività lapidaria.
Come accennavo, a teatro si usavano ritmi diversi, soprattutto quello incalzante dei giambi. Un tempo il re dei metri scenici era stato il senario giambico – un metro molto complicato, insieme libero e sorvegliatissimo – ed era ancora così all’epoca di Cesare e Cicerone. I poeti dell’età di Augusto lo sostituirono col trimetro giambico, una sua versione più regolare e più vicina al modello greco: perché la metrica latina classica è un adattamento più o meno fedele di quella usata dai poeti Greci. Ma del teatro romano classico ci resta ben poco: solo alcune tragedie senecane ci sono arrivate complete, del resto abbiamo al massimo versi sparsi.
Quali sistemi strofici conosce la poesia latina?
Nel mio manuale presento più di venti sistemi strofici, ma non tutti hanno la stessa importanza e diffusione. Il più comune è il distico elegiaco, di cui ho già detto. È una strofetta molto breve, di due soli versi, ma questo non è un’eccezione: in effetti nella Roma classica le strofe hanno sempre o due o quattro versi. Solo una eccede questa misura e arriva a comprenderne nove; ma è una delle bizzarre sperimentazioni di Seneca, un’invenzione estemporanea che si trova solo in un passaggio di una sua tragedia e non ritorna altrove.
Distico elegiaco a parte, le strofe sono caratteristiche della poesia lirica e dei generi ad essa più vicini – il giambo, l’epigramma. Sono le forme di poesia in cui eccellono Orazio e Catullo, e non a caso alcuni storici manuali di metrica dedicano sezioni apposite ai metri di questi due autori. Anzi, quelli oraziani erano oggetto di trattati specifici perfino nell’Antichità. Forse anche per queste attenzioni particolari, certo perché sono rari e numerosi, i sistemi oraziani sono spesso temuti dagli studenti e considerati difficili. Eppure metri come la strofa alcaica, la saffica minore, le asclepiadee – i più usati da Orazio – sono di gran lunga i più facili da scandire dell’intera poesia latina antica, perché ammettono poche o punte variazioni e i loro versi mantengono sempre stabile il numero delle sillabe. In pratica, una volta visto lo schema, non resta che trasferirlo sul testo così com’è.
Federico Biddau è docente di Lingua e letteratura latina all’Università di Cagliari. Ha insegnato anche negli atenei di Halle-Wittenberg e Magonza (Germania), dopo esperienze di ricerca in Italia, Svizzera ed Inghilterra.