“Il brillìo degli occhi. Che cosa ci strappa dal nulla?” di Julián Carrón

Don Julián Carrón, il Suo nuovo libro si intitola Il brillìo degli occhi. Che cosa ci strappa dal nulla? «L’urto provocato dal Coronavirus» ha aggravato la domanda di senso; per esaudirla «i meri discorsi non bastano». Come scrive nel libro, «un pensiero, una filosofia, un’analisi psicologica o intellettuale non sono in grado di far ripartire l’umano, ridare fiato al desiderio, rigenerare l’io. Le biblioteche ne sono piene e con la Rete tutto è a portata di mano, ma il nulla dilaga ugualmente»: da cosa nasce questo vuoto di senso?
Il brillìo degli occhi. Che cosa ci strappa dal nulla?, Julián CarrónDal fatto che l’uomo non trova una risposta all’esigenza di significato che si trova addosso, lo voglia o no. È qualcosa di inesorabile. Leopardi aveva identificato con chiarezza il carattere paradossale della natura dell’uomo: «Natura umana, or come, / Se frale in tutto e vile, / Se polve ed ombra sei, tant’alto senti?». L’io è costituito da un tale fascio di esigenze di verità, di bellezza, di felicità che non trova pace se non riesce a scoprire una ragione adeguata per vivere. Allora finisce nell’apatia, come riconosceva Orwell nel suo profetico romanzo 1984: «Lo colpì il fatto che ciò che veramente caratterizzava la vita moderna non era tanto la sua crudeltà, né il generale senso di insicurezza che si avvertiva, quanto quel vuoto, quell’apatia incolore». Il panorama non sembra molto cambiato da allora. Anzi, il problema si è accentuato. L’ha confermato mesi fa Galimberti, rispondendo a una domanda del Corriere della Sera: «L’angoscia più frequente qual è? Quella provocata dal nichilismo». E ha spiegato: «Nel 1979, quando cominciai a fare lo psicoanalista, le problematiche erano a sfondo emotivo, sentimentale e sessuale. Ora riguardano il vuoto di senso». Chi meglio lo percepisce sono i ragazzi: «I ragazzi non stanno bene, ma non capiscono nemmeno perché». Lo conferma la lettera di un giovane universitario che ho ricevuto di recente: «Questa frase di Galimberti mi ha squarciato il cuore, perché descrive perfettamente la mia vita in questo periodo. È da mesi ormai che c’è in me una sorta di insoddisfazione e di tristezza in tutto quello che faccio. Vedo che questa insoddisfazione è ovunque, come se sotto la maschera dei sorrisi e delle mille cose da fare regnasse il nulla, un’assenza di significato vero, un’assenza di letizia vera. Mancando il significato, resta solo il dovere, un doverismo inutile, che mi tira ancora di più verso il fondo. Forse è proprio questo il nichilismo di cui spesso ci parli. È un problema che riguarda la mia esistenza. Infatti è come se la vita ora fosse meno vita. E la prima prova di questo è che tutto ciò che non va secondo i miei piani diventa un macigno che mi affossa. Basta un nulla, una piccola cosa che non va come vorrei, e io crollo, mi arrendo, mi lascio andare. Davanti alla realtà sono come rassegnato e triste. Nonostante le maschere, il provare a far finta di nulla, lo sforzarsi di andare avanti, mi accorgo che in fondo in fondo, davanti a tutte le cose che mi succedono e che vedo, sono triste, ma non capisco il perché. Solo qualche anno fa era l’opposto, le difficoltà erano dei trampolini, non dei macigni; adesso il bisogno che ho in cuore cerco di non guardarlo, fingo che non ci sia, fingo di star bene, nulla più mi stupisce. Ho bisogno di qualcosa di grande che vinca il nulla in cui sono caduto. Ho bisogno di capire ciò che mi accade durante le giornate, perché in questo nulla non voglio rimanere».

Che forme assume il nichilismo esistenziale che contraddistingue la nostra epoca?
Il nichilismo odierno mi sembra assumere una doppia faccia. Da una parte, quella descritta dai versi tragici di Montale: «Forse un mattino andando in un’aria di vetro, / arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: / il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro / di me, con un terrore di ubriaco». Quel “forse” getta un sospetto sulla consistenza ultima della realtà, per cui tutto sembra finire nel nulla, compreso l’io di ciascuno. Dall’altra parte, il nichilismo mette in dubbio che la vita sia positiva, che sia possibile vivere con un senso ed essere utili al mondo. C’è come un vuoto che incombe su tutto quello che facciamo, provocando una sottile disperazione anche in vite indaffarate e piene di successo, con agende fitte di appuntamenti e di progetti per il futuro.

A differenza del nichilismo di un tempo, quello di oggi ha i tratti di una vita “normale”, ma con un “virus” che la svuota dall’interno insinuando che niente valga la pena, niente sia in grado di attirare e di prendere veramente. Il guaio è che si tratta di una situazione che spesso viene subita passivamente, che penetra senza trovare resistenza in noi e provoca una stanchezza del desiderio, come un maratoneta sfinito un istante dopo essere partito. Augusto Del Noce parlava di un «nichilismo gaio», «senza inquietudine», che vorrebbe affogare in soddisfazioni superficiali il «cuore inquieto» di cui parlava sant’Agostino.

Che cosa può vincere il nichilismo in noi?
Siccome si tratta di un nichilismo esistenziale, ciascuno può – e dovrebbe – verificare nella propria vita cosa ha la forza, l’attrattiva sufficiente per vincerlo.

I tentativi messi in campo sono tanti. Li abbiamo visti all’opera durante il lockdown. Sono stati tentativi di ogni tipo. Ciascuno ha fatto i suoi. E ne ha visto l’esito. Forse, dopo il confinamento a cui ci ha costretti il Covid-19, abbiamo guadagnato un po’ di chiarezza su quali tentativi sono stati utili per affrontare l’urgenza di pienezza che non abbiamo potuto smettere di avvertire dentro di noi.

Né un elenco di regole con cui si cerca di tenere a bada il desiderio smisurato di pienezza, né un puro discorso, filosofico, psicologico o di altro genere, è in grado di prendere, di afferrare l’io nell’intimo. Più passa il tempo, più emerge con tutta la sua forza la domanda del Miguel Mañara dell’omonima opera di Milosz: «Come colmarlo, questo abisso della vita?»

Solo una carne – questa è la mia risposta – può prendere la totalità della nostra umanità. Ma non una carne qualsiasi. Mañara lo descrive mirabilmente: «Ho trascinato l’Amore nel piacere, e nel fango, e nella morte […]. Mangio l’erba amara dello scoglio della noia. Ho servito Venere con rabbia, poi con malizia e disgusto […]. Certo, nella mia giovinezza, ho cercato anch’io, proprio come voi, la miserevole gioia, l’inquieta straniera che vi dona la sua vita e non vi dice il suo nome. Ma in me nacque presto il desiderio di inseguire ciò che voi non conoscerete mai: l’amore immenso, tenebroso e dolce». Da questo scaturisce quel grido: «Come colmarlo, quest’abisso della vita? Che fare? Perché il desiderio è sempre lì, più forte, più folle che mai. È come un incendio marino che avventi la sua fiamma nel più profondo del nero nulla universale!». Per quanto l’uomo cerchi di ridurlo o addirittura di soffocarlo, il desiderio permane, non ce lo si può strappare di dosso. E questa è una vera sorpresa: più uno cerca di soddisfarlo o di anestetizzarlo e più esso cresce, è inesorabile.

Perciò, che cosa può vincere il nichilismo? Possiamo scoprirlo solo in chi capita questa vittoria. Parlando del suo incontro con un gruppo di amici, una studentessa universitaria scrive: «Che cosa mi strappa dal nulla? Che cosa mi ha strappato dal nulla? Questa compagnia». Solo una compagnia reale, carnale, storica è in grado di sconfiggere il nulla che avanza. Non i nostri pensieri, le nostre immaginazioni o qualcosa di virtuale, ma, continua la ragazza, «volti precisi dove trovo questo sguardo di bene e di tenerezza che mi richiamano a un Altro, a un Tu vivo, presente qui e ora, e che mi hanno restituito alla vita».

«La carne è il cardine della salvezza», diceva Tertulliano. È l’esperienza vissuta da Daniele Mencarelli al Bambin Gesù e descritta ne La casa degli sguardi: «All’altezza della vetrata Liberty stazionano due ragazzi. La madre tiene in braccio un bambino mentre il padre gioca con lui. Il piccolo avrà tre anni; a parte gli occhi il suo viso non esiste, al posto del naso, e la bocca, ci sono buchi di carne rossa. Schiaccio gli occhi sul marmo del pavimento, gli sfilo a fianco senza più guardarli. […] Ora però non sono da soli. Davanti a loro c’è una suora, è anziana, piegata in avanti, il suo viso sfiora quello tremendo del bambino. “Tu sei il bello di mamma e papà, vero?” Prende una manina e la bacia, lui forse per il solletico scoppia a ridere. Lo bacia, incurante del suo viso, di tutto. Sono stordito, non riesco a capire, a decifrare. Ho visto qualcosa di umano e al tempo stesso straniero, non riesco dentro di me a rintracciare strumenti per tradurlo nella mia lingua. Nessuna lettura riesce a colmare la distanza tra quel che ho visto e la mia logica». Che cosa ha calamitato Mencarelli? La diversità umana di quella anziana suora, che non si è lasciata bloccare dal quasi niente che era quel bimbo; è andata oltre l’apparenza con gesti di tenerezza, di simpatia umana, carnale, con un affetto così profondo da far pensare al divino, tanto è impossibile all’uomo. Solo una presenza così è capace di mettere a tacere le nostre interpretazioni e di afferrarci dalle viscere, ridestando tutta l’infinità del nostro desiderio. Chi non pagherebbe per essere raggiunto da uno sguardo come quello che ha letteralmente “travolto” il finalista del Premio Strega?

Nell’esperienza sperimentiamo la «portata conoscitiva della nostra umanità»: in che modo essa diviene criterio di giudizio della realtà?
Perché la nostra umanità, così come è fatta, non si lascia manipolare facilmente – anche se accade quando non la prendiamo sul serio –, neanche da noi stessi. Gli studenti universitari che frequento – insegnando all’Università Cattolica e incontrando periodicamente un gruppo di universitari di Cl – me lo testimoniano costantemente; per esempio, questo ragazzo, che mi scrive: «Sono sempre sull’orlo del nulla. Tutte le cose, anche la mia ragazza o lo studio, perfino la mia laurea possono diventare noiose, tutte uguali e in qualche modo distanti. Mi accorgo che sono circondato dal nulla, anche semplicemente parlando con i miei compagni di corso: il dialogo che accade fra noi è all’insegna del nulla, passiamo da un argomento all’altro senza più ricordare ciò di cui parlavamo prima. Ma c’è una cosa che capisco, davanti a momenti del genere, ed è che io non sono fatto per il nulla. Ho bisogno di non parlare di aria fritta, ho bisogno di qualcosa che mi afferri e che mi strappi dal nulla, ma mi sembra che il solo accorgermi di questo non basti per intercettarlo». E invece no, gli ho risposto, proprio questo accorgersi di non essere fatti per il nulla, questo rendersi conto della vastità della propria aspirazione, è un elemento cruciale per scoprire che cosa ci strappa dal nulla. La nostra umanità, per quanto ingarbugliata e malmessa, non si lascia prendere in giro troppo a lungo, né si accontenta di una risposta qualsiasi o di una illusione. Come scrive C.S. Lewis, «quello che mi piace dell’esperienza è che si tratta di una cosa così onesta. Potete fare un mucchio di svolte sbagliate; ma tenete gli occhi aperti e non vi sarà permesso di spingervi troppo lontano prima che appaia il cartello giusto. Potete aver ingannato voi stessi, ma l’esperienza non sta cercando di ingannarvi. L’universo risponde il vero quando lo interrogate onestamente».

In questo senso parlo della portata conoscitiva della nostra umanità come criterio per giudicare l’esperienza. Quando l’ho scoperto sono scoppiato di gioia: c’è in me una capacità di giudicare tutto ciò che mi capita e che provo. È uno dei motivi per cui sarò grato per l’eternità a don Giussani, perché mi ha reso cosciente di quel complesso di esigenze e di evidenze originali che appartiene strutturalmente al mio io e che si mette in moto nel paragone costante con la realtà, vivendo sempre intensamente il reale. Incontrandolo, ho scoperto il criterio ultimo per giudicare tutto quello che accade. Per questo Giussani diceva che «solo una presa di coscienza attenta e anche tenera e appassionata di me stesso mi può spalancare e disporre a riconoscere» ciò per cui vale la pena vivere, unico argine al nichilismo che avanza. Come è umana la nostra umanità! Quindi, più mettiamo nel freezer la nostra umanità, più la evitiamo perché ci provoca fastidio e più diventa difficile riconoscere il vero quando accade, finendo per essere incerti sulla strada da prendere.

Come può la fede entrare nell’esperienza quotidiana dell’uomo moderno e divenire incontro?
Come è accaduto a una persona che me lo ha testimoniato di recente: «Non pensavo che alla soglia dei cinquant’anni si potesse rinascere. Ho vissuto quarantasette anni convinto che Gesù Cristo non fosse una “cosa” indispensabile per me. Ho inseguito per tutti questi anni obiettivi che non reggevano l’urto del tempo: l’università, la mia professione, la famiglia. Ogni volta che raggiungevo quello che mi ero prefissato non mi sentivo appagato e andavo costantemente alla ricerca di nuovi obiettivi. Mi sentivo inutile. Un giorno, tramite l’ambiente della scuola dei miei figli, ho conosciuto una persona che aveva gli occhi che brillavano. Anche lui stava vivendo un momento non facile per problemi di lavoro, ma mi appariva sereno, sicuro di sé, in una parola, lieto. È nata una forte amicizia. Siamo andati in vacanza insieme con le rispettive famiglie e la mia curiosità nei suoi confronti cresceva. Ho cominciato a frequentare i suoi amici, che poi sono diventati miei amici. Ho iniziato a partecipare ai gesti proposti dal movimento. Ho ricominciato a pregare, ad andare a messa, a confessarmi. A volte mi chiedevo: “Perché lo fai?” e mi rispondevo: “Perché sto meglio”. Ancora oggi mi sorprendo di questa amicizia, la cui origine è l’amore per Gesù Cristo. Questi tre anni mi hanno cambiato, mi hanno migliorato. Chi mi conosce da molto, i miei vecchi amici, i miei famigliari, i miei colleghi hanno notato in me qualcosa di diverso. Forse non è la stessa luce che ha negli occhi il mio amico, ma credo che sporadicamente qualche bagliore compaia anche nei miei occhi».

È questa novità la vittoria sul nulla, una fede che ci raggiunge attraverso un incontro umano, dentro un gesto quotidiano che è quello di accompagnare un figlio a scuola. Nessun effetto speciale o “visione”, ma l’imbattersi in una diversità umana che suscita curiosità e desiderio. Dentro la vita di tutti i giorni accade qualcosa di così imprevisto da risultare eccezionale, tanto corrisponde a quello che il cuore desidera. Così è nato il cristianesimo e così riaccade oggi. Ce lo ricorda papa Francesco: «Non mi stancherò di ripetere quelle parole di Benedetto XVI che ci conducono al centro del Vangelo: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva”». È questa l’unica novità credibile in questa epoca, come scrive il grande teologo von Balthasar: «Per il mondo solo l’amore è credibile». Solo l’esperienza di una novità di vita qui e ora può strapparci dal nulla.

Julián Carrón è nato nel 1950 a Navaconcejo (Spagna). Ordinato sacerdote nel 1975, è stato docente di Sacra Scrittura presso l’Università San Damaso di Madrid. Dal 2004 si è trasferito a Milano, chiamato da don Giussani a condividere con lui la responsabilità di guida del movimento di Comunione e Liberazione. È Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione dal 19 marzo 2005. Dall’anno accademico 2004-2005 è docente di Teologia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2015 è uscito il volume La bellezza disarmata, nel 2017 Dov’è Dio? e nel 2020 Il risveglio dell’umano.

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