
Come si è articolato il tentativo di realizzare la trasformazione dell’attuale bicameralismo simmetrico in uno di tipo asimmetrico, con l’introduzione di un Senato espressivo delle autonomie territoriali?
In realtà il tema dell’inclusione di voci plurali nella seconda Camera si è posto sin dall’elaborazione del testo costituzionale in seno all’Assemblea Costituente. In particolare numerosi costituenti, esponenti di forze politiche diverse presenti al suo interno, erano convinti assertori della necessità di fare del Senato la sede della rappresentanza non solo del pluralismo territoriale ma anche di quello economico e sociale, immettendo in esso le voci tanto dei territori che delle forze sociali e produttive del Paese. Lo scontro con comunisti e socialisti, per i quali l’unica rappresentanza possibile avrebbe dovuto essere quella politica dal momento che la sovranità popolare è da questi considerata quale unica possibile fonte del potere, rende vane, di fatto, tutte le ampie ed articolate discussioni che si succedono, prima in seno alla Commissione dei settantacinque e poi nel plenum dell’Assemblea. Dell’iniziale progetto di Mortati e poi delle proposte di numerosi altri costituenti non rimane così null’altro se non l’accoglimento di un sistema bicamerale, piuttosto che di quel monocameralismo che le sinistre avrebbero preferito, e di limitati elementi di differenziazione tra le due Camere tra cui la previsione in base alla quale i rappresentanti del Senato devono essere eletti su base regionale. Previsione che si traduce nel fatto che, come afferma Nitti nella seduta del 7 ottobre 1947, “la Regione è una circoscrizione entro cui si faranno le elezioni del Senato”. Da quel momento in poi, però, si susseguono non solo le riflessioni della dottrina, volte a stigmatizzare l’anomalia di un bicameralismo perfettamente simmetrico, ma anche i numerosi tentativi di superarla attraverso una riforma costituzionale. Riforma che diventa in realtà ancor più necessaria proprio agli inizi del nuovo secolo, dopo la modifica del titolo V della Costituzione. Il rafforzamento del regionalismo italiano, il fatto che importanti politiche pubbliche vengano non più decise al solo livello centrale ma anche a livello regionale, sono elementi che avrebbero in effetti coerentemente richiesto anche di intervenire sulla sede della rappresentanza, cosa che si ritiene invece di rinviare a riforme successive. Di qui il tentativo di revisione della seconda parte della Costituzione, compresa quindi la modifica dell’assetto bicamerale così come originariamente concepito, prima da parte della Commissione bicamerale D’Alema, il cui progetto fallisce però per ragioni politiche; poi del progetto di Berlusconi, che non ottiene la maggioranza al referendum del 2006; infine, del tentativo di revisione della seconda parte della Costituzione, noto come riforma Renzi–Boschi. Si tratta in questo caso della più recente ma, probabilmente, anche della più scottante sconfitta politica di un governo che molto aveva puntato su questa modifica, fin troppo sicuro dell’esito favorevole del referendum, a tal punto, infatti, da far precedere la conclusione del processo riformatore da una legge elettorale “ritagliata” appositamente su di essa, il cosiddetto Italicum, mai applicato. Molti commentatori hanno tuttavia evidenziato come la cocente sconfitta del dicembre 2016 sia stata dovuta, più che a ragioni legate al merito della riforma stessa, a ragioni politiche, per un processo di identificazione tra riforma costituzionale e soggetti politici che l’avevano più fortemente sostenuta, e cioè maggioranza di governo e, soprattutto, Presidente del Consiglio. In altri termini l’esito ampiamente negativo del referendum del 2016 rappresenterebbe, in quest’ottica, il punto di emersione più evidente di un disagio sociale diffuso nel Paese ed il segno tangibile dello scollamento tra elettori ed eletti.
Quel che è certo, in ogni caso, come emerge proprio ripercorrendo la lunga storia dei vari tentativi riformatori del nostro bicameralismo, idealmente collegati alla originaria volontà di molti costituenti di introdurre un Senato rappresentativo del pluralismo territoriale, è che non è stato possibile, sino ad oggi, riuscire a trasformare la seconda Camera in una Camera di rappresentanza territoriale per ragioni essenzialmente politiche. Ed è per questo, in definitiva, che credo che sia possibile parlare di bicameralismo “incompiuto”.
Quali ambiguità e incertezze caratterizzano il regionalismo italiano?
Il discorso sarebbe in questo caso molto ampio ma dobbiamo limitarci a segnalare alcuni dei profili più significativi e ad oggi irrisolti del regionalismo italiano. Innanzi tutto, non si può scindere il discorso del regionalismo da quello della democrazia. L’ho già evidenziato prima: la democrazia deve oggi essere espressiva del pluralismo, ovviamente non solo di quello territoriale ma certo in primo luogo proprio di questo, viste le tradizionali fratture territoriali che da sempre attraversano il nostro Paese. È da questo pluralismo, pur se esso è anche una sorta di tallone d’Achille del nostro ordinamento repubblicano, come chiarirò tra un attimo, che si dovrebbe ripartire per riannodare i fili di un rapporto a dir poco incrinato tra elettori ed eletti, proprio per la indubbia maggior vicinanza delle istituzioni territoriali ai cittadini. In ogni caso già i nostri Costituenti erano ben consapevoli del legame che tiene insieme policentrismo territoriale e democrazia, ma già il primo modello regionalista italiano presenta delle lacune, anche in questo caso dovute alla complessa opera di mediazione tra forze politiche portatrici di visioni e interessi diversi in seno alla Costituente, alle quali si sommano il ritardo nella sua attuazione e, successivamente, un’interpretazione riduttiva del disegno costituzionale, soprattutto da parte della Corte costituzionale. Con la riforma del titolo V del 2001, introdotta sulla spinta di istanze autonomistiche di cui si fanno portatrici nuove forze politiche che emergono dopo le note vicende di tangentopoli e la pressoché totale cancellazione della classe politica della cosiddetta prima repubblica, si tenta di recuperare spazio all’assetto regionale trasformando la Regione da ente a vocazione prevalentemente burocratica a ente politico, in particolare con il rovesciamento del criterio di riparto delle competenze dell’art. 117 Cost., la riscrittura dell’elenco di materie concorrenti e l’attribuzione di competenze residuali alle Regioni. Senza entrare oltre nel merito di questa riforma non possiamo però non segnalare alcuni aspetti critici sui quali la dottrina si è più volte soffermata: da un lato, il fatto che la ripartizione di competenze tra Stato e Regioni sia demandata a elencazioni di materie che, per un verso, non sono state esattamente scritte come si sarebbe dovuto e potuto e che, per un altro, sono inevitabilmente incomplete e richiedono di essere “riempite” di contenuti dall’interprete. In questo caso l’interprete principale è stata proprio la Corte costituzionale che ha avuto un ruolo fondamentale, secondo alcuni di vera e propria riscrittura del titolo V. L’incertezza interpretativa, la difficoltà a segnare confini competenziali certi è però innegabilmente fonte di conflitti tra Stato e Regioni e la soluzione di questi solo in parte può essere demandata all’opera ermeneutica, rivelatasi spesso fin troppo creativa, della Corte costituzionale che, tra l’altro, può intervenire solo ex post, cioè quando il conflitto si è ormai innescato.
Da quanto osservato è evidente quindi come le recenti vicende della crisi sanitaria ed economica dovuta al Covid-19, delle quali molto si parla, hanno fatto emergere, in tutta la sua drammatica evidenza, un nodo in realtà già esistente e da tempo irrisolto. Quello cioè di una conflittualità costante e difficilmente risolvibile nei rapporti tra centro e periferia, mostrando quanto questo profilo dei rapporti territoriali viva un grave momento di crisi che richiederebbe strumenti idonei per essere adeguatamente risolto. E qui veniamo all’altro, e forse principale, punctum dolens dell’attuale modello regionale. La carenza maggiore di quel disegno, mai del tutto superata, è infatti rappresentata proprio dall’assenza di una sede politica centrale di composizione e di accordo tra diversi livelli territoriali di governo grazie al quale dare corpo alla “leale collaborazione” che dovrebbe ispirare scelte politiche chiamate a non tradire, ma a rendere costantemente possibile il senso profondo dell’art. 5 della Costituzione, e cioè la costante ricerca di equilibrio “virtuoso” tra le ragioni del decentramento e dell’autonomia e quelle dell’unità. Senza un “luogo” in grado di realizzare quell’equilibrio appare oggi ben difficile uscire dalle secche di un immobilismo politico e istituzionale che pesa gravemente sui destini della nostra Repubblica.
Come si realizza attualmente il raccordo tra centro e periferia e come andrebbe ripensato?
L’unico strumento attualmente operante quale raccordo a monte tra Stato e Regioni è il sistema delle Conferenze. Si tratta di uno strumento nato in via di prassi e successivamente consolidatosi attraverso l’intervento del legislatore e della giurisprudenza costituzionale. Rivelatosi spesso determinante per superare gravi momenti di impasse nei rapporti in particolare tra Stato e Regioni esso è, tuttavia, uno strumento piuttosto informale e per tale ragione scarsamente trasparente, pur se l’informalità secondo alcuni sarebbe da valutare con favore poiché consentirebbe una certa dose di elasticità, e quindi di adattabilità, delle modalità operative. Inoltre, si tratta di uno strumento che non è previsto dalla Costituzione, cosa alla quale si potrebbe ovviare con una riforma costituzionale che potrebbe contribuire a mitigare, almeno in parte, un altro elemento di debolezza che lo caratterizza, e cioè la prevalenza al suo interno della volontà del governo centrale. La costituzionalizzazione in particolare della Conferenza Stato-Regioni consentirebbe infatti di attribuire maggiore autorevolezza all’organo e con questa più ampia autonomia rispetto al governo centrale. Tuttavia non si deve dimenticare che ormai le stesse Conferenze sono troppo spesso meri strumenti di registrazione di accordi assunti a livello politico nel quale il vero spartiacque è più quello dell’appartenenza partitica che non il cleavage territoriale. Ma anche al netto di tutti i profili problematici che ho appena richiamato, pur presenti e non ancora superati, rimane il fatto che le Conferenze sono esclusivamente sede di concertazione tra esecutivi che finiscono per marginalizzare ancor di più le sedi rappresentative. Il che non deve certo portare ad escludere il ruolo delle Conferenze né, tantomeno, a negarne il contributo che fino ad oggi esse hanno fornito nella ricerca di accordi tra i diversi livelli territoriali di governo. Queste sedi, quindi, ben possono continuare ad agire al livello amministrativo dei conflitti, con le opportune modifiche nelle previsioni di rango legislativo che le riguardano e con l’eventuale richiamata costituzionalizzazione, ma la funzione da esse assolta dovrebbe accompagnarsi al ripensamento del nostro bicameralismo per ricondurre nella sede idonea la soluzione di conflitti di livello legislativo. Oggi purtroppo non si può negare che le vicende politiche portino altrove. Basti pensare che tra qualche mese saremo chiamati ad esprimerci a favore o contro una riforma costituzionale per la riduzione del numero dei parlamentari. È una riforma che avrebbe potuto razionalmente accompagnarsi ad un ripensamento del nostro modello bicamerale. Così non è stato ed è proprio per questa ragione che la riduzione del numero dei parlamentari, avulsa da un contesto riformistico più ampio, finisce con l’essere al tempo stesso risultato e causa di una marginalizzazione in atto del ruolo delle Camere.
Un’altra strada, certamente valida con riferimento all’introduzione di raccordi di livello parlamentare tra centro e periferia, potrebbe essere rappresentata dall’integrazione con rappresentanti delle autonomie territoriali della Commissione parlamentare per le questioni regionali, organo che al momento ha un ruolo prevalentemente consultivo ma che potrebbe divenire punto di raccordo tra Stato e Regioni, anche in attesa che si creino le condizioni idonee alla trasformazione del Senato se si realizzasse quella riforma prevista all’art. 11 della legge cost. n. 3 del 2001, di cui molto si è discusso anche in anni recenti ma che non si è mai riusciti a realizzare. Neanche la successiva mancata approvazione della riforma Renzi-Boschi ha rappresentato una spinta sufficiente, come ci si sarebbe potuti attendere, per portare a compimento una modifica di cui oggi non si parla quasi più. All’epoca si è trattato quindi di un’ulteriore occasione persa, così come oggi rischia di esserlo la riduzione del numero dei parlamentari in caso di esito referendario positivo.
In definitiva, quindi, il quadro è tutt’altro che rassicurante. La realtà, infatti, è quella di una progressiva marginalizzazione del ruolo delle Camere, di una distanza sempre più evidente tra elettori ed eletti e di un rapporto sempre più conflittuale tra centro e periferia. E, purtroppo, anche di risposte inadeguate offerte dalla politica che sembra preferire scelte di breve respiro, dettate principalmente dalle esigenze, a quanto pare, prevalenti, di sopravvivenza di una classe politica in declino. È evidente quanto questi tre aspetti siano tre facce, strettamente collegate, della crisi democratica che stiamo attualmente vivendo. Ciò implica che per risolverla sia necessario risolvere il nodo della distanza tra politica e collettività che passa, a sua volta, per il recupero di un corretto equilibrio nei rapporti tra centro e periferia il quale non può che riflettersi, infine, nella valorizzazione di un ruolo della sede centrale della rappresentanza, innescando quindi un circolo “virtuoso” in cui “tutto si tiene”. Perché ciò avvenga è necessaria però una presa di coscienza della necessità di ripartire dal “basso” e cioè dall’individuo e dai corpi intermedi, tanto sociali che territoriali. Infatti, non si può negare che nella crisi della nostra democrazia rappresentativa abbia un peso anche la grave assenza di mediazione sociale presente nel nostro Paese, ancor più grave se si pensa al venir meno del ruolo di “supplenza” assolto in questa prospettiva dal partito politico. La necessità di rivalutare quest’ultima si somma così alla richiamata esigenza di una adeguata valorizzazione delle autonomie territoriali e del loro ruolo, troppo spesso oscillante tra pericolose fughe in avanti delle Regioni e ritorni di fiamma centralistici. Rispetto a questa presa di coscienza è evidente che la crisi sanitaria ed economica attuale finisce con il rappresentare uno spartiacque, un vero e proprio crinale con un versante caratterizzato dal rischio che il prolungato stato di emergenza possa indurre una sorta di confortevole, quanto pericolosa, assuefazione a forme di accentramento del potere, tanto interno che nei rapporti tra centro e periferia; con una altro versante, invece, nel quale le vicende più recenti possono rappresentare l’occasione per ricollocare la persona al centro dei processi decisionali, con tutto ciò che ne deriva, recuperando così il senso più profondo dell’art. 1 del nostro testo costituzionale nel suo collegamento con i successivi articoli 2 e 5: una “trama” che tiene insieme sovranità popolare, rappresentanza, solidarietà e autonomie sociali e territoriali. Non possiamo, ovviamente, che augurarci, che a prevalere in futuro sia proprio questo secondo possibile esito dell’attuale crisi democratica.
Maria Grazia Rodomonte è professore associato di Istituzioni di diritto pubblico presso l’Università degli studi di Roma “La Sapienza”