“Il Barone. Corso Donati nella Firenze di Dante” di Silvia Diacciati

Dott.ssa Silvia Diacciati, Lei è autrice del libro Il Barone. Corso Donati nella Firenze di Dante edito da Sellerio: quale importanza riveste, nella storia medievale fiorentina, la figura di Corso Donati?
Il Barone. Corso Donati nella Firenze di Dante, Silvia DiacciatiCorso Donati, o il Barone, come lo chiamavano i concittadini suoi contemporanei, fu l’indiscusso protagonista delle vicende fiorentine nel momento di maggior splendore della città, quando Firenze era la metropoli più tumultuosa del mondo allora conosciuto, paragonabile a quello che sono oggi Londra o New York, e i suoi abitanti dominavano ovunque: come protagonisti negli scambi, nei commerci, nell’attività bancaria e finanziaria. Fu forse il fiorentino più famoso prima che sulla scena arrivassero personaggi quali i Medici, celebrati ormai in ogni dove, dai romanzi fino agli sceneggiati televisivi. Robert Davidsohn, studioso tedesco innamorato della città toscana, cui si deve la più completa e accurata storia di Firenze dalle origini fino agli anni Trenta del XIV secolo, si spinge a dire che la morte di Corso Donati corrispose addirittura alla scomparsa dell’ultima figura eroica della storia medievale fiorentina.

Che personalità era quella del capo dei Guelfi neri?
Il Barone era la quintessenza di quello che nelle fonti dell’epoca era definito un magnate, grande o potente che dir si voglia. Un altro famoso magnate fiorentino fu il poeta Guido Cavalcanti, peraltro nemico mortale di Corso Donati. I grandi si distinguevano per ricchezza e potenza, per le abilità guerriere – erano valorosi cavalieri, molti di loro addobbati con una cerimonia esclusiva e costosa – e, di frequente, per le splendide carriere politiche anche al servizio di altri comuni, in qualità di magistrati forestieri (i cosiddetti podestà o capitani del Popolo). Ma soprattutto manifestavano un’evidente inclinazione all’uso della violenza negli scontri coi propri pari e alla sopraffazione nei confronti dei più deboli, abbinata a un intenzionale sfoggio di potenza da renderli a tutti riconoscibili in città. Corso Donati incarnò tutte queste caratteristiche: fu una personalità esplosiva, temeraria e irrefrenabile, incapace di sottomettersi al cambiamento dei tempi e delle nuove forme della politica, imposte da un gruppo di potere alternativo che noi storici chiamiamo Popolo, composto in larga parte da chi era impegnato nelle attività produttive e aborriva il ricorso estremo alla violenza, con tutti i problemi di ordine pubblico che ne derivavano. Nelle intenzioni di Corso Donati vi era sicuramente il desiderio di annientare il Popolo e, probabilmente, di farsi signore di Firenze.

Che ritratto ne tramandano i cronisti fiorentini del tempo?
I cronisti fiorentini delineano questa personalità contrastante, di uomo malvagio e spietato, ma dotato di un fascino irresistibile capace di irretire anche i suoi nemici. «Uno cavaliere della somiglianza di Catellina romano, ma più crudele di lui»: con queste parole Dino Compagni sceglie di tratteggiare Corso Donati, e poi prosegue: «gentile di sangue, bello del corpo, piacevole parlatore, addorno di belli costumi, sottile d’ingegno», e nonostante tutte queste belle qualità, «sempre intento a malfare». Lo stesso cronista, suo accerrimo nemico, al momento di descriverne la morte, non poté fare a meno di salutarlo con un accorato epitaffio: «Fu cavaliere di grande animo e nome, gentile di sangue e di costumi, di corpo bellissimo fino alla sua vecchieza, di bella forma con dilicate fattezze, di pelo bianco; piacevole, savio e ornato parlatore, e a gran cose sempre attendea; pratico e dimestico di gran signori e di nobili uomini, e di grande amistà, e famoso per tutta Italia. Nimico fu de’ popoli e de’ popolani, amato da’ masnadieri, pieno di maliziosi pensieri, reo e astuto». Anche l’altro grande cronista fiorentino contemporaneo ai fatti, Giovanni Villani, non poté evitare di dedicare un ritratto al Barone: «Questo messer Corso Donati fue de’ più savi, e valente cavaliere, e il più bello parlatore, e ‘l meglio pratico, e di maggiore nominanza, e di grande ardire e imprese ch’al suo tempo fosse in Italia, e bello cavaliere di sua persona e grazioso, ma molto fu mondano, e di suo tempo fatte in Firenze molte congiurazioni e scandali per avere stato e signoria; e però avemo fatto de la sua fine sì lungo trattato, però che fu grande novità a la nostra cittade, e seguirne molte cose appresso per la sua morte, come per gl’intendenti si potrà comprendere, acciò che sia assempro a quegli che sono a venire.» Insomma, i cronisti ci descrivono il Barone come il prototipo di un certo eroe negativo che avrà un grande futuro nella letteratura occidentale: di buona famiglia, bellissimo, elegante, raffinato, beneducato – e malvagio.

Quali vicende segnarono la sua vita?
Senza dubbio, la vita di Corso fu indirizzata e segnata fin dall’inizio: ebbe la ventura di nascere non in una modesta famiglia di artigiani o salariati costretti a lottare ogni giorno per la sopravvivenza, ma in uno dei casati più antichi, ricchi e potenti di Firenze. Le doti concessegli benignamente dalla natura – carisma, bellezza, intelligenza, coraggio e un eccezionale talento verbale – trovarono il terreno più fertile per esprimersi al meglio, anche se non furono spesso ben indirizzate. Un evento fondamentale nella vita del Barone fu sicuramente rappresentato dalla battaglia di Campaldino. Fu grazie al coraggio e all’intemperanza del Donati, a capo di un contingente di cavalieri di riserva, che l’11 giugno 1289 la fortuna arrise all’esercito guelfo guidato da Firenze, uscito vincitore dallo scontro col nemico ghibellino. Corso divenne allora l’eroe indiscusso di Campaldino, il cavaliere invincibile di cui Firenze non poteva più fare a meno. Il desiderio sfrenato di porsi alla guida della città, tuttavia, lo condusse alla fine a eccessi e scelte sbagliate: la più grande fu quella di imparentarsi col più odiato e temuto capo ghibellino di inizio Trecento, Uguccione della Faggiuola, nella speranza di ottenere finalmente il predominio su Firenze grazie all’appoggio dei nemici per antonomasia della città, i ghibellini.

Per quali ragioni, nonostante l’eccezionale fama che ebbe presso i contemporanei, la memoria di Corso Donati e delle sue gesta è divenuta sempre più tenue, sconosciuta ai più e mantenuta in vita quasi esclusivamente dai dantisti e dagli esperti della Firenze medievale?
In effetti, oggi i più non hanno alcuna memoria di Corso Donati. In gran parte il colpevole di questa vera e propria damnatio memoriae è Dante, che nella Commedia si guardò bene dal fare anche solo il nome del parente di sua moglie Gemma. L’Alighieri non cita mai direttamente Corso, in nessuna delle sue opere. Si limita a riferirsi a lui tre volte: una nella tenzone con Forese, fratello di Corso e amico del poeta (Rime LXXVIII, vv. 12-14), e le altre due volte nella Commedia. Nella tenzone fa genericamente allusione alla vita dissoluta dell’amico e dei suoi fratelli, ma non fornisce grandi spunti sul Barone in particolare. Nella Commedia vi è invece un riferimento più diretto quando narra le vicende di Piccarda Donati, la sorella che Corso avrebbe trascinato fuori dal convento per darla in sposa a un Della Tosa e di cui oggi ignoreremmo addirittura l’esistenza se non fosse stato per quest’episodio ricordato da Dante. Insomma, grazie a Dante, o a causa di Dante, oggi tutti conoscono Piccarda Donati, mentre pochi ricordano il ben più famoso fratello.

A cosa si deve la scelta di Dante di non nominare mai, nelle sue opere, Corso Donati?
Sebbene Dante sia divenuto un mito intoccabile, specialmente in questo anno che celebra i settecento anni della scomparsa, bisogna pur ricordare che qualche difetto lo aveva pure lui. Anche a detta dei suoi più accaniti ammiratori come Giovanni Boccaccio, il poeta non aveva quel che si direbbe un buon carattere: era altezzoso e sprezzante, irascibile e superbo, e aveva – a ragione, vista la sua fama eterna – un alto giudizio di sé. La scelta di non nominare il protagonista della storia fiorentina tra la fine del Duecento e i primi anni del Trecento non fu dunque casuale e non fu neppure dettata da una sorta di rispetto dovuto a un parente o a un uomo influente e degno. In effetti le allusioni al personaggio furono comunque di violenta condanna morale. Il silenzio sul nome di Corso Donati fu invece la più grande vendetta che Dante ebbe modo di compiere nei confronti di una creatura che probabilmente odiava con tutte le forze, perché ritenuta principale colpevole delle proprie disgrazie. L’oblio è ciò che più temono le personalità debordanti, gli individui che vivono per calcare sempre la scena da protagonisti. L’idea di non lasciare neppure un segno del loro passaggio sulla terra li annienta, li atterrisce più di ogni altra cosa. Come poteva allora Dante danneggiare il suo nemico e per l’eternità? Lui, che con la sua opera avrebbe reso immortali umili e oscuri personaggi altrimenti ignoti al pari di papi, imperatori e grandi protagonisti della storia, cosa poteva fare? Poteva solo farne sparire il ricordo, nascondendone addirittura il nome ai posteri. E in buona parte ci è riuscito.

Silvia Diacciati, dottore di ricerca in Storia medievale presso l’Università di Firenze, si occupa di storia fiorentina del Duecento, con particolare attenzione alle vicende politiche e istituzionali della città, alle quali ha dedicato varie pubblicazioni. Tra queste si ricordano Popolani e magnati: società e politica nella Firenze del Duecento, Spoleto 2011 e, con E. Faini, L. Tanzini e S. Tognetti, Come albero fiorito. Firenze tra Medioevo e Rinascimento, Firenze 2016. Con Sellerio ha scritto Il Barone. Corso Donati nella Firenze di Dante (2021).

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link