“Il bambino medievale. Storia di infanzie” di Angela Giallongo

Prof.ssa Angela Giallongo, Lei è autrice del libro Il bambino medievale. Storia di infanzie edito da Dedalo: come visse il sentimento dell’infanzia il Medioevo?
Quando la storia dell’infanzia apre uno spiraglio verso il medioevo, allora è il caso di infilarsi dentro: questo ho pensato, scrivendo il libro.
Il bambino medievale. Storia di infanzie, Angela GiallongoIl modo migliore per rispondere alla domanda è quello di focalizzare gli schemi mentali alla base dei comportamenti collettivi assunti verso chi era appena venuto al mondo. L’esame del discorso pubblico nelle fonti scritte e figurative di questo periodo, ci mostra un inconfutabile metro di misura: l’età perfetta era attribuita a un uomo di 30/40anni. Soltanto questo soggetto personificava quella eccellenza sconosciuta alle ultime e soprattuto alle prime tappe della vita. Convinzione non priva di effetti pratici.

La letteratura cristiana del IV e del V secolo legittimava l’infanzia in funzione del discorso spirituale: per questa via prese corpo l’idea che quel passaggio della vita fosse affetto da una sorta di vuoto da superare quanto prima. Inoltre, su ogni neonato pesava l’ineliminabile tara del peccato originale. Infatti il premio per i bambini morti dopo il battesimo era quello di risorgere in Paradiso come adulti. Nel regno dei cieli della letteratura latina di questo periodo non c’è posto per balbettii e lallazioni.

In un alternarsi di fasi di resistenza e di disponibilità verso le prime età sono trascorsi più di dieci secoli. Malgrado queste ipoteche, diversi autori si si sono soprattutto preoccupati della durata dell’infanzia e della puerizia. Le azioni culturali più incisive si registrano a partire dai secoli XII-XIII con le indagini mediche e filosofiche interessate, grazie all’influenza araba, allo studio della natura umana e al suo benessere in ogni fase. Su questa base si svilupparono altre svolte sociali. Quindi attraverso queste due coordinate sono riscontrabili diversi tentativi per dare un senso agli stadi iniziali.

In breve, se con Ariès definiamo il sentimento dell’infanzia come la percezione di questa condizione nella mentalità collettiva dobbiamo allora fare i conti in tasca anche alla modernità. Nel 1762 con l’Emilio Rousseau accusava i suoi contemporanei di avere troppe “idee sbagliate e confuse” sull’infanzia, perché continuavano a degradarla mediante parametri fissati dagli adulti.

Quale ruolo aveva l’antropologia cristiana nella concezione dell’infanzia?
Si potrebbe dire che crescere, crescere il più in fretta possibile era agli occhi dei Padri della Chiesa l’unico modo per sfuggire al quid incontrollabile degli anni infantili. Le teorie dottrinali sulle età, assetate di eternità, negavano il divenire. Per i teorici del primo millennio il senso del ciclo vitale era riposto nella superiorità della vita celeste su quella terrena. Ragion per cui, una delle loro preoccupazioni fondamentali era, per esempio: “come far capire alle teneri menti, molli come cera liquida, le verità eterne?”. Inoltre, i processi fisiologici spiegati attraverso le teorie mediche della cultura greco-romana, spinsero Isidoro di Siviglia (560 circa e il 636 d.C.) ad accettare le qualità passive attribuite a questo stadio, giustificandole con la prevalenza di umori freddi o umidi. Tale risposta rendeva molto convincente l’idea di equiparare infantes e pueri al rimbambimento degli anziani e alla insensatezza delle donne.

La rappresentazione standard delle prime età nella visione patristica e monastica ha così oscillato tra il senso del peccato e quello dell’infirmitas. Queste aspettative guidavano il sistema dell’oblazione, reso operativo dalla Regula di Benedetto nel 540. Nonostante la tenerezza paterna, sollecitata dal monaco cassinese, le austere norme esigevano dai piccoli destinati al servizio di Dio un totale adattamento alla vita religiosa. La scelta, conforme agli insegnamenti dei testi sacri, delle lettere paoline, degli scritti di Girolamo e di Agostino, finiva per concentrarsi sul completo annientamento della volontà dei minori.

Le loro colpe, dovute alla fragilità, all’ignoranza e all’inclinazione per il gioco godono comunque di attenuanti e della possibilità della grazia, cioè di un aiuto soprannaturale che avrebbe riscattato, non per meriti personali, chi poteva eccezionalmente essere ascoltato dagli adulti.

Al solo pensiero di essere stato un bambino oppresso e punito, Agostino constatava amaramente: “Chi non preferirebbe scegliere la morte, piuttosto che tornare fanciullo?”. Quando era giunto a questa conclusione, Agostino aveva poco più di 40 anni. Aveva raggiunto l’età perfetta.

Quali erano le valenze pedagogiche dell’immaginario medievale?
Il desiderio di giocare con il tempo si mostra con il mago Merlino che cambiava età e aspetto a suo piacimento: le storie di questo essere speciale dagli occhi grandi e dalla barba bianca, simbolo di saggezza, divertivano il pubblico, aggirando il mistero della nascita e l’oblio della prima infanzia.

Dalla fertile immaginazione popolare e dotta dei secoli XII e XIII accanto alle agiografie di Santi – sempre riconoscibili fin dal primi passi per il loro astio verso il gioco – sono stati ideati i bambini mostri, diabolici e selvaggi. I tre personaggi hanno consegnato ai posteri modelli imitati con successo dai secoli successivi.

Negli ambienti di corte e nei villaggi delle campagne se un infante parlava precocemente stupiva gli adulti, propensi a credere che fosse un evento straordinario di stampo maligno o divino. Tuttavia queste reazioni erano anche intrecciate con l’idea che ci fossero dei tempi di crescita, capacità e caratteristiche infantili che non potevano essere forzate.

Particolarmente esemplare è il caso del bambino primitivo, protagonista di suggestioni letterarie ed artistiche. Nel vedere il marmocchio camminare a carponi, portare alla bocca, incapace di esprimere suoni articolati, qualsiasi cosa, era facile tramutarlo in un selvaggio da addomesticare. Si diventava tali per nascita o per allattamento, come nel caso di Orsone allevato in una incolta foresta appunto da una orsa. Il suo corpo peloso, animalesco, fisicamente forte, cresciuto in fretta ma privo di parole ben si prestava a raffigurare quell’originario negativo stato di natura che se lasciato a se stesso non prometteva niente di buono.

Perché lo sviluppo naturale senza l’educazione, in questo caso, quella cortese, stando a un romanziere del XIII secolo, non avrebbe forgiato veri esseri umani.

Esisteva l’infanzia per le donne?
A nessuna giovane madre o balia sarebbe venuto in mente di fasciare e di allattare una neonata come se fosse nata sotto il segno giusto.

Molte energie sono state spese prima, durante e dopo il medioevo per dimostrare l’atipicità del secondo sesso fin dal primo vagito. Al tempo di Carlo Magno e del sistema curtense, nel famoso polittico dell’abbazia di Saint Germain des Prés, la registrazione dei lattanti seguiva un preciso criterio: l’età dei maschietti era calcolata a due anni, l’altra esattamente la metà. Di conseguenza i tempi dell’allattamento di una neonata terminavano alla fine del primo anno.

Se poi venivano presi alla lettera i testi latini indirizzati all’utenza femminile, a partire da Girolamo, si apprezzava l’abitudine precoce alla frugalità. Secoli dopo, Paolo da Certaldo, seguendo questa linea, ribadiva che bastava nutrire la poppante quel tanto necessario da tenerla in vita.

Non deve stupire, fra i dati storicamente rilevabili, come l’abbandono delle bambine fosse/sia un fenomeno frequente.

Inoltre, per la tradizione scientifica queste creaturine in carne ed ossa attraversavano rapidamente tutte le stagioni della vita. La negazione dell’infanzia per le figlie di Eva si stabilizza soprattutto con il dibattito medievale sull’età media ritenuta giusta per il matrimonio. Nel XIII secolo, per esempio, i maschi erano ritenuti maturi dopo i 20 anni, le femmine a 14. La pratica dei matrimoni precoci, ancora diffusa in diverse parti del mondo, non rispettava comunque il limite d’età. Gli adulti colti, stando ai resoconti narrativi, ritenevano normale che un cavaliere desiderasse convolare a nozze con una bambina di cinque anni pronta ad offrire come pegno d’amore la sua bambola.

Nel 1318, Francesco da Barberino lamentando il disordine portato nelle case fiorentine da spose così piccole da essere ancora tenute in braccio dalla balia, si sentiva comunque in dovere di scrivere pagine di consolazione per le dodicenni già zitelle.

La credenza nell’insussistenza dell’infanzia femminile è riscontrabile nella letteratura precettistica latina e in lingue vernacolari, dove ricorre spesso la formula “senza distinzione d’età”.

Tutti rispettavano la regola ferrea della dottrina umorale di stampo aristotelico e galenico: le bambine a causa del temperamento freddo, essendo meno vitali, inevitabilmente maturavano e invecchiavano più in fretta. Quindi le loro verdi età avevano una durata minore rispetto a quella maschile, come mostrano i calcoli matematici pervenutici. Un discorso talmente convincente da diffondersi fino al XIX secolo e oltre.

Di sicuro i romanzieri cortesi anche se preferivano raccontare le prime avventure delle personalità maschili feudali, immaginarono a volte altre soluzioni. Scelsero infatti la possibilità di mostrare bambini e bambine di tre anni che, come Floire e Blancheflor, giocavano e imparavano insieme, trascorrendo momenti felici. Un’aspirazione contraddetta dagli autori della letteratura didascalica urbana, pronta a schierarsi contro qualsiasi attività promiscua e a vedere nella bambina soltanto una donna già fatta.

Con la forza trainante della tradizione dogmatica si poteva riconoscere la copia imperfetta già dai vagiti dei neonati. Il maschio piangendo diceva “a,a,a..” per memoria di Adamo mentre la femmina “e,e,e..” per accettare l’eredità della vera responsabile di quell’asimmetria che aveva degradato tutto il genere umano: Eva.

Qual era l’incidenza della mortalità infantile in epoca medievale?
Era la prima nemica dei lattanti, degli svezzati, dell’infanzia e della puerizia. I bambini morivano non soltanto a causa di calamità come la guerra, le carestie, la malnutrizione, la mancanza di igiene, di cure mediche e le epidemie, ma anche per le malattie dell’anima. Nel XIII secolo, secondo il medico Aldobrandino da Siena, la paura, il pianto, l’angoscia, la tristezza, l’ira, la disperazione e la mancanza di amore li condannavano al sonno eterno. In base all’appartenenza di genere, di classe e della fascia d’età, le persone avevano un valore diverso. Un unico esempio.

Ai tempi della Bibbia, la vita di un bambino da un mese a cinque anni, valeva 5 sicli, dai cinque ai venti, valeva 20 sicli. quella di una bambina 3 sicli e dai cinque ai venti, 10 sicli.

Quali abitudini educative erano diffuse nel Medioevo?
L’Europa medievale credeva nei privilegi ritenuti naturali e indiscutibili. L’educazione pertanto era un simbolo di autorità e potere. Non a caso, gli enciclopedisti del XIII secolo erano molto più interessati alla nascita degli eredi che a quella dei bambini normali.

Comunque dal V al XV secolo l’educazione è dominata dalla consuetudine di far crescere i figli fuori casa. Come indicano i tre principali costumi riscontrabili nelle terre dei franchi e degli italici.

Dai secoli V-VI prevalse il fenomeno dell’oblazione. Era ispirato dalla Bibbia, dalle antiche caste sacerdotali levitiche, che votavano la prole al servizio divino ancora prima che venisse al mondo e dall’indiscusso principio romano della patria potestas, accettato dalla Chiesa. I credenti rispettavano la regola di allontanare maschietti e femminucce quanto prima dalla casa paterna e di farli educare separatamente per raggiungere quella formazione spirituale che alle bambine non avrebbe comunque garantito un futuro sacerdotale né tantomeno un sapere teologico.

Dai secoli X-XII, i circoli elitari delle corti reali, dell’entourage signorile e nobiliare ospitavano le ‘scuole’ di noblesse. Qui paggetti, scudieri e donzelle, anche prima dei cinque anni, affrontavano presso estranei diversi test che verificavano le competenze richieste dal mondo aristocratico. Era una esperienza altamente qualificante stando al successo dei trattati di Civilités nel XVI secolo. Nonostante le discriminazioni, questo complesso processo di apprendimento dominato dalla cultura orale, ha ispirato la prima esperienza europea di coeducazione.

Con l’ascesa economica e politica della borghesia si diffuse poi l’apprendistato professionale nei centri urbani comunali. A Firenze, i figli venivano inviati nelle botteghe delle varie Corporazioni, per sviluppare i loro talenti commerciali e artigianali. E non stupiva che chi era stato spedito a bottega a tre anni, a dieci fosse già pronto “a tenere la cassa”. Gli indisciplinati, in particolare, venivano “mandati fuori casa per tempo”. Nel Trecento, i viaggi d’istruzione all’estero — l’equivalente degli attuali Erasmus — erano così diffusi che i ”fanciulli andati in Francia o altrove” alla fine non volevano più tornare a casa.

Infine, i trattati latini circolanti nelle diverse epoche scolastiche, lasciano intendere le difficoltà di gestire sia i pueri destinati all’abito talare sia quelli indirizzati alle nuove professioni (“cortigiani litterati”, medici, notai, giuristi, insegnanti, artigiani e mercanti alfabetizzati).

I futuri intellettuali chierici e laici che fossero erano in ogni caso ingestibili: quando non si picchiavano di santa ragione, preferivano i giochi più rumorosi al silenzio degli studi. Anche le immagini mostrano come i maestri li mettessero in riga: il terrore della verga stabiliva chi era in alto e chi in basso.

Comunque i padri che non lesinavano sulle spese dell’educazione, si conformavano all’idea che l’infanzia fosse la base della vita. Dal canto loro, gli specialisti dell’arte educativa rivolgevano le loro migliori attenzioni alle infanzie principesche e reali, agli eredi delle professioni mercantili ed artigianali paterne, discutendo, per esempio, se per una bonne enfance fosse migliore un esperto di morale o di scienza. E con un tono di soddisfazione c’era anche chi caldeggiava nel XIV secolo la prospettiva di mandare a tonsura soltanto quei figli tristi che non volevano né giocare né ridere.

Quali modelli di comportamento adottavano gli adulti nei confronti dei minori?
Dal caleidoscopio dei comportamenti affettivi espressi da questi secoli emergono qua e là varie testimonianze. I laici istruiti da Filippo da Novara e da Bartolomeo Anglico tolleravano il gioco e la spensieratezza dei loro figli in nome delle necessità naturali mentre i precettori delle famiglie più potenti si adattavano ai diversi caratteri e alla ricerca delle attitudini reali dei loro discepoli, senza castigarli.

Per gli scrittori dell’arte medica le maniere forti minacciavano l’equilibrio delle tenere età. Gli ambienti colti del XIII secolo interessati ai regimi sulla salute e al rispetto della natura infantile, scelgono di conseguenza maniere gentili e comprensive.

Ma i toni cambiano, quando sono rivolti all’enfance nobiliare di rango inferiore: le cosiddette braccia e mani del corpo politico. Qui il minore è assoggettato al rigore dei codici virili cavallereschi, punito per ogni errore, incitato a superare la paura per gli orrori della guerra mentre viene nutrito con carne di scarto per abituarlo alla vita militare.

I figli del terzo stato e dei numerosi subalterni della società medievale sono per lo più inesistenti.L’esperienza ottimale della infanzia, tra XIII e XV secolo, era un privilegio per pochi. E se i Lamenta del XIV secolo sostenevano che san Giuseppe non si era sposato per mettere al mondo figli, è anche vero che dal XII secolo si intensificavano le descrizioni di baci e abbracci paterni e materni.

Le strategie affettive sono oggetto di un vivace dibattito. Un esempio eccellente sui migliori stati d’animo è fornito soprattutto dai romanzi, destinati dal XII all‘influente pubblico delle dame sempre più attente alle esigenze culturali ed emotive della vita quotidiana. Appaiono così culle sui cavalli; cavalieri che combattono per salvare un neonato, ovviamente di sangue reale; dame e damigelle che baciano “cento e cento volte” teneri lattanti; e romanzieri della Tavola Rotonda che raccontano l’infanzia di Lancillotto proprio “per compiacere coloro che amano sentire parlare della bellezza dell’infanzia”.

Gli esempi letterari ci conducono poi verso un’affettuosità femminile così restia alla separazione dai figli naturali e adottati da provare un insopportabile “languore mortale”. Certo è che diversamente dalla disperata Dhuoda, la principessa franca che non si oppose alla decisione del marito di separala anche dall’ultimo nato, la nobile germanica del XIII secolo, prendeva una decisione personale: non si lasciava portare via il suo lattante.

Per questa via veniva a volte scalfita la tradizione che esaltava unicamente le anaffettive decisioni paterne.Paradossalmente il medioevo comincia a scoprire il valore dell’infanzia attraverso il mondo femminile.

Anche se i seguaci della dottrina tomistica promuovevano soltanto il padre negli affetti domestici; mentre altri teorizzavano che i regnanti dovessero prediligere il primogenito; ed altri ancora si ponevano il problema se fosse meglio affezionarsi ai figli del fratello o a quelli della sorella. Ovviamente, non ci è dato sapere quali fossero i figli o i nipoti più coccolati, perché le nostre conoscenze sui legami affettivi sono ancora provvisorie.

È il caso però di ricordare il metodo di Paolo da Certaldo che nel XIV secolo suggeriva al padre di amare i figli senza discriminazioni di genere e di età, per evitare le gelosie degli esclusi.

Quali erano le opere e gli autori di “pedagogia” più noti nel Medioevo?
L’elenco sarebbe lunghissimo, mi limito ad alcuni testi fondamentali: di Agostino Le confessioni, di Isidoro di Siviglia, le Etymologiae – l’enciclopedia latina più consultata durante tutto il medioevo -, di Aldobrandino da Siena, il famoso Régime du Corps, diffuso nelle principali corti europee, negli ambienti colti urbani e nelle università grazie alla divulgazione di Zucchero Bencivenni.

Infine, un’opera bellissima, simbolo dell’attuale rivoluzione culturale al femminile La città delle Dame (1405). Qui Christine de Pizan biasimava l’esclusione delle bambine dalle scuole che cominciavano ad affermarsi come luoghi istituzionali dell’infanzia, esprimendo una idea davvero inconsueta per la sua epoca: regalare la felicità dell’infanzia alle sue contemporanee per aiutarle a sopportare meglio da adulte le avversità della vita.

Angela Giallongo, ordinaria di Storia dell’educazione, insegna presso l’Università di Urbino e all’estero. I suoi corsi e le sue ricerche indagano processi e fenomeni educativi informali di lunga durata: esperienze sensoriali e visive; comportamenti e stereotipi; emozioni ed immaginari; storia dell’infanzia e di genere nelle società premoderne europee (in particolare, nelle fonti scritte e visive dei secoli XIII e XV). Fra le sue ultime pubblicazioni La donna serpente. Storie di un enigma dall’antichità al XXI secolo (Dedalo, 2013), tradotta in spagnolo (Benilde, 2015) e in inglese (Cambridge Scholars Publishing, 2017). Questo libro ha vinto nel 2013 il Primo premio del Concorso nazionale “Il Paese delle donne” ed è stato finalista, nel 2014, del Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica promosso dall’Associazione italiana del libro e dal C.N.R. Altri premi e riconoscimenti nazionali sono stati assegnati alla sua attività scientifica. Comunica con la convinzione che la storia non sia un’attività puramente accademica.

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