“Il bambino espressivo. Teorie e buone pratiche per gli educatori” di Gianni Nuti

Prof. Gianni Nuti, Lei è autore del libro Il bambino espressivo. Teorie e buone pratiche per gli educatori edito da Carocci: quale rilevanza assume l’espressività per la crescita del bambino?
Il bambino espressivo. Teorie e buone pratiche per gli educatori, Gianni NutiCiascuno di noi, nell’atto di esistere, si esprime anche se resta immobile: vivendo, lancia messaggi multisensoriali che il contesto umano intorno coglie e decodifica se ha desiderio di relazione. In un consesso umano in cui il linguaggio verbale rappresenta il cuore dello scambio comunicativo, abbiamo voluto sottolineare in questo volume come fin dalla nascita sia necessario capire che ogni piccolo atto del neonato dice qualcosa al care giver interrogandolo con il proprio modo di ridere e piangere, con la chiusura delle mani e l’oscillare delle braccia perché ognuno esegue movimenti istintivi in un modo diverso e nelle sfumature di un gesto si rivela uno stile che fa di ciascuno un essere unico. L’espressività è dunque teatro di reciproca conoscenza tra adulti e neonati e nello sviluppo delle relazioni intersoggettive precoci tra pari, soprattutto laddove le competenze linguistiche sono ancora da maturare o sono acerbe. Il corpo parla per noi da subito, la voce è canto prima che verbo, l’energia è direzionalità e forma prima che tappeto sul quale scorrono parole e sogni.La dimensione espressiva va risvegliata fin dalla nascita, ma va coltivata per tutto l’arco della vita perché è un prezioso rivelatore di identità e un accogliente, inclusivo luogo di incontri tra esseri viventi, che patiscono la solitudine più della morte.

Come si manifesta nei bambini la dimensione espressiva?
Ogni essere umano respira, batte le palpebre, sorride e piange, afferra oggetti e rivolge sguardi all’altro in modi diversi: ogni cenno di esistenza ha un profilo, una forma, un colore, un ritmo e una parabola vitale che celebra una nascita, sostiene uno sviluppo, si rassegna alla morte in un modo unico e irripetibile.

Si tratta di riconoscere queste specificità anzitutto in se stessi: perciò non dobbiamo solo soffermarci sui contenuti delle nostre parole, ma sui modi di organizzarle, sulle dinamiche intonative e sui volumi che adottiamo, sui silenzi che interpoliamo alla voce. Parimenti le espressioni facciali, il nostro gesticolare con gli arti superiori, l’andamento nel passo rappresentano le nostre opere incise sulla sabbia, sono il codice misterioso che la natura ci ha affidato in modo esclusivo ed esaltante. L’unico modo per capire chi siamo è identificare le specificità umane di cui siamo circondati per distinguerci e insieme per creare risonanze con il prossimo diverso da noi e a noi per una parte familiare, per l’altra complementare. Si tratta insomma di riconoscersi nodo di un sistema di vite intrecciate.

Nei bambini questa vocazione al dire attraverso “tutto se stessi” rappresenta una sorgente infinita di possibilità, per l’adulto, di cogliere con quali codici comportamentali ma anche emotivo-affettivi può relazionarsi con loro, accompagnandoli nella crescita libera e originale.

In che modo è possibile acuire lo sguardo verso gli stili corporei, vocali e cognitivi con i quali i bambini abitano il mondo?
Tutti noi abbiamo bisogno di costruirci delle mappe del mondo per non perderci e capire dove siamo, in quale direzione possiamo orientare le nostre forze con il minimo quantitativo di rischi. Tuttavia, questi schemi possono diventare gabbie, se non mobilitiamo le nostre coscienze nel rendere sempre provvisorio ogni tentativo di standardizzazione, di fissazione delle coordinate più stringenti. I flussi vitali nei quali siamo immersi impedisce di restare fermi: è necessario cambiare continuamente punti di vista, non sempre questo avviene nei contesti educativi, dove la tendenza talvolta è quella di economizzare le forze e costruirsi stereotipi di riferimento. Compito dell’educatore è di riconoscere tutto il bouquet comunicativo presente in ciascun bambino preso in cura e nei gruppi di pari, senza ridurre l’osservazione al significato delle parole dette né all’adozione di cliché per l’accudimento e il governo delle attività gruppali. Si tratta di cogliere quali gesti sono adottati da ciascuno bambino durante le routine, quali atteggiamenti del viso modula di fronte a eventi ciclici od occasionali, quale tipo di prossimità adotta nelle attività collettive, come manipola gli oggetti: si devono riconoscere le analogie e le ricorrenze così come le forme inusuali cercando i legami con i fatti, leggendone le corrispondenze. Se ne desumeranno moltissimi messaggi impliciti, che rappresentano il principale dispositivo di comunicazione/relazione della vita infantile: multidimensionale, transmodale, – ovvero dove le percezioni sensoriali sono stimolate da sollecitazioni analoghe (carezzare e dire “caaro” con la voce presenta il medesimo profilo curvilineo) – corporea e vocalica pre-linguistica.

Quali strategie è possibile attivare per accompagnarli verso la costruzione di fantasie e bellezze rivelatrici di verità e di saperi?
Le strade sono principalmente due: la prima è quella di promuovere azioni che favoriscano atti creativi di tipo sonoro-musicale, grafico-rappresentativo, coreutico ed espressivo-corporeo, allestendo spazi con oggetti, strumenti specifici formali e informali (una cetra, ma anche una scatola con un pugno di fagioli dentro) e condizioni architettoniche accessibili, accoglienti e fortemente connotate. Le azioni pedagogiche, oltre alle pratiche osservative sistematiche, dovranno essere l’imitazione ripetitiva e la variazione a partire da gesti/atti improvvisativi prodotti dalle bambine e dai bambini, lasciati liberi di esprimersi senza direttive eterodirette. La dialettica tra ripetizioni e variazioni sarà governato dalle dinamiche di relazione tra i soggetti presenti nel setting ispirati dalla volontà di condividere stati emotivi, profili di vitalità, promuoverà lo scambio, l’esplorazione di tensioni e distensioni, densità e rarefazioni, pieni e vuoti, secondo le logiche che ispirano l’estetica.

La seconda strada è quella di “artificare”, dare forma artistica, la vita quotidiana in tutte le sue forme, dunque non tempi e spazi dedicati alla dimensione espressiva, ma un modo diverso di compiere gesti, lasciare segni, modulare la voce. Enfatizzare teatralmente le espressioni facciali all’arrivo del vassoio con il cibo, giocare sulle reazioni al caldo, alla consistenza del cibo e sollecitare allo scambio di sguardi senza parole acuisce il vocabolario della comunicazione intersoggettiva, crea legami intimi, favorisce l’apprendimento per emulazione. Parimenti, ritualizzare con una danza di avvicinamento al lavandino per l’igiene dentale o strutturare ritmicamente i gesti di accudimento durante il cambio del pannolino, come accompagnamento coerente a un canto, dà buona forma a una consuetudine anonima, rendendola significativa al di là delle funzionalità correlate.

Quale ruolo svolgono, in tale prospettiva, le arti?
Le arti sono state per secoli viste come luoghi elettivi accessibili a pochi, selezionati per attitudine e non per passione. Oggi il fare artistico è restituito a tutti non perché il talento sia diffuso e quindi si consideri equivalente un disegno spontaneo di bambino e un’opera di Willem de Kooning, ma per dare a ciascuno l’opportunità di dire di sé con ogni mezzo possibile e con piena consapevolezza. Tuttavia, solo il contatto diretto, autentico, non edulcorato con un’opera permette di coglierne il valore in termini di impatto cognitivo/emotivo, di conservazione della capacità di rivelare mondi e prevedere destini tra le maglie di un sistema simbolico sintetico e misterioso.

Dunque, anche nella prima infanzia è doveroso avvicinare alle arti bambine e bambini per immersione sensoriale, abitando opere scultoree e allestimenti contemporanei, avvolgendoli in brani musicali diffusi da quattro lati della stanza, di farli muovere tra danzatori esperti. Naturalmente, questa frequentazione va coltivata in parallelo con la possibilità, come già detto, di svolgere attività creative pratiche, libere e guidate, mai imposte, tese verso la costruzione di una propria idea di bellezza, da condividere con gli altri.

Tutto questo non solo perché desideriamo che il mondo di domani sia ancora popolato di opere d’arte amate dai più, collettori di memorie sempre più ricche e stratificate, ma perché è il presupposto affinché le persone vivano più felici.

Gianni Nuti è Professore Associato di Didattica Generale e Pedagogia Speciale e docente di Pedagogia dell’integrazione all’Università della Valle d’Aosta. Esperto di pedagogia e didattica della musica, è membro del Comitato Nazionale per l’apprendimento pratico della musica presso il MIUR ed è stato direttore responsabile della rivista “Musica Domani”, organo della Società Italiana per l’Educazione Musicale. Dal 2020 è sindaco di Aosta.

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