“Ignoranza ed erudizione. L’Italia dei dogmi di fronte all’Europa scettica e critica (1500-1750)” di Paolo Cherchi

Prof. Paolo Cherchi, Lei è autore del libro Ignoranza ed erudizione. L’Italia dei dogmi di fronte all’Europa scettica e critica (1500-1750) pubblicato da libreriauniversitaria.it edizioni: in che modo, nel Cinquecento, prese forma il dibattito tra il sapere e il non-sapere?
Ignoranza ed erudizione. L’Italia dei dogmi di fronte all’Europa scettica e critica (1500-1750), Paolo CherchiCosa sia il sapere è una domanda che ogni generazione culturale e ogni epoca si pone; e ogni risposta pone a sua volta la questione opposta di cosa sia l’ignoranza. È quindi un tema perpetuo che potrebbe cominciare da Adamo e portarci fino ai giorni nostri in cui Google sa tutto per tutti e nessuno è più obbligato a sapere niente. Visto in questo modo il tema acquista una dimensione trascendentale e metafisica, riguardante la “qualità” del sapere, e – per fare un esempio – stabilire la differenza tra a scientia e sapientia, come fece Sant’Agostino intendendo con la prima il sapere scientifico e filosofico, mentre con la seconda indicava il sapere che porta alla salvezza eterna, ed è un sapere legato alla parola divina, accessibile anche a chi non sa leggere e scrivere. Nel mio libro tocco questo tema solo nella misura in cui determina e orienta la discussione che ebbe luogo in un momento storico particolare al quale uno si deve attenere se vuol capire come la perennità alla quale alludevo trovi una dimensione storica, la sola che consenta di entrare nel modo concreto in cui il tema si articolò. E ho scelto di limitare questo periodo storico partendo dalla fine del Quattrocento fino al pieno Settecento, periodo in cui l’argomento si impose producendo una letteratura e modificando la cultura. L’ho fatto studiando l’ignoranza perché questa compagna perpetua del sapere nel periodo indicato sembra prendere il sopravvento e imporsi come la “vera” forma del sapere. Un’operazione che, come si vede, ha del paradossale e sovversivo. Non era un fatto del tutto nuovo, e ne vediamo i prodromi in Petrarca il quale dedica un trattato a distinguere la “sua propria ignoranza da quella degli altri”. Verso la fine del Quattrocento alcuni umanisti (ad es. Urceo Codro) esprimono qualche riserva sulla natura del loro sapere e delle “favole” che vengono propinate sotto la veste di una dottrina impeccabile. E emerge la voce Erasmo che, impareggiabilmente dotto, scrive in lode della pazzia, riprendendo un tema che era molto vecchio perché risaliva a San Paolo: i pazzi conoscono la Verità e rigettano il sapere del mondo. C’è, inoltre, un fatto importantissimo che è la scoperta dei testi di Sesto Empirico, il maggior rappresentante dello Scetticismo antico. Un fatto poco noto è che Girolamo Savonarola possedesse e conoscesse questi testi in greco e propose di tradurli in latino. Ma la morte impedì la realizzazione di questo progetto, e per fortuna un ammiratore del frate iconoclasta utilizzò alcuni principi dello scetticismo in un’opera intitolata Examen vanitatis doctrinae gentium, in cui si ripudiava con veemenza “il sapere vano” dei filosofi antichi e specialmente di Aristotele. Questo pugnace allievo era Gianfrancesco Pico della Mirandola, nipote del più noto Giovanni Pico, e l’opera, forse per il tono, non ebbe grande successo e non “seminò” le maggiori tesi scettiche di tipo pirroniano, che propende a sospendere il giudizio anziché negare assolutamente la possibilità del conoscere filosofico, come sosteneva la versione radicale dello scetticismo dei Carneade e degli Academici conosciuti attraverso gli Academica di Cicerone. Per Pico minor il sapere di tipo scolastico e filosofico in generale era un sapere vano. Bisognava ripulire le menti da quel sapere accademico e inutile ai fini della salvezza e sostituirlo con la sapienza delle Sacre scritture.

Come si giunse in Italia a dare valenza positiva all’ignoranza e a deprecare il sapere tradizionale? E perché questa rivalutazione fu osteggiata?
Siamo nel periodo in cui Lutero lancia la sua sfida al Credo difeso da Roma, e il discorso sulla “vanità del sapere” si diffonde, producendo opere come De incertitudine et vanitate scientiarum (1530) di Cornelio Agrippa. In Italia una serie di scrittori “scapigliati”, lontani dai modelli umanistici di studio lanciano delle “lodi dell’ignoranza”: sono scrittori come Nicolò Franco, Ortensio Lando, Anton Francesco Doni e Giulio Landi, autori che indipendentemente scrivono orazioni e lodi dell’ignoranza. Uno dei Paradossi di Ortensio Lando, s’intitola “Meglio ignorante che dotto”, e la prima edizione dell’opera apparve 1543 in Francia a Lione dove erano attivi molti editori italiani. Fu una fiammata che non ebbe vita lunga. Intervenne il Concilio di Trento a spegnerla perché temeva che dove si esaltava l’ignoranza si creava un vuoto di sapere che poteva essere facilmente colmato dall’eresia. In effetti gli esaltatori dell’ignoranza si associavano spesso con le correnti dell’Evangelismo che in vari modi favorirono l’avvento della Riforma. Dopo il Concilio le lodi dell’ignoranza furono sporadiche o inesistenti (fa eccezione Giordano Bruno), e si ebbe una sistematica condanna degli “ignoranti”, intesi generalmente come i viziosi e i nemici dei letterati. I letterati erano i depositari della Verità che era quella scritturale e quella aristotelica; in questo modo diventarono dogmatici. Questa tendenza produsse una notevole letteratura poco nota e comunque interessante per quello che dice sulla classe dei letterati sempre più associati agli uomini della chiesa e alle corte dove, però, vanno acquistando un ruolo da segretario o scrivano di lettere e di orazioni celebrative. È una letteratura che tende a perfezionare il letterato “emendandolo” (come dirà Daniello Bartoli) e tenendolo il più possibile lontano dalle correnti “libertine” che fiorivano in Francia. Sarà una letteratura che non avrà alcun seguito rilevante nel Settecento perché allora l’Italia si aprì alle correnti di pensiero europee dalle quali la cultura italiana si era tenuta lontano, rinchiusa nel suo dogmatismo.

Nel libro Lei scrive che «la Francia capì il potenziale gnoseologico dell’ignoranza e fu capace di rinnovarsi culturalmente».
Il quadro che ho appena tracciato non dà il senso pieno e la misura del problema senza avere un termine di riscontro, e per questo nel corso della mia storia apro un’ansa per vedere come l’ignoranza venne accolta o respinta in Francia. Ho ricordato che Ortensio Lando pubblicò il suo paradosso in lode dell’ignoranza a Lione. È un dato importante perché immediatamente la Francia conobbe un’esplosione di lodi dell’ignoranza a imitazione di Lando. Tuttavia apportò una variante notevole nel senso che non rigettò il saper accademico ma lo sottopose al “dubbio” che non riguardava tanto il soggetto in discussione quanto lo strumento del ragionare stesso. Era un mutamento notevolissimo che già metteva in crisi la logica aristotelica, e passando per una trafila di autori arriva a Montaigne il quale, tra l’altro poté conoscere le opere di Sesto Empirico che vennero tradotte in latino dal grande classicista Etienne. Montaigne basa il suo relativismo proprio sul dubbio scettico, e il suo modello avvia in Francia la cosiddetta “cultura del dubbio” dalla quale nasce il cogito cartesiano che avvia il pensiero moderno. L’Italia scoperse lo scetticismo e non seppe ricavarne vantaggio, e si appagò del suo dogmatismo. In Francia l’ignoranza sfidava il dogmatismo e in questo mostrò il suo potere positivo.

In che modo tutto questo si collega con il fenomeno della “erudizione”, tema al quale lei dedica la seconda parte del libro?
Lo scetticismo, il dubbio sul sapere tradizionale mise in moto un modo tutto nuovo di vedere la storia, il passato e i testi fondativi della cultura europea. L’erudizione degli umanisti era finalizzata alla “imitazione” del passato, mentre la nuova erudizione aspira alla conoscenza più precisa possibile (“il certo”) del mondo antico, e per questo si interroga sull’autenticità dei testi che studia, sui grandi problemi della storia, della cronologia e del diritto. Lo scetticismo crea il bisogno di “certezze” se non proprio di verità, e questo significa interrogare la storia in modo come non si era fatto precedentemente. Cos’è, infatti, la storia? Si può dire che le “storie” di Livio siano da porsi sullo stesso piano delle “storie” del paladino Orlando? Sembra strano, ma non esisteva una disciplina didattica chiamata “storia”, e la prima cattedra di storia venne istituita ad Oxford ai primi del Seicento! Era importante dunque definire la natura di questa disciplina che fino ad allora si insegnava sotto il ramo della retorica, e a questo fine si discusse e si elaborò un’ ars historica che aveva come requisiti fondamentali l’accertamento della veracità dei dati. Per ottenere questo si elaborò un metodo di ricerca che si codificò poi nella ars critica che ricostruisce la verità dei fatti. E nacque così la filologia moderna che studia la storia e la tradizione dei testi in modo molto simile a quella della filologia genetica attuale e che si allontana dalla tradizionale filologia umanistica più orientata verso l’interpretazione che verso l’autenticità testuale. A questo esame critico non sfuggiva né la Bibbia né la storia della Chiesa né le vite dei santi, né tutto il patrimonio dei testi antichi che ebbe per la prima volta edizioni magistrali per opera di filologi come Etienne, Causebon, Scaligero e un’infinità di altri grandissimi filologi. Si frugarono biblioteche sepolte e archivi, e si ricostruì la storia della Chiesa, e nacquero ordini monastici come i Maurini — che pubblicarono medievali pertinenti alla dottrina e la storia della Chiesa — e i Bollandisti — che curarono in modo filologico la “vita” dei molti santi —, ordini che praticamente scoprirono la cultura medievale, totalmente sconosciuta nella cultura dell’Umanesimo.

Come partecipò l’Italia a questo movimento erudito?
L’Italia rimase assente da questo fermento di studi, eccetto per quel che riguarda la storia della Chiesa, campo non poteva non essere presente e difendere il primato del Papa e dell’istituzione che aveva la sua sede maggiore a Roma. L’opera monumentale di Cesare Baronio in tredici volumi sulla storia della Chiesa rispose all’opera protestante, anch’essa monumentale in altrettanti volumi, delle Centuriae Madburgenses. Ma per il resto l’Italia non diede alcun contributo agli studi eruditi dei quali parliamo almeno fino a quando i Bacchini e i Muratori e una buona squadra di eruditi del Settecento si riallacciarono all’erudizione europea. Si pensi che in Italia, culla degli studi greci con i Ficino e i Poliziano, il greco fu praticamente dimenticato come campo di studio dopo il Concilio di Trento! Si pensi che l’Italia aveva avviato gli studi dell’ebraico di cui aveva capito l’importanza culturale (Ficino, Pico della Mirandola, Pagnini), ma poi li trascurò.

L’Italia dunque conobbe una decadenza?
Se per decadenza s’intende la perdita di un primato e di ruolo esemplare, l’Italia veramente entrò in una fase culturale che la isolò nel piano europeo. Questo non vuol dire che l’Italia diventò un paese di ignoranti. L’Italia ebbe i suoi dotti e la sua cultura il cui tono, però, era quello epigonico di stanchi continuatori della tradizione umanistica che continuarono a produrre opere enciclopediche di tipo nomenclatorio anche se dottissime. Faccio un solo esempio: nel 1596 Simone Mattioli, vescovo di Volterra, pubblicò i Dies caniculares, un’imponente enciclopedia che descrive il mondo con un’erudizione portentosa. Tuttavia nel suo metodo tassonomico e nomenclatorio era molto simili ai Commentari Urbani del Volterrano, pubblicati nel 1511. Queste opere non destavano più alcun interesse fuori dagli ambienti italiani. L’Italia forse si distinse nel campo della musica e anche nel campo dell’antiquariato archeologico, e anche nel pensiero politico, ma non produsse una sola edizione critica di un testo classico né fece lavori filologici di valore eccellente.

Come si conclude questa storia dell’erudizione?
Si concluse quando una nuova generazione di intellettuali rimproverò agli eruditi di essere i nemici del vero sapere, studiosi che sapevano tutto della storia ma non capivano cosa veramente fosse la storia. Era la generazione degli illuministi che vide la storia come progresso e giudicò i grandi eruditi come topi di biblioteca che sanno tutto e non capiscono niente. Ricominciava così un nuovo ciclo del perenne duello tra sapere e ignoranza.

Secondo lei qual è il punto forte della sua ricerca?
Credo che il suo pregio maggiore sia l’aver individuato una causa, forse una delle principali, della decadenza della cultura italiana: era la valutazione prima positiva dell’ignoranza e poi l’ostilità più intransigente nei suoi riguardi dopo il Concilio di Trento; e l’averla identificata con il vizio in generale la screditò ulteriormente. Questo rifiuto della sfida che spesso l’ignoranza desta, chiuse la cultura italiana in un dogmatismo improduttivo di nuovo pensiero, mentre in Francia l’ignoranza stimolò la ricerca erudita e filosofica. Di conseguenza l’Italia perse il suo primato culturale. Scoprì la grande potenza del metodo scettico che si interroga sul proprio sapere, ma si rifugiò nella certezza del dogmatismo; scoprì le potenzialità gnoseologiche dell’ignoranza, ma le soppresse per accettare il dogma. La politica della Chiesa ebbe un peso notevolissimo su questo processo, e d’altra parte la Chiesa salvò l’Italia dalle guerre religiose che afflissero la Francia e i paesi protestanti. Credo che l’angolatura del mio lavoro presenti un modo nuovo di tornare su un annoso problema relativo alla decadenza o meno dell’Italia. E nel farlo ha messo in luce temi e filoni letterari inesplorati, così come ha illustrato in un modo insolito il rapporto della cultura italiana con le culture contigue, soprattutto quella francese.

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