“Ignorantocrazia. Perché in Italia non esiste la democrazia culturale” di Gianni Canova

Ignorantocrazia. Perché in Italia non esiste la democrazia culturale, Gianni CanovaSi intitola Ignorantocrazia il nuovo libro di Gianni Canova, pubblicato da Bompiani. Un grido d’allarme, quello lanciato dal Rettore dello IULM di Milano, perché «quando l’ignoranza dilaga, e si fa sistema, diventa ignorantocrazia. Genera forme distorte di consenso e di potere. E mette in discussione le basi stesse della democrazia.»

Canova paragona la situazione attuale a quella descritta in Fahrenheit 451, il film di François Truffaut tratto dal romanzo di Ray Bradbury, in cui si immagina un futuro senza libri: «Fahrenheit 451 è la temperatura a cui i libri prendono fuoco. Solo i libri. Perché nel futuro messo in scena da Truffaut il mondo è diventato ignifugo. Non brucia più nulla. Ignifughe le case, ignifughi gli abiti, gli oggetti, le suppellettili. Solo i libri non lo sono. Ma i libri sono residui del passato che vanno eliminati il più in fretta possibile. Vanno bruciati. E a occuparsi di questo compito sono i pompieri. I quali non hanno più incendi da spegnere, visto che il mondo è diventato ignifugo, e quindi provocano roghi. Di libri. Di tutti i libri.»

Nella società di Fahrenheit 451 c’è spazio solo per la «TV: dove le signore passano le giornate serene e soddisfatte, ascoltando i consigli di altre signore che – come accade oggi con i cosiddetti “tutorial” – spiegano il modo migliore di passarsi il rossetto sulle labbra o di pettinarsi i capelli. Riempiono le giornate così, i personaggi di Fahrenheit 451. E sono felici. Beatamente e beotamente felici. Tutti. Tranne quei pochi irriducibili che non solo si ostinano a voler leggere libri, ma che addirittura li imparano a memoria per impedire che, una volta bruciati, finiscano nell’oblio e vengano per sempre dimenticati.»

La distopia di Fahrenheit 451 si è realizzata in un paese, il nostro, dove, come ricorda Canova, «quasi il settanta per cento degli abitanti diserta mostre e musei. Siti archeologici e monumenti sono del tutto ignorati da tre abitanti su quattro. Una percentuale vicina al novanta per cento non ha mai assistito o partecipato a un concerto di musica classica. Quasi l’ottanta per cento non è mai andato a teatro.»

«La sparizione sta già avvenendo, l’eliminazione forse è già avvenuta, senza che nessuno l’abbia imposta». Non sono serviti roghi e pompieri, i libri sono «spariti da sé. Senza proteste. Senza resistenze.» E «una società che dileggia la competenza, che afferma che chiunque può fare qualsiasi cosa, che sostiene l’equivalenza di tutti a prescindere dalle conoscenze, dallo studio, dalla performatività, finanche dal talento, è una società statica, abulica, bloccata su se stessa, incapace di trasformarsi.»

Perché in Italia non esiste una democrazia culturale diffusa? Innanzitutto, e diversamente da quello che è successo in altri paesi europei come Francia o in Inghilterra, «da noi radio, cinema e TV sono arrivati prima dell’alfabetizzazione di massa (a cui ha provveduto in buona parte proprio la televisione)»: nel nostro Paese «il romanzo arriva con due secoli di ritardo rispetto all’Inghilterra mentre l’affermazione dei media audiovisivi precede – invece di seguire – i processi di scolarizzazione e alfabetizzazione di massa.»

Le responsabilità vanno dunque ricercate nei media, nella politica, nella scuola e nell’università: «C’è una responsabilità oggettiva dei direttori dei giornali e dei grandi media. C’è la responsabilità di chi ha gestito negli ultimi cinquant’anni la televisione pubblica. Ci sono le colpe della politica, che ha riservato alla diffusione della cultura risorse sempre scarse e talora vergognosamente insufficienti. Ma c’è una parte di colpa, una non piccola parte di colpa del deserto culturale italiano, che è anche e soprattutto degli intellettuali e dei professori. Di chi ha gestito l’università e la scuola» coltivando «un’idea di cultura solipsistica, snobisticamente criptica, del tutto indifferente al compito di diffondere il piacere della conoscenza» e premiando «il conformismo più che l’originalità, l’appartenenza più del merito» macchiandosi così della colpa più grave: rendere la cultura noiosa.

Le colpe sono anche dell’establishment culturale, «soprattutto di quello che maschera con una patina di ostentato progressismo il proprio intimo, atavico, profondo e ontologico aristocraticismo», se il nostro è diventato «un paese culturalmente anoressico»: ne è esempio Pietro Citati che sul Corriere del 9 marzo 2012 scriveva «è meglio non leggere nulla, e non prendere neanche in mano un libro, piuttosto che leggere i bestseller di autori come Giorgio Faletti o Paulo Coelho». Esattamente il contrario di quanto avvenuto, ad esempio, con il design italiano, capace «di realizzare un grande progetto politico di democrazia culturale (e oggettuale) portando la bellezza nelle case di tutti».

«A chi risale storicamente la responsabilità di aver eluso la questione della democrazia culturale a favore di un ambiguo e peloso elitarismo progressista? Una responsabilità non da poco va purtroppo attribuita al movimento neorealista e alla sua ostentata indifferenza nei confronti del pubblico della cultura. Il fatto che il neorealismo sia un movimento in cui per la prima volta è un medium di massa come il cinema a fondare un’estetica che poi influenzerà le pratiche di altri ambiti espressivi – dalla letteratura al teatro fino all’arte figurativa – rende ancora più gravi i suoi errori. […] Gli “autori” cercano soprattutto il consenso dei loro pari. Sono intellettuali che si rivolgono ad altri intellettuali. Circolo chiuso. Punto e basta.» È da qui che nasce «il male oscuro del cinema italiano, la sua incapacità di essere al contempo colto e popolare, come sa essere il cinema in Francia».

E poi l’università: «Il problema principale della didattica nelle università italiane deriva prima di tutto dal fatto che i docenti, quale che sia la disciplina che insegnano, hanno perseguito un modello tagliato non sulle esigenze degli studenti e delle nuove generazioni, del paese, ma su quelle delle loro carriere, dei loro raggruppamenti scientifico-disciplinari, dei loro fondi di ricerca, dei loro piccoli feudi personali e in ultima istanza dell’algoritmocrazia» figlia della valutazione della didattica perseguita dall’ANVUR, che ha preso il potere nell’università.

Chiusa la prima parte del volume, «quella più “militante”» – come egli stesso la definisce – il libro ripropone alcuni saggi scritti molti anni prima e ormai irreperibili, «che cercano di rintracciare in quattro diversi media (il fumetto, la letteratura, la televisione e il cinema) possibili modelli di artefatti culturali funzionali allo sviluppo di una più diffusa e capillare democrazia culturale.» Canova si profonde quindi in una articolata analisi di alcuni «esemplari della pop culture italiana»: Tex, il fumetto bonelliano che per più di settant’anni «è stato un contenitore dei possibili, un bignamino dei sogni, un archetipo italiano dell’avventurosità» oltre che «un modello subliminale del comportamento di massa: 500.000 copie vendute in media ogni mese, con punte di 650-700.000 nel corso degli anni settanta»; i romanzi polizieschi di Giorgio Scerbanenco. «Con i suoi romanzi il giallo italiano diventa finalmente urbano e metropolitano, sadico e violento» decretandone il successo presso il pubblico di massa degli ultimi anni sessanta. E poi La Piovra, la serie TV messa in onda dalla RAI nel 1984 e diretta da Damiano Damiani, che «rappresenta forse l’ultimo grande esempio di narrazione televisiva nell’era del tramonto delle grandi narrazioni» e il cinema di Ettore Scola.

E contro l’omologazione, contro il conformismo eterodiretto degli algoritmi, cui stiamo conferendo «in silenzio e senza alcuna resistenza, il governo del nostro cervello e il controllo delle nostre scelte di gusto», che si scaglia il capitolo finale del libro nel quale Canova dà estro, ça va sans dire, della sua cinefilia, non a caso intitolato «La vera rivoluzione del Novecento? Il cinema, probabilmente».

Gianni Canova (1954) è saggista e accademico, dal 2018 Rettore della Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano, dove è anche docente di Storia e Critica del Cinema e Filmologia. È fondatore e direttore del mensile di cinema e spettacolo Duel. Per Bompiani ha pubblicato anche L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo.

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link