“Identità di confine. Storia dell’Istria e degli istriani dal 1943 a oggi” di Mila Orlić

Prof.ssa Mila Orlić, Lei è autrice del libro Identità di confine. Storia dell’Istria e degli istriani dal 1943 a oggi, edito da Viella: quali dinamiche segnarono la società istriana nella transizione tra la Seconda guerra mondiale e il dopoguerra?
Identità di confine. Storia dell’Istria e degli istriani dal 1943 a oggi, Mila OrlićIl libro si focalizza proprio sul carattere incerto e aperto della transizione tra la fine della Seconda guerra mondiale e il lungo dopoguerra, in una regione segnata dalla difficoltà a definire confini e sovranità statali. Non era peraltro una novità del secondo dopoguerra: infatti, al termine della Grande guerra, con la dissoluzione dell’Impero asburgico, l’Istria era stata assegnata al Regno d’Italia; nella fase finale della Seconda guerra mondiale, tra l’autunno del 1943 e la primavera 1945, si trovò sotto l’occupazione nazista; infine, nel dopoguerra, dal 1945 al 1954, fu contesa tra l’Italia e la neocostituita Federazione jugoslava e suddivisa in zone A e B, rispettivamente sotto il controllo militare alleato e quello militare jugoslavo. In questa fase si intrecciarono una serie di complesse dinamiche: la costruzione di uno Stato nuovo che avanzava pretese annessioniste dei territori che fino a quel momento non erano mai stati sotto l’amministrazione jugoslava e, di conseguenza, una lunga e stremante lotta diplomatica; la necessità di portare a termine in tempi brevi processi di trasformazione politico-ideologica e socio-economica e integrazione all’interno della nuova federazione – processi che presupponevano una serie di provvedimenti e di riforme che non sempre furono ben accolti dalla popolazione locale.

Quali difficoltà incontrarono i nuovi poteri popolari nell’intento di stabilirsi e radicarsi in Istria?
Le difficoltà erano molteplici e di diversa natura. Sul piano organizzativo, il nuovo potere popolare si dimostrò impreparato a gestire una situazione delicata come quella del dopoguerra e aveva a disposizione poco personale, spesso non istruito. Sul piano socioeconomico incontrò molti ostacoli nei tentativi di introdurre alcune riforme (in primis quella agraria) e, più in generale, nella riscossione delle tasse. Inoltre, la creazione di nuovi confini, seppur non ancora sanciti dal Trattato di pace, determinò la separazione dall’area economica di Trieste (a cui l’Istria era storicamente legata), interrompendo in questo modo non solo gli abituali commerci e scambi, ma anche una diffusa carenza di prodotti, inclusi quelli alimentari. Questo generò un’estesa e ampiamente praticata attività di contrabbando e “borsanerismo” che le nuove autorità non erano in grado di gestire e tanto meno sopprimere. Infine, ma non meno complicata da gestire, fu la questione della lealtà (o per meglio dire, della mancata lealtà) al nuovo Stato jugoslavo, che si manifestava sotto diverse forme e con diverse modalità. Tra queste c’era indubbiamente una parte della comunità italofona che guardava ai poteri popolari con molti pregiudizi (quando non dichiarato disprezzo) di lunga durata. A questa, peraltro, corrisposero forme di diffidenza da parte delle nuove autorità. Anche la Chiesa cattolica, storicamente il punto di riferimento soprattutto nelle aree rurali, non voleva in nessun modo mettere in discussione il proprio ruolo guida (religioso, ma non solo) e di conseguenza si aprì una lunga disputa sui modelli di vita (privata e pubblica): quello socialista jugoslavo e quello tradizionale cattolico, che apparentemente si escludevano a vicenda, ma che nel tessuto sociale istriano trovarono diversi modi di sovrapposizione e coesistenza.

Quale intreccio si realizzò, in questa contingenza di rapidi cambiamenti, tra dinamica sociale, politica e geopolitica?
L’analisi delle vicende istriane, viste attraverso l’intreccio di più fonti archivistiche (quelle centrali di Belgrado, quelle repubblicane di Zagabria e quelle locali istriane, anch’esse divise in regionali, distrettuali e cittadine) fa emergere una realtà storica sfaccettata e articolata, che non si può ridurre a un’univoca lettura nazionale. In questo senso, la conseguenza più problematica di questa delicata fase di transizione, in cui appunto si intrecciarono diversi fattori politico-ideologici, socio-economici e geopolitici, fu una massiccia emigrazione che coinvolse ampie fasce della popolazione, non definibili soltanto attraverso la categoria nazionale di “italiani”. Infatti, dal momento che il Trattato di pace di Parigi, firmato il 10 febbraio 1947, prevedeva la possibilità per la popolazione locale di “optare” e cioè scegliere quale cittadinanza mantenere/ottenere (quella italiana o quella jugoslava) in base alla lingua d’uso, molti cittadini scelsero di abbandonare l’Istria, avvalendosi della conoscenza della lingua italiana. Occorre ricordare che le uniche scuole presenti in Istria dal Ventennio fascista erano quelle italofone; perciò, le giovani generazioni si erano scolarizzate esclusivamente in italiano e potevano rivendicare l’italiano come loro lingua d’uso. In questo senso le “opzioni” offrivano uno strumento formale non solo per affermare le proprie convinzioni nazionali e politico-ideologiche (antijugoslave o anticomuniste), ma anche per perseguire strategie di natura sociale ed economica, volte a trarre vantaggi materiali e opportunità professionali, per sé e per la propria famiglia, in cerca di una vita migliore e in un contesto geopolitico ben delineato: la cortina di ferro aveva già separato l’Europa in due, collocando la penisola istriana (come il resto della Jugoslavia) fuori dal mondo occidentale. I cittadini residenti in Istria ebbero quindi una straordinaria ed esclusiva possibilità, che non ebbe nessun cittadino del blocco orientale, di andarsene formalmente, usando questa opportunità (anche) per andare oltreoceano in cerca di condizioni economiche e sociali più vantaggiose rispetto alla povertà e fame che caratterizzavano il dopoguerra istriano. Naturalmente, le autorità jugoslave si accorsero presto di questo fenomeno, che di anno in anno assumeva proporzioni sempre più ampie, e cercarono di frenare il flusso migratorio negando l’opzione a coloro che non ritenevano di lingua d’uso italiana, creando ulteriore malcontento e scontro con la popolazione locale.

Come si è dipanato da parte delle popolazioni istriane il rapporto tra storia e memoria negli ultimi decenni?
Ho avuto la possibilità di intervistare molte famiglie degli esuli prima dell’istituzione del Giorno del ricordo e ho potuto riscontrare un cambiamento man mano che queste vicende diventavano di dominio pubblico a livello nazionale. Infatti, abbiamo assistito a un progressivo conformarsi delle diverse e complesse memorie sociali delle singole comunità dei profughi istriani a un’unica memoria nazionale, che ha in buona parte cancellato un aspetto importante del loro vissuto e cioè la difficile integrazione nel tessuto sociale italiano, l’isolamento durato per decenni, i pregiudizi, la diffidenza, l’incomprensione e non di rado l’ostilità della popolazione locale nelle diverse regioni in cui approdarono. La delusione e, a tratti l’astio, che molti degli esuli avrebbero provato nei confronti della “madrepatria” nei decenni successivi al loro arrivo in Italia (anche per l’insufficiente risarcimento economico per i danni subìti), sono stati mitigati dall’istituzione del Giorno del ricordo che ha svolto una funzione di compensazione tardiva per il mancato riconoscimento simbolico e materiale delle loro sofferenze nel dopoguerra. Dal 2005, anno in cui vi fu la prima celebrazione del Giorno del ricordo, i profughi giuliano-dalmati hanno conquistato uno spazio significativo e visibile nella memoria pubblica italiana, emarginando o rimuovendo una parte importante della (loro) storia, quella non funzionale alle nuove narrazioni nazionali. Ed è proprio in questa nuova memoria nazionale che possiamo individuare alcuni aspetti problematici riguardo alle riletture della Seconda guerra mondiale, in cui l’Italia e gli italiani si percepiscono esclusivamente come vittime (prima della Germania nazista, poi della Jugoslavia comunista) e mai come responsabili e perpetratori di una sciagurata politica fascista di espansionismo e di oppressione. Inoltre, nello spazio pubblico si è progressivamente imposta una particolare forma di discorso nazional-patriottico relativo al “confine orientale”, attraverso una vulgata italocentrica e intrisa di pregiudizi e stereotipi antislavi, che nulla hanno a che vedere con quella complessità a cui si riferisce il testo della legge con cui è stato istituito il Giorno del ricordo.

Mila Orlić è professoressa associata al Dipartimento di storia, Università di Rijeka/Fiume (Croazia). Si occupa delle forme e delle ideologie del potere comunista in Jugoslavia e del rapporto tra storia e memoria, degli spostamenti di popolazione dall’Istria nel secondo dopoguerra e, più in generale, di storia sociale nelle borderlands. Ha scritto, con Boris Pahor, Tre volte no. Memorie di un uomo libero (Rizzoli 2009). È nata a Virovitica (in Jugoslavia, e oggi in Croazia), ha vissuto a Modena (dove ha frequentato la scuola, l’università e il dottorato di ricerca) e da quindici anni vive a Trieste con la sua famiglia.

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