
Attorno a questo interrogativo Michela Marzano costruisce l’impianto narrativo del suo ultimo libro Idda, dove memoria, identità e sentimenti viaggiano in parallelo verso un’unica destinazione: il passato. Un passato di cui le due protagoniste del romanzo sono orfane, poiché una vuole dimenticarlo e l’altra lo dimentica, ma non per sua scelta.
Incapace di sopportare l’insostenibile peso dei ricordi legati a una tragica vicenda famigliare, Alessandra decide di abbandonare il Salento per trasferirsi a Parigi e insegnare biologia vegetale all’università. Studia le piante perché sono organismi autotrofi, capaci di produrre da sé le sostanze di cui necessitano. «Le piante non hanno bisogno di nessuno. Niente legami, niente relazioni, niente di niente», proprio come lei. Non crede nella famiglia, non vuole avere figli e accetta solo l’amore del suo compagno Pierre.
Quando la madre di Pierre, Annie, inizia a perdere progressivamente la memoria a causa di una malattia neurodegenerativa, Alessandra comincia a mettere tutto in discussione. Prendendosi cura dell’anziana donna, ricoverata in una clinica parigina, si riscoprirà nuovamente figlia e pronta ad affrontare un percorso di riscoperta di sé che spalanca le porte al passato. È proprio attraverso “idda” (lei in dialetto pugliese), ovvero Annie, che Alessandra si ritroverà ad affrontare questioni sepolte da tempo e che adesso premono per tornare a galla.
Ora che la memoria di Annie è uno sfacelo, proprio come il suo appartamento, Alessandra avverte la necessità di «classificare, ordinare e raggruppare» le cose e gli eventi del passato di questa donna. All’interno della casa parigina della suocera, «fra pacchi di zucchero e soprammobili, piatti e scarpe, medicine e scatolette di tonno», Alessandra ritrova alcune lettere che l’anziana donna e suo marito Jean si scrivevano quando Pierre era poco più di un bambino. Da questo carteggio vien fuori un’immagine di Annie ben diversa da quella che Pierre ha di sua madre: «Non ricordo di aver mai visto i miei scambiarsi una tenerezza o anche solo guardarsi con amore.»
La ricostruzione del passato di Annie va di pari passo con il desiderio recondito di Alessandra di tornare a rimettere in piedi anche il suo di passato, fatto a pezzi non da una memoria claudicante, ma dalla sua stessa volontà di recidere ogni legame con la propria famiglia e con la propria terra, il Salento, in seguito alla tragica scomparsa della madre.
A segnare la svolta è il momento in cui, durante una lezione all’università, Alessandra al posto della parola “raisin” (uva) pronuncia “ua”, termine tipicamente salentino che scatena in lei una serie di ricordi. Così il passato irrompe inaspettatamente nella sua quotidianità proprio per mezzo di quella lingua che aveva voluto dimenticare: non l’italiano, ma il proprio dialetto.
Dopo tanti anni di assenza, accompagnata da Pierre, Alessandra decide di ritornare in Puglia per confrontarsi con suo padre, responsabile secondo lei dell’incidente stradale di cui è rimasta vittima sua madre, e per riscoprire se stessa.
«Nelle stanze disabitate del palazzo, Pierre e io entriamo dal vicolo. Il soffitto sta cedendo, i vetri delle finestre sono rotti, per terra ci sono cumuli di calcinacci. […]. Resto in silenzio, non riesco a muovermi, gli occhi pieni di lacrime. Le mura sono scrostate, i pavimenti rovinati dall’umidità, è una desolazione. Fisso l’angolo dov’era il mio letto – quante sere mamma si è seduta accanto a me per raccontarmi una fiaba, quante notti ha vegliato al mio capezzale quando avevo la febbre, posandomi un panno umido sulla fronte e accarezzandomi le guance arrossate.»
Riallacciare i ponti con il passato e recuperare brandelli di memoria, portano autrice e protagonista a porsi delle domande: «Cosa resta di noi quando non ricordiamo più il nostro nome, quando non ci riconosciamo più guardandoci allo specchio, quando la demenza senile ha mangiato il nostro passato? Chi siamo quando interi pezzi della nostra esistenza scivolano via?»
Quello che resta di noi alla fine è la nostra affettività, che spesso diamo per scontata, perché siamo essere razionali e maniaci del controllo. Ciò che ci rende quello che siamo in realtà, sono proprio i «residui del sé» di cui parla la dottoressa che ha in cura Annie, ovvero resti organici di una vita vissuta e digerita, proprio come i sentimenti. Perché quando memoria e coscienza vigile se ne vanno, c’è sempre qualcosa che resta: l’amore.
Federica Nitti