“I Volsci. Un popolo “liquido” nel Lazio antico” di Massimiliano Di Fazio

Prof. Massimiliano Di Fazio, Lei è autore del libro I Volsci. Un popolo “liquido” nel Lazio antico edito da Quasar: innanzitutto, chi erano i Volsci?
I Volsci. Un popolo "liquido" nel Lazio antico, Massimiliano Di FazioSarebbe facile rispondere che i Volsci erano una delle tante culture che popolavano l’Italia prima della conquista romana; ma si tratta di una situazione un po’ più complessa. Se infatti di alcuni di questi popoli (su tutti gli Etruschi, ma anche i Sanniti) abbiamo tutto sommato parecchie informazioni, altri sono molto poco conosciuti, al punto che in alcuni casi si fa addirittura fatica a circoscrivere un popolo in maniera sufficientemente certa. Eppure alcuni di loro ebbero un ruolo molto importante nelle vicende storiche dell’Italia antica. I Volsci, insieme agli Equi, dopo essere calati nel Lazio meridionale probabilmente tra VI e V secolo, diventano avversari “quasi quotidiani” (così li descrive una fonte antica) della nascente potenza romana: non a caso la loro memoria rimane per secoli viva nell’immaginario romano, come è dimostrato dalla presenza in quell’eccezionale antologia della cultura e della storia romane che è l’Eneide, dove (ricordiamo tutti) l’eroina Camilla è appunto figlia del re volsco Metabo. È dunque incredibile che non esistesse ancora un’opera di sintesi su di loro. Anche se devo dire che mentre lavoravo al libro ho iniziato a capire il motivo di questa lacuna, dal momento che è stato molto difficile mettere insieme un quadro di questo popolo in base alle informazioni disponibili…

Quali testimonianze abbiamo su di loro?
Ovviamente le fonti letterarie in primis. Considerato il loro ruolo di nemici di Roma, diverse fonti (Livio e Dionigi d’Alicarnasso soprattutto) li ricordano in eventi bellici. Anzi, questo è uno dei problemi con i quali ci si deve misurare: quasi tutte le informazioni sui Volsci nelle fonti antiche riguardano fatti di guerra, e mai aspetti sociali, religiosi, economici. Di conseguenza ne ricaviamo un’immagine parziale, e di parte. D’altro canto, abbiamo la cultura materiale. A differenza degli Etruschi e di altre culture dell’Italia antica, i Volsci non spiccano per pregio delle testimonianze artistiche o per monumentalità dell’architettura. Quel che ci è rimasto sono perlopiù sepolture piuttosto semplici, scavate nella nuda terra, caratterizzate da corredi funerari privi di oggetti di spicco; e in alcuni casi, risulta anche difficile individuare una cultura materiale a cui si possa applicare l’etichetta “volsco”. Eppure anche in un panorama apparentemente così poco significativo troviamo aspetti di grande interesse. Gli scavi dell’antica Satricum (vicino l’odierna Latina), che vengono portati avanti da decenni ormai da un’équipe olandese, hanno rivelato una comunità vivace, organizzata in nuclei familiari, che si appropria -in maniera un po’ maldestra- della preesistente città latina ma la fa sopravvivere mantenendo tra l’altro in auge il grande tempio di Mater Matuta. In più, i Volsci di Satricum, a contatto (probabilmente pacifico) con i Latini, “scoprono” il consumo del vino nelle sue forme più raffinate, iniziando ad utilizzare ceramiche tipiche del modello culturale del simposio.

Come erano organizzate la società e la religione dei Volsci?
Purtroppo su questi aspetti non abbiamo informazioni adeguate, ma la distribuzione delle tombe nelle necropoli lascia intravedere una società strutturata in gruppi più o meno ristretti di stampo “clanico”: una volta si sarebbero dette “tribu”, ma oggi in ambito antropologico si preferisce evitare quest’etichetta, e parlare ad esempio di “società segmentaria”. Colpisce tra l’altro la presenza di tombe infantili insieme a quelle di adulti, una pratica che era sconosciuta alle contemporanee culture latine, e che probabilmente suggerisce ancor di più quanto fosse forte e cruciale il nucleo familiare come elemento cardine della struttura sociale. L’assenza di corredi particolarmente ricchi fa pensare che non vi fossero forti differenziazioni sociali (anche se sappiamo quanto sia rischioso dedurre conclusioni sull’ordinamento sociale partendo solo dai dati dell’archeologia funeraria, che possono essere fuorvianti). Si tratta verosimilmente di comunità in cui l’attività bellica era molto importante sia a livello economico, ma anche sul piano sociale; allo stesso tempo però questa rilevanza dell’elemento bellico non va esagerata, e probabilmente la rarità di armi nelle sepolture volsche deve indurci a pensare che non era quella del guerriero l’immagine che i Volsci avevano e volevano dare di se stessi. Sul piano religioso abbiamo ancor meno indizi, dal momento che non conosciamo santuari o luoghi di culto attribuibili esclusivamente a questa cultura. D’altronde, è sempre più chiaro che la religione nel mondo dell’Italia antica era fenomeno fluido, ricco di influenze reciproche, e non avrebbe molto senso parlare di divinità “volsche” nettamente distinte da quelle di altri popoli dell’Italia centrale.

Che lingua parlavano i Volsci?
La lingua, come sapevano già gli antichi, è un elemento importante nella formazione di un’identità culturale. Nel caso dei Volsci si tratta di un elemento importante, anche se va sottolineato che al momento possiamo attribuire loro con qualche certezza un solo documento scritto. Già questo dato comunque è significativo, perché suggerisce che abbiamo a che fare con una cultura che non sente particolare bisogno di ricorrere allo strumento scrittorio per la sua organizzazione: questo, in generale, è considerato indice di una struttura sociale non troppo complessa. Il documento in questione è un’accetta miniaturistica in piombo, rinvenuta in una tomba di Satricum e datata alla metà del V secolo. L’iscrizione è breve e di difficile interpretazione: gli studiosi hanno formulato diverse proposte, anche se al momento nessuna appare risolutiva. Ma è importante notare che il sistema scrittorio e linguistico rivela affinità con le lingue dell’Italia centrale, della Sabina e dintorni: si tratta dunque di una conferma della provenienza dei Volsci da quell’area. Ma per avere un’idea più chiara della lingua volsca dovremo aspettare qualche altra scoperta, magari dalla stessa Satricum o dagli scavi in corso in alcune aree della provincia di Frosinone. Va anche detto che nei manuali di solito è attribuita al volsco la celebre Tavola di Velletri, una lamina bronzea rinvenuta nella città laziale nel XVIII secolo: in realtà, a mio parere, in questo caso si tratta di un documento che per una serie di motivi storici e linguistici non può essere ricondotto ai Volsci.

Quali vicende segnarono la storia dei Volsci?
Nel mio libro ho proposto una ricostruzione complessiva della vicenda dei Volsci che è per sommi capi questa. Nel corso del VI secolo, gradualmente, gruppi umani si muovono dall’Italia centrale appenninica verso sud, e seguendo le valli fluviali del Sacco e del Liri fanno irruzione nel Lazio meridionale. Qui la loro storia si diversifica: in alcuni casi la loro irruzione dovette essere violenta con conseguente conquista dei centri preesistenti; in altri casi, sembra di poter intravedere una situazione di convivenza più o meno pacifica tra diverse culture. Risaliti poi verso la linea Anzio-Satricum, da lì i Volsci insidiano Roma, interessati senza dubbio più a scorrerie e razzie che a improbabili propositi di conquista. Il contrasto con Roma è però difficile da sostenere alla lunga, specie per gruppi non particolarmente coesi. A complicare la situazione intervengono poi i Sanniti, che nel corso del IV secolo premono con forza sul Lazio meridionale: i Volsci si trovano così schiacciati tra due potenze militari nettamente superiori, e finiscono per perdere consistenza ed autonomia. Gli ultimi fuochi di paglia si colgono nei decenni finali del IV tra Priverno e Fondi, dove Vitruvio Vacco, singolare figura di avventuriero, prova a guidare una rivolta antiromana facendo una brutta fine. I Volsci ormai, come leggiamo nelle fonti, hanno più attitudine alla ribellione che alla guerra.

Quale immagine emerge dunque dalla ricerca storica sui Volsci?
Una delle novità del mio libro è il tentativo di analizzare in maniera separata la documentazione letteraria e quella materiale. Ebbene, è interessante notare come le fonti letterarie, ovviamente greche e soprattutto romane, restituiscano dei Volsci l’immagine di un popolo bellicoso, aggressivo, dedito a razzia, mentre la cultura materiale permette di avere un’immagine sicuramente meno dettagliata ma senza dubbio più sfumata, da cui i Volsci emergono come gruppi più o meno relazionati tra loro, pienamente immersi nel contesto culturale del Lazio meridionale, al quale pure non appartenevano originariamente. Questo ci permette peraltro, a livello più generale, di sottolineare che l’Italia antica era caratterizzata da una forte mobilità a vari livelli: di singoli, di gruppi, di intere popolazioni. E questa mobilità aveva ovviamente conseguenze sul piano culturale: nessuna comunità antica era un comparto stagno, ma anzi le influenze reciproche potevano essere anche piuttosto forti, e i casi di pacifiche convivenze tra diverse comunità non erano rari. Ciò costituisce allo stesso tempo un problema ma anche una ricchezza. Un problema per lo studioso, perché rende difficile circoscrivere con esattezza i confini di una cultura da descrivere, poiché troppe sono le sfumature e le sovrapposizioni: ciò impone allo studioso una serie di riflessioni sul concetto stesso di identità di un popolo, un concetto che è sempre più fluido di quanto si possa pensare. È questo uno dei motivi per cui ho scelto di chiamare in causa la categoria sociologica (oggi fin troppo di moda) di “liquido”: un popolo “liquido” è quello che nel suo muoversi e soprattutto nel suo entrare in contatto con diverse altre culture si modifica, supera i vecchi e consolidati modi di strutturazione sociale e diventa qualcosa d’altro. Si tratta in fondo di una caratteristica che, se da un lato complica il lavoro dello studioso, d’altro canto rende ancor più affascinante lo studio delle realtà dell’Italia antica. E forse, tutto sommato, ne fa anche un elemento di riflessione per i tempi in cui viviamo.

Massimiliano Di Fazio insegna Archeologia dell’Italia preromana presso l’Università degli Studi di Pavia

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