
Questo è un novum del libro che riattraversa grandi testi del canone occidentale (e non solo), facendoli però “deflagrare”, avvolgere, attraversare, persino “frullare”, se mi è permessa la metafora un po’ irriverente, dallo sguardo potente, geniale, sovvertitore, comico, immaginoso, vivace, ma anche doloroso e sempre intenso dei piccoli. Il tutto però costruendo un libro per i “grandi”, cioè per un lettore adulto, maturo, che è chiamato a riattraversare questo universo e in qualche modo a rincontrarlo, soffertamente e gioiosamente, in se stesso e nella sua vita.
Come accennavo, l’Orestea non è l’unico classico “ribaltato” dai bambini qui dentro. Il titolo dell’opera, tra gli altri, richiama sicuramente James Joyce, con cui istituisce un serrato confronto, serio e comico: I Vivi alludono a The Dead/I Morti, l’orestea bambina all’Ulisse, che uscì 100 anni prima: 1922-2022. I Vivi sono una ambiziosa e in parte “folle” risposta (speriamo di follia buona, bambina appunto) al capolavoro joyciano, persino con tracce dell’ultimo monstrum dell’irlandese: il temibile ed enigmatico Finnegans Wake.
Ma, come dicevo, se al centro sono loro, i bambini, i giovanissimi, bisogna accettare di entrare in un’altra possibilità del mondo, in un altro modo di vivere e di leggere. E così i miei protagonisti, che sono ragazzini sensibili, svegli, vivi, dalle immaginazioni accese, non troppo assuefatti, addomesticati e normalizzati dalla tecnologia, dai videogiochi, dai social (anche perché il primo romanzo almeno è ambientato negli anni ’80), ma splendidamente spontanei e “selvaggi” nel loro percepire, trasformano ciò che toccano, vivono e leggono. Così ad es, anche l’Odissea, la Commedia di Dante, il Faust, ma insieme altri autori come Jules Verne, Mark Twain ecc, si mescolano ai fumetti, ai cartoni animali, alle musiche pop amate, in un calderone ribollente e magico.
Attraverso tutto questo, credo, si entri nella trama filosofica e sapienziale del libro, di cui voi mi chiedevate, anche perché, vorrei sottolineare molto questo, i bambini qui dentro non rappresentano soltanto un’età cronologica, che pure tutti abbiamo attraversato e che in qualche modo non dovrebbe morire in noi. I bambini simboleggiano anche un archetipo folgorante, quello del puer, e così un’istanza interiore e mistica, uno stato di coscienza altro. Non è tanto un discorso storico, almeno nel senso proprio del termine: penso ad es. a Philippe Ariès, il quale ci ha mostrato come nel medioevo non esistesse, almeno sotto certi punti di vista, il sentimento dell’infanzia, che nasce nella modernità. E poi, soprattutto dal ’700, la categoria dell’infanzia diventa da una parte emancipatoria, ma dall’altra un nuovo pascolo di conquista: il bambino va reso “adultizzato”, va fatto entrare nel sistema, va “addomesticato”. No, non è questo che mi interessa e neppure certo questa categoria e declinazione dell’infanzia. Qui piuttosto i bambini sono un’età dell’umanità, come ci spiega Vico nella Scienza Nuova: esiste l’età degli dèi, degli eroi e poi quella degli uomini. La nostra, adulta, è sempre più “confinata” nella terza età e nella «barbarie della riflessione» per usare le parole vichiane, ma il geniale filosofo napoletano ci ricorda che gli uomini delle prime età erano sublimi poeti-fanciulli. Il bambino ne I Vivi rappresenta quindi proprio un’ontologia essenziale, una possibilità di essere, ancestrale, antica e arcaica, pure storica (ma non prigioniera del mito della storia), quasi originaria che, se non è l’unica, in alcun modo può essere dissipata e dispersa. Potrei citare anche Leopardi, quando parla della «doppia visione» dell’infanzia e quando scrive, genialmente, nello Zibaldone: «Di questo bello aereo, di queste idee abbondavano gli antichi, abbondano i loro poeti, massime il più antico cioè Omero, abbondano i fanciulli, veramente Omerici in questo, […] gl’ignoranti ec. in somma la natura». Ecco i bambini ne I Vivi sono omerici e anche Omero (con Eschilo, Dante ecc.), attraverso soprattutto la loro percezione, è un immenso poeta-bimbo: così l’immaginazione non è una fantasima stordente, ma è parte cruciale della realtà ed è un sesto senso, più sottile, da preservare e coltivare. Forse anche questo significa essere “vivi”?
Fare esperienza del mondo de I Vivi vorrebbe essere un entrare anche in una qualità di tempo diverso, non solo cronologico. Quasi che il tempo sia proprio la quarta dimensione della trilogia. Scelgo volutamente di essere allusivo. E vi invito al viaggio dentro la “bambina commedia”…
Nel romanzo, i giochi, le amicizie, le avventure e le passioni dei piccoli protagonisti si scontrano con il mondo cinico e spesso indifferente degli adulti: in che modo gli adulti talvolta soffocano la genialità dell’infanzia?
Questa domanda è fondamentale, perché tocca uno dei centri di questo libro per altro “policentrico”. Naturalmente I Vivi aspirano ad essere un’opera d’arte, non sono un libro didascalico, un trattato d’insegnamento, o un volume di pedagogia. Questi temi piuttosto attraversano il volume, lo striano, vi affiorano e vi s’infondano. Potrei dire così, semplificando molto, che nella trilogia si distinguono soprattutto due categorie di “adulti”: l’adulto-Erode e l’adulto che sa mettere al centro il bambino, come fa in un testo straordinario del Vangelo di Marco, il Cristo stesso (visto qui più come simbolo, che come istanza confessionale!). Ecco allora gli Erode che sterilizzano, perseguitano, ma anche uccidono (simbolicamente e non) il bambino – con tutta la portata ontologica di cui parlavo sopra –, che perpetrano anche stragi degli innocenti. I Vivi sono pure attraversati da questi “fiumi rossi” di piccoli sacrificati alla ragione adulta, e spesso ad un sistema omicida e distruttivo. I piccoli diventano vittime dei giochi di potere dei grandi, nell’antichità, ma forse ancora di più oggi, nel capitalocene, nell’eone del Capitale, che sacrifica le vite, spesso quelle in fiore, dei piccoli, dei giovani, ma anche degli animali, della natura, per crescere lui solo a dismisura. Ne I Vivi c’è anche quest’anima politica. E così Salvatore, il professor Vismara, talvolta certe figure parentali dei primi due romanzi, o i potenti dell’epoca entrano, in un modo o nell’altra, in questa desertificazione quando non nella mattanza. Nella trilogia però emerge un’altra figura di adulto, come ad es. quella del prof. Scaligeri, di padre Antonio, del vecchio Gioacchino, di Giovanni, il papà del piccolo Elia dell’ultimo romanzo, che invece sanno essere maestri, guide sicure dei piccoli, ma pure a loro volta si fanno ammaestrare. Auscultano. Sanno che lì, in quella misteriosa, ardente e insieme fragile figurazione di bimbo, sta un seme d’oro, una forza di essenza, una potenza di risveglio. Intuiscono che i bambini sono, spesso, più “reali” e integri, più desti, pur nella loro incompletezza, degli adulti. Si ricordano, consapevolmente o meno, che the Child is the Father of the Man, come scriveva Wordsworth.
Le generazioni, il mondo dei vivi e dei morti, non si succedono una dopo l’altra ma convivono: come influenzano le nostre vite i “demoni e gli angeli” delle stirpi?
Magnifica domanda! Qui I Vivi prendono sul serio l’Orestea di Eschilo che parla della catena dei morti, del sangue che chiama sangue, dell’irretimento nei vortici delle Furie, della vendetta, del massacro, che coinvolge anche padri e madri, figli e figlie, mariti e mogli, e oltre ancora. Certo queste Furie possono essere volte in Eumenidi, e i demoni possono essere girati in divinità benigne. Ma bisogna scendere agli inferi, attraversare i marosi, gli abissi, e risalire, come insegnano i miti, come fece Dante, come ha fatto il Cristo nel suo descensus ad inferos. Ecco, per cercare di rispondere meglio alla vostra domanda, bisogna anche considerare questo: I Vivi sono pure una misteriosa saga familiare: non classica come i Buddenbrook, i Malavoglia, i cicli di Zola ecc.: piuttosto i personaggi si travasano e “trasmisgrano” da un romanzo all’altro. Si potrebbe forse citare il ritorno dei personaggi della Comédie humaine balzachiana, ma qui è soprattutto protagonista la dimensione del tempo vissuto non linearmente. Ad es. Vivi è il cognome di una famiglia e di alcuni personaggi della trilogia, ma “i vivi” sono anche i viventi, tutte le stirpi, in perenne metamorfosi e passaggio. Elia è un nome continuamente rievocato nel romanzo: il protagonista del primo romanzo è Stefano, ma fa Elia di secondo nome, e Elia si chiamano i due ragazzini del secondo e del terzo romanzo, pur non essendo la stessa persona… Insomma, quasi un penetrare nel vasto mistero di generazioni di generazioni… Potrei anche dire così: I Vivi sono un’unica opera che racconta la mitologia infantile – comica e giocosa – di tre decenni (anni ’80, ’90 e terzo millennio) attraverso tre romanzi, distinti ma non separati, uniti ma non confusi, con i loro rispettivi personaggi-bambini. Una saga familiare, ma anche umana, costruita su stirpi e metamorfosi, genealogie, metempsicosi e trasmigrazioni. E forse anche noi siamo chiamati a riconoscerci non solo nella famiglia biologica, ma in una più grande, che non segue solo la legge del sangue, cioè nella grande famiglia dei viventi?
Dentro questo ampio e vasto paradigma, ma posso solo accennare, i personaggi del libro fanno esperienza che i vivi e i morti sono interconnessi, che gli uni influenzano gli altri e viceversa, che la vita comprende e contiene la morte. Che i vivi spesso non vivono e i morti sono vivi e non riescono a morire come vorrebbero e a vivere una vita nuova. Che gli invendicati, i morti male pesano sui vivi, che i mondi visibili e invisibili si intrecciano e non sono l’uno dopo l’altro, ma coesistono. Entrare in questa consapevolezza significa anche sapere riconoscere le Erinni e forse iniziare ad invocare e desiderare quell’alchimia, che pure richiede sforzo, perché le furie diventino eumenidi….
Quale valenza educativa assume la vicenda di Stefano?
Da una parte, ancora una volta, rivendicherei la libertà dell’arte, che non necessariamente deve educare, ma evocare, aprire ad altre visioni, scandagliare profondità, far crescere, ma verso il fondo, non solo verso l’esterno. Dall’altra la domanda è molto opportuna, perché I Vivi credono anche ad un’arte che vuole essere un’esperienza trasformativa e potente, una sorta di nuovo «immense et raisonné dérèglement de tous les sens», anche per chi legge. Non voglio troppo indirizzare i lettori, per lasciarli liberi di avventurarsi nei pluriversi della trilogia, trovando i loro sentieri sapienziali. Ma pure non mi sottraggo ad indicare alcune suggestioni. Così ne I Vivi il tema dell’iniziazione è importante. Ciascuno dei ragazzini protagonisti entra in una dimensione di profondità della vita, meravigliata ed abissale. Per due di essi l’arte sarà la principale risposta: diventeranno artisti, scrittori, sulla scia di una dedizione all’arte come quella che Joyce racconta nel suo Portrait, due nuovi giovani Stephen Dedalus, simili, ma anche molto diversi, perché affascinati dalla catena dei mondi, concentrici, l’uno dentro l’altro. L’arte de I Vivi vive della lezione del romanzo tradizionale ottocentesco, volendo recuperare una certa leggibilità, ma dall’altra incontra la grande esperienza modernista, che ha genialmente dissolto il romanzo tradizionale. I Vivi però imboccano una terza via, che sappia integrare e raccogliere i frammenti. E sono anche un testimone, pure sofferto, di un’arte antica, oggettiva, che prova, per luccicanze e barbagli, a raccontare varchi, a essere una soglia verso distese grandi e luminose, dove il genio bambino torni a risplendere, sia onorato e coltivato, in una polifonia di strutture di coscienza.
Gianni Vacchelli è narratore, saggista e docente. Tra i suoi libri più recenti: La stella dell’orso (2019), Dante e l’iniziazione femminile (2020), L’inconscio è il mondo là fuori (2020), Manitas (2022).