
Quale compromesso adotta, tra le opposte esigenze di divulgazione e specialismo, il Suo libro?
Il libro è stato ideato come un saggio, non come un lavoro divulgativo né come un contributo rivolto ai soli specialisti. La divulgazione comporta una semplificazione dei problemi e lascia chi legge a una certa distanza dagli oggetti: li può guardare ma non toccare; la scrittura specialistica si rivolge invece agli addetti del settore, dando per scontata una quantità di conoscenze su cui può semplicemente sorvolare. La forma del saggio mira a rendere il lettore partecipe del lavoro del ricercatore, attribuendogli al tempo stesso un ruolo attivo, per esempio mettendolo davanti a scelte e decisioni: chi legge è invitato a toccare oltre che a guardare. Ma, se si riflette, questo è esattamente il tipo di procedimento seguito nella pratica dell’insegnamento. È per questo motivo che i destinatari del libro sono facilmente identificabili: sono da un lato quelli che nella tradizione editoriale italiana vengono chiamati i lettori colti, a cui aggiungerei i lettori curiosi, onnivori, ‘trasversali’ (per esempio chi si occupa di altre lingue e letterature o di storia); dall’altro quanti vogliano dedicarsi allo studio specifico della materia.
Quali vicende segnano la storia esterna della poesia trobadorica?
Anzitutto, la poesia dei trovatori è parte della più vasta letteratura in lingua d’oc, che comprende altri generi (narrativa, trattatistica, opere religiose), anche se presenta, all’interno di essa, dei caratteri particolari. Il più vistoso è che è perfino improprio definirla una produzione letteraria, perché la nostra nozione di letteratura è legata alla scrittura e alla circolazione dei testi mediante il libro, mentre le canzoni dei trovatori circolavano in forma orale, cantata appunto, ed erano accompagnate da elaborate melodie che gli autori, musicisti oltre che poeti, creavano. Il nome stesso di trobador viene da trobar, forse da un verbo latino (non documentato) tropare ‘comporre un tropo, un’aria aggiunta a un brano liturgico’, quindi ‘rinvenire’ (in accezione comune) e ‘comporre’. Il verbo trobar significa comporre sia le parole (motz) che la melodia (son).
Strumenti viventi della diffusione delle loro canzoni, principalmente nelle corti feudali, erano i giullari (a volte interi nuclei familiari: joglar, joglaressa, joglarets). Questo tipo di poesia è quindi legato a un ambiente sociale preciso e al mecenatismo dei signori che ospitavano poeti e giullari durante le loro tournée. Questo mondo viene messo in crisi e alla fine spazzato via dalla crociata contro gli albigesi, bandita nel 1208 da Innocenzo III e guidata da Simon de Montfort alla testa di truppe prevalentemente settentrionali. La repressione dell’eresia assunse nel corso dell’intero secolo la portata di un genocidio. Nel 1229 con il trattato di Parigi il re di Francia ottiene gran parte dei territori meridionali tolti al conte di Tolosa Raimondo VI, accusato pretestuosamente di tolleranza nei confronti degli eretici, mentre pochi anni dopo i domenicani vengono messi a capo del tribunale dell’Inquisizione. I paesi di lingua d’oc diventano una provincia dei re capetingi e con la perdita dell’autonomia comincia il declino culturale, che si accompagna all’oscurantismo religioso. Solo le piccole corti erano riuscite ad attrarre, fino alla fine del secolo, i trovatori, mentre i più fortunati emigravano verso le corti iberiche e italiane. È appunto ‘all’estero’ che la loro opera vive una nuova vita. A iniziare dalla metà del XIII secolo i testi vengono trascritti ordinatamente e raccolti in grandi e preziose antologie (i canzonieri), corredate talvolta di miniature e della notazione musicale: dall’oralità passano alla scrittura, dal canto al libro. La maggior parte dei canzonieri (un centinaio in tutto) è allestita in Italia (una cinquantina), gli altri in Francia (cioè nella parte settentrionale dell’attuale Francia) e in Catalogna; solo una ventina provengono dalle regioni di lingua d’oc. Ci sono giunti circa 2550 componimenti di circa 460 trovatori (circa 250 testi sono senza attribuzione); le melodie conservate sono circa 260. La letteratura in lingua d’oc sopravvive ai trovatori come produzione regionale e, passando per il felibrismo (Mistral), arriva fino ai giorni nostri, anche se non è riuscita a raggiungere lo stesso prestigio conquistato invece, a partire dalla fine dell’Ottocento, dalla letteratura catalana.
Quello che qualcuno ha chiamato il ‘movimento’ dei trovatori ha avuto dunque un’esistenza di due secoli, un periodo relativamente breve per una tradizione che consideriamo capitale. La sua fine è dovuta alla modalità di diffusione dei testi, legata a un tessuto sociale irripetibile; ma è proprio grazie a questa modalità, fragile ma efficace, che le canzoni dei trovatori hanno avuto una circolazione immediata: dei professionisti dell’intrattenimento le hanno portate in giro per l’Europa con una rapidità sconosciuta al libro, innescando ovunque un processo di emulazione. Riproducono il modello, quasi sempre con tratti originali, i trovieri francesi, i Minnesänger tedeschi, i trobadores galego-portoghesi, i poeti della Scuola siciliana, i più tardi poeti lirici catalani (del Tre e del Quattrocento).
Che lingua adoperano i trovatori?
La lingua dei trovatori è una varietà romanza a cui nel Medioevo i parlanti davano semplicemente il nome di lenga romana ‘lingua romanza, volgare’, in opposizione al latino. Noi oggi chiamiamo questa varietà, anche nella sua forma moderna, occitano, mentre altre denominazioni antiche sono, a ovest dei Pirenei, limosino, a est delle Alpi provenzale, a nord dell’area pittavino o guascone (nomi delle varietà più vicine, rispettivamente, alla Catalogna, all’Italia e alla Francia). Parlare di lingua provenzale o di letteratura provenzale, come tuttora si fa, è in effetti improprio, perché quella che Dante definiva lingua d’oc occupava una zona molto più estesa della contea di Provenza, all’incirca un terzo dello stato francese odierno. Il successo dell’aggettivo provenzale (già usato da Guittone d’Arezzo in accezione allargata) è dovuto ai letterati italiani, a cominciare da Bembo, e poi alla filologia tedesca dell’Ottocento. Occitano o occitanico è una formazione moderna (compare in francese, occitanique, nel 1803).
Non era una lingua unitaria ma si articolava in vari dialetti, con una fonetica che si avvicinava al francese verso nord e nord-est, al catalano verso ovest. Per esempio, la parola ‘canzone’ può assumere la veste di canso, con la –n finale (intervocalica in latino) che scompare come in catalano, o di chanson, con la c- palatalizzata davanti ad a, come in francese (sia in occitano che in francese antico il digramma ch era letto come il suono iniziale dell’it. ciarla, non come quello di scialo). Di fatto tuttavia i trovatori si sentono liberi di usare forme riconducibili a varietà diverse dalla propria, come dimostra l’analisi delle parole in rima, al riparo dalle manomissioni dei copisti. La lingua poetica è quindi una varietà sovradialettale, che può mescolare tratti fonetici e anche morfologici di dialetti diversi. Oggi il quadro linguistico della regione non è molto diverso da quello medievale, ma l’occitano non ha potuto sottrarsi al suo destino di lingua da secoli minorizzata, nonostante una recente percepibile ripresa culturale e lo spazio guadagnato nell’insegnamento scolastico e in alcune forme di comunicazione istituzionale.
L’occitano, grazie alla precoce romanizzazione dei territori, iniziata nel II secolo a.C., è forse la varietà romanza più vicina all’italiano, sicuramente più del francese e anche dello spagnolo. Le difficoltà principali possono venire dalla complessità dei testi e dalla variabilità delle grafie.
Quali elementi caratterizzano la poesia dei trovatori?
Al centro della poesia dei trovatori c’è la nozione di fin’amor, l’amore ‘fine, puro, sincero’, che trova espressione, soprattutto nelle prime generazioni di poeti, nella cosiddetta metafora feudale. La dama è vista dall’amante come un signore feudale a cui va prestato servizio, ma che ha a sua volta, verso il suo uomo, il suo servo (termini entrambi in accezione feudale, ‘vassallo’), il dovere di ricompensarlo. È perciò chiamata midons, probabilmente ‘(colei che è) a me signore’ (di rado al vocativo), dove dons viene dal latino dominus. Di qui l’uso di senhals (pseudonimi) anche maschili (Joglar, Bel Cavalier, Amic…). Si può osservare che in questo modo risultano invertiti i ruoli one up (uomo) one down (donna) della poesia d’amore dell’Antichità classica e, con qualche eccezione, dello stesso Medioevo latino. Anche socialmente la donna è superiore. Ne sono consapevoli le trobairitz: le poetesse rovesciano, com’è ovvio, il punto di vista (è la donna che chiede l’amore), ma non i piani sociali, sicché preferiscono un semplice cavallier o un piccolo feudatario a un grande signore. La dama occupa dunque un ruolo elevato e possiamo dare per scontato che disponga normalmente di un marito, a volte nominato in modo esplicito o alluso con l’epiteto di gilos.
Se i trovatori si servono della metafora feudale, l’amore stesso può essere considerato una metafora, trasformandosi in norma di innalzamento individuale e di comportamento, non solo nei confronti della dama ma dell’intera comunità. Sono questi i valori cortesi che gradualmente vengono fatti propri, all’incirca dalla fine dell’XI secolo, dalla nobiltà feudale, una classe di guerrieri violenti, incolti e dalle maniere tutt’altro che raffinate: il processo è testimoniato dai protagonisti dei romanzi, il nuovo genere nato alla metà del XII secolo che trasferisce nel vivo delle narrazioni e nella carne dei personaggi l’ideologia e le contraddizioni della fin’amor. La letteratura cambia le mentalità. Si ricordi comunque che per quanto fine e puro questo amore non va affatto inteso come angelico o sublimato o orientato verso il divino, a differenza di quello degli stilnovisti o della stessa tradizione del petrarchismo. Midons resta il costante oggetto del desiderio, la cui soddisfazione, tuttavia, è preclusa all’amante. Leo Spitzer, in un saggio famoso del 1944, parlò al riguardo di paradosso amoroso: l’amante mira a qualcosa di irraggiungibile, il joi (dal latino gaudium), la perfetta gioia, che può vivere solo nel ricordo o nell’attesa. I lettori dei trovatori avranno delle sorprese se pensano di addentrarsi in un Medioevo buio e bigotto: vi troveranno invece ironia, parodia, provocazione e trasgressione a dosi inimmaginabili.
Ma il loro corpus non consiste solo in canzoni d’amore, cioè nel genere della chanson in senso stretto. Una parte non piccola di componimenti è di materia morale, religiosa, politica. La velocità della diffusione dei testi ne fa un potente strumento di propaganda. In particolare i sirventesi si presentano come un genere di rapida produzione: con il procedimento del contrafactum si utilizza una melodia preesistente, meglio se molto diffusa e di successo, per veicolare un testo nuovo, di argomento completamente diverso. Questa è una delle poche eccezioni all’obbligo, da parte del trovatore, di dare una melodia e una forma metrica originali ad ogni canzone. In assenza del teatro profano, i generi dialogici propongono forme semplici di teatralità, che potevano coinvolgere nella performance due giullari o anche, nel genere della pastorella, presumibilmente un giullare e una giullaressa. A differenza di altre tradizioni volgari medievali, la poesia dei trovatori dispone di una gamma di modalità molto vasta e articolata (lettere d’amore, difese da un’accusa, tenzoni, satire, vanterie, canti di penitenza, albe religiose e profane, lamenti funebri, ecc.).
Quali sono le strutture metriche tipiche della poesia trobadorica?
Si parla comunemente di ‘lirica’ dei trovatori. Il termine è accettabile se ad esso si dà il significato di poesia accompagnata dalla musica (nell’antica Grecia dalla lira, appunto), non il significato più moderno di poesia affettiva, incentrata sulla soggettività. I componimenti dei trovatori sono il più delle volte questo, ma come abbiamo visto sono anche polemica, satira, dialogo, perfino racconto. In realtà quello che è comune all’intero corpus e a tutti i generi, fatta eccezione per un piccolo numero di testi in metro narrativo che probabilmente erano recitati, è la forma strofica.
Gli elementi costitutivi della versificazione sono il sillabismo (l’identità del numero di sillabe dei versi in una determinata sede) e la rima, che struttura la cobla (strofe o, con termine dantesco, stanza). Questi elementi ci sembrano scontati, dal momento che sono comuni a tutta la poesia europea, ma essi vengono introdotti o quanto meno elaborati e poi irradiati proprio dai trovatori. Il sillabismo e alcune forme rudimentali di rima erano già presenti nella poesia latina medievale, ma sono i trovatori che ne fissano le regole in maniera rigorosa, trasmettendoli non solo alle altre tradizioni romanze ma anche a quelle germaniche, che in precedenza si servivano di sistemi allitterativi.
La cobla è la cellula metrica, musicale e semantica della canzone (ha una sua relativa autonomia di significato). La melodia si ripete identica ad ogni cobla; così pure i tipi di versi e l’ordine delle rime, salvo variazioni regolate. Il numero delle coblas è variabile, ma in genere la lunghezza dei componimenti non supera, con grande approssimazione, le 500 sillabe (l’equivalente di una cinquantina di décasyllabes o di una sessantina di octosyllabes). Questa estensione si comprende meglio in termini di durata: l’autore doveva tenere conto delle capacità vocali dell’esecutore; e infatti i testi destinati alla recitazione, come i salutz (le lettere d’amore), sono molto più lunghi. La struttura interna della cobla è meno complessa di quella della stanza italiana, così come la conosciamo dai poeti della Scuola siciliana e dalla teorizzazione del De vulgari eloquentia. Nella cobla si individuano di solito due parti, nei termini di Dante fronte e sirma o coda, riconoscibili dalla diesis, ovvero il passaggio o stacco da una frase melodica e da una serie di rime a un’altra (per esempio, ababccdd, dove la diesis è tra il quarto e il quinto verso). Il corpus dei trovatori contiene tuttavia anche esemplari di canzoni che Dante chiama a oda continua, in cui non è percepibile nessuna articolazione (per esempio, ababab). È questo anche il caso della sestina di Arnaut Daniel (abcdef // faebdc, ecc.). L’oda continua, sestine a parte, non ebbe successo in Italia (un caso isolato è la canzone Verdi panni di Petrarca). Le canzoni erano normalmente concluse da una (o più di una) strofe finale, quasi sempre più breve, spesso rivolta a un destinatario o al giullare, detta fenida o tornada.
Quali problemi di interpretazione presenta la lirica provenzale?
I problemi che possiamo incontrare sono quelli comuni a tutti i testi che presentano un grado di differenzialità (il termine è di Contini) linguistica e culturale. Alla prima vengono incontro le traduzioni di servizio e i commenti: le traduzioni ‘poetiche’ dei trovatori non sono affatto facili e non sempre felici, ma questa difficoltà invoglia ad avere sotto gli occhi gli originali. La perdita maggiore riguarda la parte musicale: leggere questi poeti è un’operazione innaturale, perché andrebbero ascoltati e non letti. Attualmente, con gli strumenti multimediali a nostra disposizione e con l’aiuto della rete, possiamo almeno accompagnare la lettura all’ascolto, per le non moltissime canzoni di cui sopravviva la melodia ed esistano esecuzioni. La differenzialità culturale è quella che ci separa dal Medioevo, a cominciare dall’immaginario feudale. Tuttavia, negli ultimi tempi ci siamo sempre più avvicinati ai secoli nei quali la modernità affonda le sue radici, che forse sono perfino più vicini alla nostra sensibilità di epoche più recenti. Mi chiedo chi oggi sarebbe disposto a preferire la storia di Renzo e Lucia a quella di Tristano e Isotta. Come ho già detto, e nonostante la repressione contro gli eretici nel XIII secolo, questo Medioevo ignora l’integralismo religioso: il mondo dei trovatori, o il mondo cortese in generale, era secondo Stendhal dominato dalla gaieté, era così pieno di vita da riuscire ad attraversare la religione cristiana senza esserne alterato. A renderci più familiare il Medioevo c’è stato e c’è anche il cinema e la musica di interpreti come Georges Brassens, Fabrizio De André, Angelo Branduardi, in ultimo Vinicio Capossela, che in un disco del 2020 ha cantato su nuove melodie delle versioni italiane di due famose canzoni trobadoriche.
Come si sviluppa la dialettica tra trobar clus e trobar leu?
I trovatori in genere non miravano all’oscurità, non componevano in modo difficile e la loro lingua doveva essere alla portata del pubblico. Se c’è qualcosa che oggi non comprendiamo dipende di solito da informazioni che ci mancano. Poco dopo la metà del XII secolo, tuttavia, si confrontano due poetiche, quella del trobar clus e quella del trobar leu. Il trobar clus punta effettivamente a uno stile complesso e a una densità dei contenuti; punta inoltre, sembrerebbe con una sorta di arroccamento aristocratico, a una selezione del pubblico. Il trobar leu apprezza invece il successo popolare, diremmo oggi, garantito da composizioni comprensibili e cantabili. I termini esatti della polemica, che non fu di lunga durata, ci sfuggono. Un’interpretazione è che il trobar clus prenda a modello la poetica di Marcabru, un trovatore moralista del secondo quarto del secolo che aveva fatto proprio il paradigma biblico della pluralità dei sensi, trasferendo questo modello su un piano mondano, cortese. Il maggiore esponente del trobar clus fu Raimbaut conte di Orange (Aurenga in occitano), morto meno che trentenne nel 1173. Ma l’etichetta di trobar clus ha poi una storia critica a parte: è stata infatti applicata, in maniera poco fondata, a trovatori formalmente ricercati, come Arnaut Daniel (e per estensione perfino ad alcuni poeti toscani del Duecento e al Dante petroso), nei quali però manca qualsiasi tensione ideologica relativa alla problematica cortese, presente invece nella scelta stilistica di Raimbaut d’Aurenga. Un episodio curioso di questo malinteso riguarda la ripresa dell’idea di trobar clus da parte di Louis Aragon: come scriveva nel 1941 in una rivista della Resistenza francese che si pubblicava ad Algeri, il trobar clus di Arnaut Daniel doveva diventare l’arma espressiva dei poeti durante l’occupazione nazista della Francia.
Quali sono i più autorevoli rappresentanti della tradizione trobadorica?
Dante preferiva Arnaut Daniel come poeta d’amore, Giraut de Borneil come poeta morale e Bertran de Born come poeta delle armi. Ma le stelle di questa tradizione sono moltissime e vanno dal primo trovatore a noi noto, Guglielmo di Poitiers, un potente signore feudale, geniale, istrionico, disincantato nelle sue parodie che rovesciano i valori cortesi, ma anche poeta delicato e raffinatissimo, fino all’ultimo importante trovatore, il narbonese Guiraut Riquier, considerato come l’inventore del canzoniere d’autore (i suoi componimenti formano una storia, una narrazione, come avverrà nella Vita nuova e nei Rerum vulgarium fragmenta), passando per personalità di grande o eccezionale rilievo come Jaufre Rudel, Marcabru, Bernart de Ventadorn, Raimbaut d’Aurenga, Raimbaut de Vaquieras, Peire Vidal, Peire Cardenal, Cerveri de Girona. Ciascuno di questi poeti ha una forte individualità, a smentire il luogo comune di una letteratura medievale ripetitiva e fatta di luoghi comuni. Un capitolo a parte occupano le trovatrici: a differenza della cultura clericale, la nuova poesia volgare si rivolge anche al pubblico femminile delle corti, e infatti le donne diventano ben presto protagoniste in prima persona. La loro produzione resterà senza confronto fino alla lirica femminile del Rinascimento italiano.
Quale ricezione ha avuto la poesia trobadorica nella tradizione letteraria moderna?
La ricezione letteraria è stata ostacolata per secoli dal difficile accesso ai testi. I primi a tentarlo furono alcuni intellettuali della corte aragonese di Napoli alla fine del Quattrocento. L’introduzione della stampa consacrò i classici latini, ai quali in Italia si affiancarono i nuovi classici toscani; ma per difficoltà di diverso tipo, comprese quelle di carattere linguistico e filologico, i ‘Provenzali’ rimasero a lungo lontani dalle tipografie, sebbene addirittura Pietro Bembo vagheggiasse di stamparne una raccolta completa. In Francia Jean de Nostredame, il fratello dell’astrologo visionario, in un libro del 1575 ne trasforma le antiche biografie, stravolte fino all’inverosimile, in pettegole letture da salotto. Sono gli italiani e i catalani che continuano a coltivarne lo studio, ma la svolta si ha solo con la pubblicazione a Parigi della grande antologia in sei volumi (1816-21) di François-Just-Marie Raynouard, a cui fece seguito, anni dopo (1836-44), il suo ancora insostituito dizionario. Non si dimentichi però che la poetica dei trovatori in qualche modo arriva in tutta Europa per via indiretta: principalmente dall’Italia, come ho già accennato prima, grazie al petrarchismo, mentre nella penisola iberica i catalani, che ne seguono le orme fino alla fine del Quattrocento, ne trasmettono una pallida immagine ai castigliani. Una volta stabilito un accesso diretto ai testi, non sorprende che una vera e propria influenza dei trovatori, i primi moderni, si possa cogliere proprio nella poesia degli ultimi moderni, nei poeti del Novecento più che in quelli dell’Ottocento. I tre esempi, secondo me diversi l’uno dall’altro ma molto significativi, su cui mi sono soffermato nell’excursus intitolato “I trovatori nella modernità”, sono Pound, Pasolini e Giudici.
Costanzo Di Girolamo è professore emerito di Filologia e linguistica romanza all’Università di Napoli Federico II. I suoi libri più recenti sono la raccolta di saggi Filologia interpretativa (Edizioni di storia e letteratura, 2019) e il Manualetto di metrica italiana (Carocci, 2021).