“I russi sono matti. Corso sintetico di letteratura russa (1820-1991)” di Paolo Nori

I russi sono matti. Corso sintetico di letteratura russa (1820-1991), Paolo NoriI russi sono matti. Corso sintetico di letteratura russa (1820-1991)
di Paolo Nori
UTET

È uno stile assai originale e niente affatto polveroso, quello di Paolo Nori nel suo I russi sono matti. Corso sintetico di letteratura russa, edito da UTET. L’agile volumetto, in poco più di 200 pagine fatte di brevi ma sagaci ritratti, condensa una materia altrimenti ampia offrendo al lettore innumerevoli spunti di riflessione; il testo ricorda un po’ Come parlare di un libro senza averlo mai letto, un “manuale di sopravvivenza” per cavarsela di fronte ai mostri sacri della tradizione russa: Gogol’, Dostoevskij, Tolstoj, Puškin e Čechov, una guida alla letteratura russa, sin dalla pronuncia corretta dei nomi: «Sapere come si accentano i nomi russi, è difficilissimo. Perché non c’è una regola precisa». E così scopriamo che la pronuncia corretta del nome dell’autore de Il Maestro e Margherita è Bulgàkov, con l’accento sulla a, e non Bùlgakov.

Nori ci accompagna in maniera irriverente e mai noiosa alla scoperta della ricchezza e della complessità della produzione letteraria russa, un corpus fatto di «romanzi così grossi, con tutti quei personaggi che hanno almeno tre nomi e un cognome e un paio di soprannomi e dei gradi che li collocano in una gerarchia incomprensibile e che sono legati da intricatissimi vincoli di parentela» dal quale verrebbe spontaneo fuggire; ma se si porta pazienza, «se arrivi, per dire, a pagina 39, dopo alla fine ti danno delle gran soddisfazioni, e se sei proprio fortunato magari ti fanno anche molto male.»

Già, perché per Nori, «uno dei pregi della letteratura russa […] è che è la letteratura che mi fa star più male di tutte le altre». L’Autore prende in considerazione tre temi (il potere, l’amore, e il byt, cioè la vita quotidiana), e analizza come sono stati trattati dalla letteratura russa dell’Otto e del Novecento.

Una letteratura difficile perché descrive un paese aspro, un paese nel quale, ad esempio, Dostoevskij venne condannato a morte (condanna poi convertita in dieci anni di lavori forzati) per aver letto in pubblico una lettera proibita, la lettera che Vissarion Belinskij, il principale critico letterario russo, aveva scritto a Gogol’ dopo che Gogol’ aveva pubblicato il suo ultimo libro, Brani scelti dalla corrispondenza con gli amici.

«La letteratura russa moderna, quella che prendiamo in mano quando decidiamo di leggere i russi, comincia relativamente tardi, negli anni venti dell’Ottocento, con Puškin. Prima, per un russo, scrivere un romanzo è una cosa esotica, è una moda straniera, e i tentativi dei russi del Settecento, il più conosciuto scrittore russo dell’epoca si chiama Karamzin, sono imitazioni dei romanzi sentimentali francesi. Poi Puškin si mette a scrivere nella lingua dei servi della gleba, che lui conosce grazie alla sua bambinaia, Arina Rodionovna, e comincia la grande letteratura russa, che dura, per lo meno, fino alla fine dell’Unione Sovietica, fino all’uscita, in Russia, del romanzo di Venedikt Erofeev Mosca-Petuški

Una letteratura che va dritta al cuore della questione esistenziale, con una lucidità sorprendente. Difficile non riconoscersi nelle parole di Tolstoj: «Con lo straccio della polvere in mano ho fatto il giro della mia camera; ma quando sono arrivato al divano non sapevo più se lo avessi già spolverato o no. Siccome nello spolverare i movimenti sono abituali e inconsci, non riuscivo a ricordarmi se li avevo già compiuti e mi sembrava, oltretutto, che non sarei mai riuscito a ricordarmelo. Se ho spolverato e poi ho dimenticato di averlo fatto – continua Tolstoj – cioè se ho agito inconsapevolmente, è proprio come se non fosse successo niente… Se la vita di molti uomini, con tutta la sua complessità, scorre inconsapevolmente, allora è come se non ci fosse stata.»

La poesia, e la letteratura, costituiscono un rimedio a tale straniamento: «Dire “sole” – scrive Mandel’štam – significa compiere un lunghissimo viaggio, al quale siamo però a tal punto abituati che viaggiamo dormendo. La poesia si distingue dal linguaggio automatico appunto perché a metà della parola ci riscuote e ci sveglia. La parola ci pare allora molto più lunga di quanto credessimo, sicché ci rammentiamo che parlare significa essere sempre in cammino.»

Per Nori, la letteratura russa è piena di vita quotidiana, di byt, un termine intraducibile in italiano, ma essa compie il dovere che, secondo Iosif Brodskij, è di ogni scrittore: «salvare il prossimo uomo, un nuovo venuto, dal pericolo di cadere in una vecchia trappola, o di aiutarlo a capire, se mai dovesse cadere comunque in quella trappola, che è stato colpito da una tautologia. Così sarà meno allarmato – sarà in qualche modo più libero. Sapere le regole del gioco, sapere il senso di ciò che la vita riserva, di quello che ti sta accadendo, ha un effetto liberatorio. […] Dobbiamo rendere più facile il cammino al prossimo uomo, se non possiamo renderglielo più sicuro. E l’unico modo per renderglielo più facile, perché lui ne sia meno spaventato, consiste nel mostrargli tutta la misura di questa esperienza – nei limiti in cui noi stessi riusciamo ad abbracciarla.»

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