
Quale fu l’impatto col paese?
L’impatto col paese fu duro. Arrivati a Mosca il nostro gruppo di 8 giovani venne alloggiato in una casa dello studente sporca a causa del fatto che durante le vacanze avevano soggiornato famiglie siberiane in visita a Mosca e gli armadietti dei quattro studenti pullulavano di ratti e animaletti vari alla ricerca di cibo rimasto. A Mosca restammo una settimana, poi ci dissero che dovevamo recarci all’Università di Leningrado, dove – una volta arrivati – ci trasferirono nella Casa dello Studente dell’Isola di San Basilio, vicino al porto. Quindi l’impatto non fu dei migliori. La nostra era una camera a quattro letti, due italiani e due russi. Per arrivare allo Smolnyj dovevamo salire sull’autobus n° 30 e attraversare tutta la città, compresa la Prospettiva Nevskij.
Cosa la colpì di più della società sovietica dell’epoca?
La cosa che mi colpì’ di più era la solidarietà dei leningradesi dopo l’assedio di 900 giorni da parte dei nazisti. Tutti cercavano di aiutarsi e aiutarti. Anche le nostre insegnanti ci invitavano a casa loro e raccontavano gli orrori della guerra. Molti si salvarono d’inverno attraverso il lago ghiacciato lungo quella chiamata “la strada della vita” che portava a Mosca. Molti però non ce la fecero e morirono sotto le bombe tedesche che rompevano il ghiaccio e le persone in fuga venivano inghiottivi dalle acque.
Com’era la vita quotidiana nell’URSS degli anni ‘60?
La vita quotidiana era di una normalità apparente: dalla Casa dello Studente un chilometro a piedi per salire sul bus, il percorso interminabile, alla fine scendevi sul piazzale dello Smolny a poche centinaia di metri dal quartier generale del Partito, da dove Lenin aveva diretto la rivoluzione d’ottobre. Si mangiava alla mensa con pochi rubli sia presso la scuola che in città.
Quali furono le maggiori difficoltà che dovette affrontare?
Le maggiori difficoltà erano dovute al freddo: la temperatura arrivava anche a 38 sotto zero, lo studentato era sulle rive del Baltico che d’inverso ghiacciava e si poteva camminare sul golfo di Finlandia. C’era qualche russo che addirittura faceva il bagno nelle pozze d’acqua.
I suoi ricordi di ventenne si raccolgono spesso sulle ragazze sovietiche: com’erano i rapporti con l’altro sesso nell’URSS degli anni ’60?
Le russe, a partire dalla rivoluzione di Lenin, avevano lo stesso status degli uomini. Erano cioè libere di avere rapporti con chi volevano. Peraltro ciò era avvalorato dalla coabitazione dove in una stanza vivevano cinque o sei persone e i giovani non potevano fare l’amore. I privilegiati erano coloro che lavoravano nella stessa fabbrica e nell’ora del pranzo cercavano un posto solitario per fare l’amore. La maggior parte delle ragazze erano bellissime e le studentesse fuori sede preferivano i giovani leningradesi che avevano un piccolo appartamento o una stanza grande in coabitazione. Negli anni ’60 bisogna capire che a Leningrado c’erano tre ragazze per ogni giovane, molti dei quali morti in battaglia, e quindi quando avevano un fidanzato se lo tenevamo ben stretto. Se andavi con una ragazza russa, il giorno dopo dicevano che era rimasta incinta, cosa impossibile, ma tu le regalavi 5 rubli – ossia il costo di un aborto – e loro se ne andavano via contente, anche se non erano affatto in attesa di un figlio. Le ragazze più fortunate riuscirono a trovare un fidanzato straniero, spesso scandinavo, si sposavano, se ne andavano col marito, e quando potevano finivano in America a ballare nelle prime file dei Can Can.
Come ha influito sulla Sua vita il quinquennio vissuto a Leningrado?
Il quinquennio vissuto a Leningrado mi ha forgiato come uomo pronto a qualsiasi evenienza, che – avendone passate tante – non si spaventa più per nessuna cosa, compresa la pandemia del Covid-19. Dopo gli anni trascorsi in Russia dal 1962 al 1967 non ho avuto paura di nulla nella vita. Quel periodo è stato per me come un vaccino che proteggerà il mio corpo sino al momento di lasciare questo mondo.
Carlo Fredduzzi è Direttore dell’Istituto di Cultura e Lingua Russa di Roma, che ha fondato nel 1991