
di Luigi Bisignani e Paolo Madron
Chiarelettere
Giorgia e la fine dell’era Berlusconi
«Siamo a febbraio 2023. Dallo staff di Meloni cominciano a trapelare indiscrezioni su un suo viaggio a Kiev. In treno, come fece Draghi con Macron e Scholz. E che fa Berlusconi una settimana prima?
Una bella dichiarazione pubblica per dire che lui «a parlare con Zelensky, se fosse stato il presidente del Consiglio, non ci sarebbe mai andato». Un altro carico da undici dopo che in precedenza aveva detto che Putin avrebbe dovuto far fuori da tempo «l’attore presidente».
Lei va a Kiev illividita, anche perché i giornali non parlano d’altro che del siluro che le ha scagliato addosso il suo alleato. In conferenza stampa Zelensky naturalmente se la prende con Berlusconi. E Giorgia fa melina.
E in quel preciso momento capisce che, con il suo ingombrante alleato costantemente impegnato a farle la fronda, il governo è in pericolo. Torna, riunisce i suoi arditi più fedeli, e ora ti svelo quali: la sorella Arianna, Patrizia Scurti detta «Wolf», la segretaria risolvi problemi, e Giovanbattista Fazzolari detto «Spugna», come il personaggio del fedele nostromo dal naso rosso di capitan Uncino, che oggi a Palazzo è per tutti «Fazzo», appassionato pokerista al quale nessun bluff sfugge.
Spugna o Fazzo, c’è il rischio che la maggioranza imploda proprio sulla guerra ai confini dell’Europa. La Lega ha un atteggiamento ambiguo, e nell’universo berlusconiano c’è una spaccatura profonda.
Marina e Mediaset sono dalla parte di Zelensky. Il padre e la «moglie» stanno con Putin. Una divergenza che si riverbera sull’intero partito, e che viene usata per regolare i conti all’interno, a partire da Ronzulli e i suoi per sabotare Tajani, il più filoucraino di tutti. Così Giorgia decide di stabilire un contatto con la primogenita del Cav per lanciarle il guanto di sfida.
Al telefono Meloni non usa perifrasi. Dice che il comportamento del padre è inqualificabile, e che in questo modo sta sabotando il suo governo più di quanto non stia facendo l’opposizione.
A quel punto Marina cala l’asso. Spiega alla sua interlocutrice che per fermare il padre e la sua finta moglie occorre un segno tangibile del governo che possa sollevarlo dalla sua unica ossessione: i processi.
Così il capo del governo, a meno di un’ora dall’inizio dell’ultima udienza al processo Ruby ter, dove Berlusconi era imputato per corruzione in atti giudiziari, ordina all’Avvocatura dello Stato di ritirare la costituzione di parte civile. E lancia il primo ramoscello d’ulivo.
Sembra tutto risolto, ma poi ecco che arriva un ostacolo imprevisto.
La condanna dell’onorevole Augusta Montaruli, pupilla della premier ed ex fidanzata del vignettista Osho, nel procedimento sulle spese pazze della Regione Piemonte. E alcuni parlamentari, da garantisti, diventano giustizialisti.
Meloni si sente tradita, va su tutte le furie. Occorrerà un secondo colloquio con Marina per calmarla.
La presidente di Mondadori capisce che deve bloccare gli ultrà di Forza Italia. Così costringe il padre non solo a placarli diramando una nota distensiva, ma pure a chiamare personalmente il presidente della Camera Fontana, arrivando a dire addirittura che il suo partito rinunciava alla vicepresidenza della commissione parlamentare di vigilanza Rai a favore di Montaruli.
È proprio il caso di dire che una telefonata le ha allungato la vita, quella politica s’intende. E il controllo di Forza Italia è dinasticamente passato di padre in figlia, con in più un ruolo importante per la finta moglie Fascina. Avvicendamento che si completa, dopo poche settimane, con la sostituzione del capogruppo alla Camera Alessandro Cattaneo con Paolo Barelli, che aveva rivestito lo stesso ruolo nella passata legislatura.
Al contrario di Meloni, che di finte nozze non ha avuto bisogno. È entrata infatti nel Palazzo dal portone principale, perché strumentale a Fini per dirimere una rissa tra i suoi colonnelli su chi avrebbe fatto il vicepresidente della Camera.
Il presidente di An, infatti, nel 2006 scelse Giorgia, appena eletta per la prima volta a Montecitorio. Fu uno shock per il partito e per l’interessata.»