“I partiti digitali. L’organizzazione politica nell’era delle piattaforme” di Paolo Gerbaudo

Dott. Paolo Gerbaudo, Lei è autore del libro I partiti digitali. L’organizzazione politica nell’era delle piattaforme edito dal Mulino: quali dimensioni ha assunto il fenomeno dei «partiti digitali»?
I partiti digitali. L'organizzazione politica nell'era delle piattaforme, Paolo GerbaudoMolte delle nuove formazioni politiche che sono sorte negli ultimi anni in Europa, dall’Italia, alla Francia, alla Spagna, al Regno Unito sono di fatto partiti digitali, ovvero partiti la cui struttura organizzativa principale è un portale di partecipazione, come l’ormai famoso Rousseau del Movimento 5 Stelle. Oltre al movimento fondato da Grillo, Podemos e France Insoumise su cui si concentra l’analisi del libro, potremmo annoverare in questa categoria anche formazioni come la République En Marche! Di Emmanuel Macron, o il Brexit Party di Nigel Farage, che sono anch’essi partiti non convenzionali, con struttura burocratica molto limitata e un sistema di partecipazione online. Nel frattempo anche partiti tradizionali come il Partito Democratico in Italia o il PSOE socialista in Spagna stanno cercando di adattarsi a questo nuovo modello di organizzazione. Quindi potremmo dire che il partito digitale è ormai diventato una tendenza complessiva del sistema di partiti in Europa. Di fronte a una crisi crescente di fiducia nelle formazioni politiche tradizionali e i loro rituali organizzativi ormai spesso consunti c’è un tentativo di trasformare il funzionamento dei partiti per renderli nuovamente attrattivi e capaci di mobilitare settori dell’elettorato che si sono allontanati dalla politica, a partire dai giovani.

Quali elementi caratterizzano tale nuovo modello di organizzazione politica?
Il partito digitale poggia fondamentalmente su tre pilastri. Da un punto di vista ideologico esso promette di portare a una nuova democrazia della partecipazione superando la democrazia della delega dei partiti tradizionali, considerata foriera di opacità e di una distanza crescente tra cittadini e istituzioni. Da un punto di vista organizzativo, questo “partecipazionismo”, viene tradotto nell’utilizzo di forme di democrazia diretta online, attraverso consultazioni deliberative, per lo sviluppo di politiche e proposte, e soprattutto attraverso referendum online, come quelli diventati ormai celebri nel caso del movimento 5 stelle, per decidere sulla direzione politica, confermare l’espulsione di iscritti e rappresentanti o prendere posizione su altri temi scottanti. Ma altrettanto importante è la trasformazione della nozione di iscritto che viene dilatata notevolmente, eliminando alcune tipiche barriere tra simpatizzante e membro a tutti gli effetti. Per molti partiti digitali – e qui il Movimento 5 Stelle è un’eccezione – iscriversi al partito è facile quanto iscriversi a un social network. Questo è anche il motivo per cui molti di questi partiti sono riusciti in breve tempo a raccogliere centinaia di migliaia di iscritti, cosa che avrebbe richiesto diversi anni se non decenni ai partiti tradizionali. Questo indica anche alcuni vantaggi dei partiti digitali rispetto ai partiti tradizionali, la loro snellezza organizzativa, la loro agilità strutturale e il modo in cui permettono una rapida espansione. Al contempo questi sono anche motivi di debolezza, perché la rapidità di crescita è accompagnata spesso da una fragilità, e la facilità di iscrizione spesso non corrisponde alla capacità di assorbire e integrare veramente i nuovi partecipanti nella struttura del partito.

Quali i rischi per la democrazia nell’era digitale?
Il rischio di queste formazioni è la deriva verso una democrazia liderista e plebiscitaria in cui il dibattito e i dissensi interni vengono messi all’angolo, invece che essere trasformati in un processo produttivo, e in cui la base più che prendere vere decisioni, si limita di fatto a ratificare decisioni che sono già state prese dall’alto. Questo si vede nelle statistiche di molti referendum interni condotti da questi partiti, in cui i risultati spesso presentano una maggioranza schiacciante, talvolta dell’80% o più, a favore dell’opzione favorita dalla leadership. Tale assetto è molto problematico, non solo perché limita la discussione interna, limitando di fatto l’intervento degli iscritti a un “Sì” o “No”, ma pure perché l’assenza di democrazia interna spesso porta i conflitti interni a degenerare in scissioni e a generare la delusione della base degli iscritti.

Di che natura è la democrazia praticata dai partiti digitali? È davvero migliore di quella dei partiti tradizionali?
Dentro i partiti digitali c’è una contraddizione di fondo tra una promessa di democrazia radicalmente partecipativa e anti-gerarchica (come espresso nello slogan 5 stelle “ognuno vale uno”), e una realtà di democrazia plebiscitaria in cui i leader non vengono affatto eliminati, anche perché tale eliminazione è impossibile in un contesto di democrazia rappresentativa, e di elezione di rappresentanti nel parlamento e altri organi. Alcune innovazioni introdotte a questi partiti, ad esempio meccanismi di consultazione della base su determinate politiche sono interessanti e potenzialmente potrebbero estendere la democrazia interna dei partiti. Inoltre, la facilità di partecipazione della base a elezione di rappresentanti e primarie interne ha un elemento democratico, perché almeno in teoria riduce il costo della partecipazione. Tuttavia al momento dentro i partiti digitali la promessa di una democrazia digitale è stata delusa, anche perché gli obiettivi che essa si proponeva erano troppo idealisti e non tenevano conto delle dinamiche di potere e di leadership che sono al cuore della democrazia di massa in cui viviamo e che non possono essere superate dall’oggi al domani attraverso un puro atto volontaristico. Il rischio dunque è passare da una democrazia della delega, discutibile e spesso incapace di rispondere ai nuovi ritmi della società, a una democrazia plebiscitaria, in cui lo spazio di intervento degli iscritti e dei cittadini si riduce in maniera drastica, e vengono eliminate le forme di dissenso organizzato che esistevano dentro i partiti tradizionali e consentivano di incanalare il conflitto interno in forme non-distruttive.

Nell’era del web, quale futuro per le organizzazioni politiche?
Io credo che i partiti digitali, pur con tutti i loro limiti, indicano una tendenza. E questo è dimostrato pure dal fatto che molte altre formazioni e partiti tradizionali stanno cercando di adattarsi a questo nuovo modello di organizzazione politica. Del resto è evidente che in un tempo in cui il digitale ha trasformato a fondo le modalità di gestione delle imprese, le forme di consumo, di produzione e di socializzazione, anche i partiti sono destinati a assorbire alcune delle nuove logiche organizzative della società digitale. Quello che è chiaro è che la comunicazione digitale non elimina la necessità di organizzazioni, al contrario di quanto alcuni profeti tecno-libertari della Silicon Valley sostenevano. Piuttosto rende necessario la creazione di nuove organizzazioni che possano fare i conti con le sfide di una società iperconnessa e iperindividualizzata.

Paolo Gerbaudo è direttore del centro per la cultura digitale al King’s College di Londra. Si occupa di processi organizzativi, ideologie politiche, partiti e movimenti sociali. È autore di Tweets and the Streets (2012), The Mask and the Flag (2017), e The Digital Party (2018), edito in lingua italiana da Il Mulino.

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