“I moderni e la politica degli antichi. Tra Machiavelli e Nietzsche” di Giuseppe Cambiano

Prof. Giuseppe Cambiano, Lei è autore del libro I moderni e la politica degli antichi. Tra Machiavelli e Nietzsche edito dal Mulino: quale importanza ha avuto l’esperienza della politica antica nelle riflessioni degli intellettuali europei e americani lungo tutta la storia moderna?
I moderni e la politica degli antichi. Tra Machiavelli e Nietzsche, Giuseppe CambianoLa conoscenza dei testi degli autori antichi, in particolare di storici e filosofi, è stato un tratto comune agli intellettuali europei ed americani a partire dall’Umanesimo sino all’inizio dell’Ottocento, non una prerogativa di ristrette sfere di specialisti. Da questi testi era possibile ricavare la narrazione delle vicende delle città greche, di Roma e dell’impero e, al tempo stesso, descrizioni e analisi delle loro istituzioni politiche. Tutto ciò costituiva un patrimonio comune, che consentiva di elaborare questioni e linguaggi, grazie ai quali gli intellettuali moderni potevano agevolmente comprendersi e discutere tra loro, al di là dei confini nazionali. Non è possibile pertanto analizzare la riflessione politica dei moderni trascurando questo comune terreno di riferimento e le modalità nelle quali esso era interpretato e utilizzato nelle diverse situazioni storiche, in tempi e luoghi diversi della storia europea e americana.

L’elaborazione di quali nozioni alla base del pensiero politico contemporaneo è maturata nel confronto con le esperienze della politica di Greci e Romani?
Molti concetti che ancora oggi usiamo sono stati elaborati o dagli stessi autori antichi o dai moderni tenendo conto delle esperienze politiche antiche. Basta pensare alla questione delle differenze tra democrazia diretta, che appare peculiare della città greca, in particolare di Atene, e democrazia rappresentativa, che appare tipica della modernità. Ciò si lega anche alla distinzione tra piccolo stato, com’erano le città greche, dove quindi erano possibili forme di democrazia diretta, e i moderni grandi stati, dove essa non è più possibile, ma occorre appunto introdurre l’istituto della rappresentanza e dell’elezione dei rappresentanti. Ma si può pensare anche al rapporto tra pubblico e privato, con la differenza tra libertà degli antichi, dove sembra prevalere la coincidenza della sfera privata con quella pubblica, e la libertà dei moderni, dove sembra prevalere la sfera degli interessi privati. O anche al problema della formazione degli imperi e della loro decadenza o a quello del rapporto tra popolo e nazione e così via. Si tratta di aspetti che emergono nei vari capitoli, analizzati in rapporto a determinati autori particolarmente significativi per questi aspetti, in relazione alle peculiari situazioni storiche nelle quali si trovarono a vivere.

Come si è articolato il dibattito su polis e schiavitù nella filosofia moderna?
Si possono individuare due posizioni principali. In una, esemplificata per eccellenza dal pensiero di Rousseau, la polis è assunta come modello politico significativo anche per il presente e, pertanto, è riconosciuta sì l’esistenza del fenomeno della schiavitù nelle realtà politiche antiche, sia in Grecia sia a Roma, ma senza che ciò intacchi la valenza positiva dei modelli antichi. La posizione opposta, che emerge con forza soprattutto negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione francese – considerata una ripresa di questi modelli antichi con la nozione di virtù repubblicana – sottolinea invece la consistenza della schiavitù antica come fattore decisivo per l’esercizio della stessa democrazia degli antichi. Agli schiavi erano infatti demandate tutte le attività lavorative, il che consentiva ai cittadini liberi di riunirsi frequentemente nelle assemblee per assumere le decisioni politiche di interesse generale per la comunità. Ma ciò significava anche che la democrazia degli antichi non era un’autentica democrazia, dal momento che gli schiavi appunto, ma anche le donne, erano esclusi dal dominio delle decisioni politiche. La punta estrema, agli antipodi di quella di Rousseau, può essere vista in Nietzsche, per il quale la Grecia torna a diventare modello, ma non per la polis e il suo tipo di democrazia, bensì proprio grazie al fatto di poggiare sulla schiavitù: solo grazie al fatto che il lavoro era scaricato sugli schiavi era stato possibile elaborare in Grecia una grande cultura, che è sempre opera di pochi. E secondo Nietzsche questo doveva valere anche per il presente, grazie ai nuovi schiavi costituiti dagli operai e dagli addetti alle funzioni lavorative.

Come è stato accolto Tucidide nel Cinquecento?
Solitamente la storia di Tucidide è citata ancor oggi da quanti si occupano della questione della democrazia per l’elogio che Pericle vi fa di Atene. Nel Cinquecento invece è un altro aspetto della sua storia che richiama l’attenzione: la questione dell’ ‘imperialismo’ esercitato da Atene nei confronti di altre città. Dopo la traduzione latina di Tucidide ad opera di Lorenzo Valla e prima di quella inglese di Thomas Hobbes, l’autore del celebre Galateo, Giovanni Della Casa si cimenta verso la metà del secolo in una traduzione parziale in italiano di alcune orazioni presenti nell’opera di Tucidide e, precisamente, quelle che hanno per tema proprio la questione del dominio nei confronti di altre città. La questione era di attualità date le mire imperialistiche che la Spagna di Carlo V stava esercitando anche in Italia. Non a caso Della Casa costruiva a sua volta alcune orazioni dirette all’imperatore e a Venezia proprio su questi temi, riprendendo il modello tucidideo. E la questione del potere, inscindibilmente connesso all’uso della forza, era al centro anche di un’altra lettura di Tucidide non molti anni dopo ad opera di Jean Bodin in Francia, che sottolineava la costitutiva instabilità politica delle città greche, ampiamente documentata nell’opera tucididea, in opposizione alla monarchia, unica forma garante di autentica sovranità.

Quale fortuna ha accompagnato Cicerone nell’Inghilterra del primo Settecento?
Cicerone gode di una singolare fortuna nell’Inghilterra di fine Seicento e del primo Settecento essenzialmente per due aspetti. In primo luogo egli appare, soprattutto grazie ad alcuni suoi scritti, il de divinatione e il de natura deorum, come una delle espressioni più significative del libero pensiero, in quanto distingue nettamente la religione autentica, fondata sulla ragione, dalla superstizione. All’elaborazione di questa immagine di Cicerone contribuiscono molti autori, soprattutto John Toland, che formulava il progetto di una nuova edizione degli scritti di Cicerone, e Anthony Collins. Ciò si legava strettamente alle discussioni sulla religione che fiorivano in quegli anni in Europa e soprattutto in Inghilterra. Ma Cicerone in questo periodo è anche ampiamente utilizzato nei dibattiti politici in Inghilterra come rappresentante esemplare di una posizione politica moderata, mirante alla salvaguardia della libertà e alla costruzione della concordia civile, lontana sia da ogni forma di tirannide, ma anche da forme esterne di republicanesimo come quella rappresentata da Catone Uticense, che potevano apparire manifestazioni di fanatismo. L’espressione più significativa di questa immagine di Cicerone è rappresentata dalla vita di Cicerone (1741) di Conyers Middleton, legato all’università di Cambrigde e coinvolto in molte polemiche col grande filologo Richard Bentley.

Quali comparazioni e modelli ha ispirato nel Settecento l’antichità?
Il Settecento è un secolo di paralleli e comparazioni, per esempio tra i costumi e le credenze religiose dei selvaggi e quelle dei greci antichi o tra greci e romani, ma anche tra gli antichi e i moderni, come già emergeva nella seicentesca querelle des anciens et des modernes. In questi casi l’obiettivo era costituito dall’esigenza di sottolineare la superiorità degli antichi sui moderni o viceversa. Soprattutto Rousseau in varie sue opere, anche se non sempre, presenta le istituzioni politiche della Grecia antica o della Roma repubblicana in una luce di esemplarità, sottolineando con forza la necessità anche per i moderni di ispirarsi ad esse. Ma non sempre tali comparazioni sono guidate da questo obiettivo pratico e politico; a volte esse si pongono fini cognitivi, sono cioè mosse dall’esigenza di chiarire aspetti oscuri o particolarmente significativi sia dell’antichità sia della modernità, mettendo in luce soprattutto le differenze delle rispettive situazioni. In tali casi si procede a volte alla costruzione di modelli teorici generali capaci di spiegare le peculiarità delle società antiche: esemplari in questa direzione appaiono soprattutto l’Esprit des lois di Montesquieu e gli scritti degli intellettuali scozzesi, come David Hume che si occupa della questione se siano state più popolate le nazioni antiche o quelle moderne e, di conseguenza, è portato ad esaminare le peculiarità della vita economica dell’antichità, condizionata dall’esistenza della schiavitù e dalle scarse dimensioni del commercio. Lo sviluppo più significativo in questa direzione sarà dato dal più importante economista del Settecento, Adam Smith, non solo nel Saggio sulla ricchezza delle nazioni, ma soprattutto nelle Lezioni sulla giurisprudenza.

Qual è la visione dello Stato greco nella filosofia tra Zeller e Hegel?
Eduard Zeller, probabilmente il maggior storico della filosofia greca dell’Ottocento, ebbe una formazione hegeliana, che in seguito abbandonò per una forma di ritorno a Kant. Tuttavia nel corso della sua opera storica continuò a tenere salda l’immagine dello Stato greco, che Hegel aveva elaborato in vari suoi scritti e che si trovava ampiamente diffusa nella cultura tedesca del tempo. Essa consisteva essenzialmente in quella che Hegel chiamava la ‘bella eticità’ o moralità concreta, nella quale il cittadino fa tutt’uno con la comunità e si sa libero in quanto membro di questa comunità. Essa si reggeva sulla coincidenza di pubblico e privato: «un cittadino ateniese – diceva Hegel – faceva quasi per istinto ciò che gli spettava». In questa prospettiva l’opera dei sofisti e poi soprattutto di Socrate appariva, anche se in modalità diverse in Hegel e in Zeller, come un elemento dissolutore, che annunciava però una nuova epoca dello spirito: era l’emergere del principio della libertà soggettiva da far valere in tutte le sfere della vita umana, per cui l’accettazione di costumi, leggi e credenze religiose non era più immediata e ovvia, ma richiedeva ora la convinzione personale a fondamento del comportamento buono e giusto, raggiungibile solo attraverso il libero esercizio del pensiero.

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