
Se guardiamo al modo in cui le istituzioni internazionali affrontano il tema dei diritti dei minori, attraverso normative, politiche e prassi, possiamo certamente riconoscere che le nuove generazioni sono oggi al centro dell’attenzione della Comunità internazionale.
Sul versante europeo, in quasi tutti gli ambiti d’interesse degli organismi dell’Unione si riflette un’attenzione particolare verso i minori; pensiamo alle questioni della salute, dell’ambiente, dei cambiamenti climatici, delle migrazioni, o allo sviluppo delle tecnologie digitali e dell’intelligenza artificiale.
Purtroppo, se dal piano delle affermazioni della Comunità internazionale ci spostiamo a quello dell’implementazione concreta delle politiche e della prassi applicativa, il quadro diventa più complesso e spesso contraddittorio. Basti pensare ai gravi problemi che affliggono i bambini che vivono nelle zone più disagiate del pianeta, privi di adeguata assistenza sanitaria e di accesso all’istruzione, ma anche, più in generale, all’impatto concreto che i conflitti, la pandemia, la crisi economica e le migrazioni generano nella vita dei minori, un impatto che non sempre e non adeguatamente è posto al centro dell’interesse dei decisori politici e del dibattito pubblico.
All’interno della cornice giuridica sovranazionale, nel mio libro (nato nell’ambito dei miei interessi di ricerca come studiosa del Diritto ecclesiastico), provo a tematizzare una questione specifica, quella del rapporto tra i diritti del minore e la religione. Proprio per le ragioni anzidette, si tratta di una questione che merita di essere esplorata non solo con riguardo alle dinamiche che si svolgono all’interno della famiglia ma anche considerando il ruolo che i soggetti minori di età rivestono nelle nostre società e il loro rapporto con un fenomeno religioso che appare in veloce e profondo mutamento.
Quali vicende hanno segnato il processo di riconoscimento dei minori di età quali autonomi soggetti con propri diritti?
Nella nostra società è ampiamente condivisa l’affermazione secondo la quale il minore è un soggetto dotato di propri diritti, di eguale dignità e della capacità di esercitare le sue libertà in base al grado di maturità e all’età raggiunta; tuttavia, va ricordato che alla considerazione attuale si è giunti dopo un percorso culturale, sociale e giuridico lungo e accidentato, che si è sviluppato principalmente nell’area occidentale del mondo nel corso degli ultimi secoli.
Si tratta di un processo che, per ragioni di sintesi, si può provare a riassumere in alcuni passaggi storici e giuridici che si snodano tra il XVI secolo e il Novecento. È, infatti, lungo questo arco di tempo che la società europea matura un’idea nuova del bambino rispetto all’epoca medievale e rinascimentale, e ridisegna la relazione genitori-figli entro la cornice di un’idea di famiglia non più esclusivamente patriarcale e legata alla concezione del pater familias. A partire dal Novecento, in particolare, si afferma l’idea che il minore non vada visto solo come oggetto di cure e di attenzioni ma quale soggetto con propri diritti.
Agli inizi del secolo, e fino alla fine della Seconda guerra mondiale, la cultura giuridica occidentale è attraversata da istanze sociali alle quali non si sottrae nemmeno l’istituto familiare. L’infanzia diventa un tema politico del quale lo Stato è chiamato a interessarsi, sia per correggere situazioni di maltrattamento familiare, abusi e sfruttamento del lavoro minorile, sia per garantire a tutti un’istruzione di base.
Nel 1919, l’inglese Eglantyne Jebb fonda l’organizzazione Save the Children, ancora oggi famosa in tutto il mondo per il suo sostegno ai bambini in difficoltà e per gli studi in materia di minori. All’epoca, l’emergenza era aiutare i piccoli orfani colpiti dagli esiti devastanti della Prima guerra mondiale. È a questi ultimi che guarda anche la Società delle Nazioni quando, nel 1924, approva all’unanimità la Dichiarazione di Ginevra sui diritti dei minori, primo strumento adottato da un organismo intergovernativo in tale settore.
I meriti principali della Dichiarazione del 1924 vanno ricercati nell’aver menzionato per la prima volta i diritti del minore e aver richiamato la necessità che il diritto internazionale dei diritti umani e il diritto umanitario riconoscessero nei bambini una categoria vulnerabile, verso la quale la società nel suo insieme deve assumere degli obblighi di protezione.
In concreto, invece, il valore del documento andò ben poco oltre un piano meramente simbolico. Non molto diverso, peraltro, è stato il destino della Dichiarazione sui diritti dei minori che vede la luce nel 1959, questa volta ad opera della Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite. L’approccio teorico di questa seconda Dichiarazione – anch’essa frutto di una rinnovata attenzione dovuta alle immani privazioni subite dai più piccoli nel corso del Secondo conflitto mondiale – rimane ancorato a una visione del minore come oggetto di protezione e di cura. Per la prima volta, però, il documento fa espresso riferimento al concetto di best interests (non nuovo, soprattutto nella cultura giuridica anglosassone), affermando che tutti i soggetti coinvolti nell’educazione del minore – genitori, educatori, volontari, istituzioni – devono adottare il principio del best interests of the child quale considerazione preminente.
La temperie culturale e sociale che si sviluppa nella seconda metà del Novecento è all’origine di un mutamento nella condizione sociale del minore, che, gradualmente, viene ad essere percepito come un soggetto agente, con libertà personali, capacità in evoluzione e un proprio ruolo sociale. La riflessione teorica che matura tra gli anni Settanta e Ottanta si concentra sulla domanda se sia possibile riconoscere ai minori veri e propri diritti giuridicamente azionabili, quindi dotati di effettiva tutela o, al contrario, se si possano configurare per il minore unicamente delle aspirazioni che determinano obblighi morali in capo ai consociati. Come avverrà in altri casi, il linguaggio dei diritti si rivela il codice comunicativo più forte e appropriato per gestire situazioni di disagio, sopraffazioni, indigenza e violenza, ma anche per permettere ai minori di esprimersi e decidere cosa sia nel proprio migliore interesse. Saranno queste le basi concettuali sulle quali si fonderà la Convenzione ONU sui diritti del fanciullo del 1989.
Cosa stabilisce la Convenzione ONU sui diritti del fanciullo?
La Convenzione del 1989 si pone un obiettivo innovativo e ambizioso, quello di cercare di coniugare le due prospettive della cura e dell’autodeterminazione nell’approccio ai bisogni e agli interessi dei minori. Per raggiungerlo, essa enfatizza la relazione che si stabilisce tra i soggetti (famiglia, minore, istituzioni pubbliche e private) e tra gli stessi diritti, che vanno letti in chiave di interrelazione e di reciproco rafforzamento.
Senza entrare nel merito delle singole disposizioni, è sufficiente ricordare almeno i c.d. ‘quattro pilastri’ della Convenzione, ovvero il principio del best interests del minore (art. 3), il diritto alla vita e allo sviluppo (art. 6) il diritto all’ascolto (art. 12) e il diritto alla non discriminazione (art. 2). Sono questi, secondo il Comitato per i diritti dei minori, i princìpi generali che fungono da parametro interpretativo dell’intero testo convenzionale.
Ad essi aggiungerei, per l’importanza e la novità che la contraddistingue, la disposizione riguardante la libertà religiosa del minore, in cui si sostanzia l’idea che egli sia un soggetto la cui autonomia cresce in relazione alla maturità e al grado di giudizio.
Nei precedenti strumenti internazionali di protezione dei diritti umani non incontriamo un tale riferimento alla figura del minore; piuttosto, in essi emerge il tema dell’educazione religiosa come elemento di tensione e di possibile conflitto tra le prerogative genitoriali e gli interessi dello Stato.
Nell’art. 14 della Convenzione sui diritti del fanciullo, invece, la libertà religiosa è riconosciuta come diritto proprio del minore, mentre il ruolo dei genitori viene contestualmente ridefinito nei termini di un diritto/dovere di guidare i figli nell’esercizio di tale diritto, in modo da accompagnarne lo sviluppo e la crescita anche nella dimensione religiosa e spirituale.
Così inteso, è chiaro che il diritto del minore alla libertà religiosa deve essere letto in una prospettiva di relazione con i princìpi e i criteri direttivi prima richiamati, e principalmente con i concetti di best interests, ascolto e partecipazione e di evolving capacities.
Infatti, la costruzione di un’identità personale sul piano spirituale e religioso e uno sviluppo sano che contempli una crescita umana e morale, sono tutti aspetti che si nutrono dell’educazione, delle relazioni affettive intra ed extra familiari, della socializzazione, della possibilità di partecipare attivamente, e in condizioni di eguaglianza, alla vita sociale. Ciascuno dei diritti e dei princìpi consolidati nel testo rafforza e garantisce la realizzazione degli altri, in una prospettiva sinergica. Anche per questi motivi, credo che l’impianto e l’architettura della Convenzione meritino di essere salvaguardati ancora oggi, nonostante la necessità di attualizzazione di alcuni contenuti e le debolezze riscontrate in fase applicativa, soprattutto nel passaggio dal globale al locale.
Come si realizza la protezione dei diritti dei minori nello spazio giuridico europeo?
Le maggiori istituzioni europee, Consiglio d’Europa ed Unione europea, affrontano oggi in sinergia l’impegno comune di garantire standard di protezione ai diritti del minore, facendo leva principalmente sulla cooperazione inter istituzionale e sul dialogo tra le rispettive Corti. In particolare, la Corte europea dei diritti umani, pur non potendo contare su disposizioni specifiche a tutela del fanciullo nella Convenzione del 1950, utilizza un complesso strumentario giuridico per rispondere all’obiettivo di valorizzare il minore quale soggetto di diritti e di privilegiare il suo superiore interesse nelle ipotesi di conflitto con i diritti dei genitori. Tra le questioni nelle quali il best interests trova più frequente applicazione, figura la possibilità di mantenere contatti regolari con entrambi i genitori, un aspetto necessario a preservare quel legame genitore-figlio che la Corte considera elemento fondamentale del diritto al rispetto della vita familiare (art. 8 CEDU).
Nella ponderazione degli interessi, tuttavia, i giudici di Strasburgo si mostrano sensibili anche verso la tutela di altri princìpi, come la non discriminazione per motivi religiosi nei riguardi del genitore che si sia convertito a una diversa fede. Qui siamo in presenza di situazioni delicate, nelle quali non è semplice il bilanciamento tra la libertà religiosa del genitore, il diritto del figlio alla stabilità emotiva, psicologica e religiosa e, non da ultimo, il diritto di entrambi di conservare tra loro contatti regolari. In questi casi l’ascolto del minore assume un rilievo importante, come ha ricordato di recente anche la Cassazione italiana.
Spostandoci sul versante dell’Unione europea, possiamo osservare come, gradualmente, le istituzioni comunitarie abbiano inserito la questione della promozione e della tutela dei diritti dei minori all’interno dei loro diversi programmi e delle numerose politiche, dagli ambiti tradizionali dell’educazione e della salute a quelli dell’ambiente, dei cambiamenti climatici, dello sviluppo sostenibile, degli aiuti umanitari. Le basi giuridiche su cui si fondano la legislazione, la prassi e le politiche dell’Unione in materia di diritti dei minori sono, ancora una volta, offerte dalla Convenzione del 1989, a partire dalle definizioni che ritroviamo nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e al principio del best interests (art. 24).
L’Unione si fa inoltre promotrice dei diritti dei minori nell’azione diplomatica, rafforzando la cooperazione con i Paesi terzi per affrontare le gravi e perduranti situazioni di violenza e discriminazione a cui ancora oggi assistiamo a livello globale. Fenomeni come i matrimoni forzati e prematuri, le mutilazioni genitali femminili, gli omicidi d’onore, le discriminazioni e le persecuzioni che colpiscono le minoranze religiose e toccano soprattutto bambine e bambini, sono solo alcuni tra i motivi di preoccupazione che richiedono la collaborazione tra istituzioni globali e locali, ma richiamano anche l’impegno della società civile nel suo insieme, compresi gli attori religiosi.
In che modo è possibile coniugare il rispetto delle convinzioni religiose dei genitori con l’esercizio dei diritti del minore e lo sviluppo delle sue capacità?
Questa domanda tocca il cuore della mia ricerca e richiederebbe una risposta molto più lunga e approfondita di quanto sia possibile in questa sede. Direi che, prima di tutto, occorre riconoscere come le relazioni all’interno della famiglia rispondano, nella generalità dei casi, a dinamiche positive, in cui i genitori assumono quei compiti educativi e di cura che permettono al bambino di realizzare le condizioni necessarie per costruirsi un ‘futuro aperto’. È sempre opportuno, dunque, porsi nell’ottica di una sintesi costruttiva tra le esigenze di protezione e il rispetto di un’autonoma capacità di giudizio.
Tutto ciò vale anche nell’ambito del religioso. La formazione spirituale del minore, normalmente, matura proprio nel tessuto delle relazioni familiari. È nella famiglia – e nella comunità religiosa per il tramite di questa – che avvengono le prime forme di socializzazione nella fede, attraverso l’esperienza dei riti, le celebrazioni comunitarie e la partecipazione a quelle attività nelle quali il gruppo (che sia religioso o di altra natura) si incontra e si confronta.
Possono invece sorgere dei problemi quando alcune scelte o comportamenti dei genitori, motivati da convincimenti religiosi o di altro tipo, sono in grado di produrre una limitazione o, addirittura, la negazione dei diritti del figlio minore di età, quali quelli alla libertà religiosa, alla socializzazione, all’educazione, alla salute. Quando si è in presenza di queste situazioni, è necessario accertare se esse costituiscano un vero e proprio conflitto tra diritti o se sia possibile, invece, operare un bilanciamento che non comprometta il ‘nucleo duro’ di nessuno degli interessi coinvolti. Se si ricade nella prima ipotesi, diventa ineludibile trovare un criterio assiologico di soluzione del conflitto, ed è su questo punto che si concentra la parte centrale della mia ricerca.
Quale ruolo sono chiamate a svolgere le istituzioni per assicurare il best interests del bambino?
Come abbiamo visto fin qui, le istituzioni nazionali, europee e internazionali hanno ormai maturato una generale consapevolezza circa l’importanza del proprio ruolo nell’assicurare la preminenza degli interessi dei minori nei contesti che li riguardano.
Tuttavia, sul piano applicativo si pongono non poche difficoltà e proprio il tema del rapporto tra libertà religiosa e diritti dei minori rivela l’ampiezza e la delicatezza dei problemi.
Gli standard internazionali affermano che gli attori statali e non statali, insieme a tutti i soggetti coinvolti nella vita del minore, debbano attenersi al principio del best interests e che le istituzioni pubbliche abbiano il compito di intervenire a tutela del minore quando i suoi diritti rischiano di essere compromessi nell’ambito dei rapporti familiari o in altri contesti. Occorre, tuttavia, vigilare affinché la ‘carta’ della protezione del minore non sia giocata dai governi per scopi di repressione e di discriminazione delle minoranze, oppure per imporre modelli autoritativi di educazione o, ancora, per rafforzare lo status privilegiato di una determinata confessione religiosa. Purtroppo, si tratta di ipotesi tutt’altro che riferibili al passato e invece sempre presenti nell’arena globale.
Allo stesso modo, è necessario che gli ordinamenti giuridici pluralistici e democratici tutelino quei minori i quali, appartenendo a comunità religiose o di altra natura che mirano alla separazione dalla società, si trovano a volte sottoposti a scelte orientate ad escluderli dal tessuto sociale e privati dell’accesso all’istruzione, della socializzazione o di adeguate cure mediche. Le misure a tutela dei diritti dei minori, per essere efficaci, richiedono un approccio olistico e la costante sinergia tra attori, strumenti e condivisione degli obiettivi: un insieme di fattori ben riassunto nella formula, ormai celebre, di ‘comunità educante’.
Silvia Angeletti, PhD, è professoressa associata di Diritto ecclesiastico e canonico nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Perugia. È autrice di lavori monografici, articoli e saggi, pubblicati in riviste e volumi italiani e stranieri. Tra le sue pubblicazioni si segnalano: I minori tra diritto e religione. Libertà religiosa, best interests, educazione (Il Mulino, 2022); Libertà religiosa e Patto internazionale sui diritti civili e politici. La prassi del Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite (Giappichelli, 2008); Poliarchia e bene comune. Chiesa, economia e politica per la crescita dell’Umbria (curato con G. Armillei, Il Mulino, 2010).