
Questa sovrapposizione o convivenza di sfumature è abbastanza tipica del giapponese – sia la lingua sia i parlanti – per ragioni storico-culturali molteplici, fra le quali non v’è da escludere il fatto che la cultura e società nipponiche, anche a livello sociolinguistico, sono ritenute “ad alto contesto”, cioè caratterizzate da riferimenti spesso impliciti in cui vige molto spesso il principio del “dare a intendere” (per il parlante) e del “leggere fra le righe” (per l’ascoltatore), dato che spesso le affermazioni e le opinioni non sono del tutto esplicite ma suggeriscono senza dire chiaramente; un po’ il contrario di quel che avviene in società e culture dette “a basso contesto”, come quella italiana, in cui il non indicare con chiarezza ciò che si vuole dire viene interpretato come un’allusione, o un tentativo di fuorviare, o un’incapacità comunicativa, o un deliberato atteggiamento passivo-aggressivo. Tutto questo per dire che la comprensione dell’accezione esatta di molte parole, in giapponese, è altamente contestuale; così è anche per “manga”, tanto che la parola ancor oggi può designare tante cose diverse, come vignette singole, disegni sparsi, illustrazioni più elaborate, strisce a fumetti, albi a fumetti, nonché disegni animati (in Giappone l’accezione di manga come disegno animato convive con quella, oggi molto più usata e nota, di anime).
La parola, in Giappone, è al centro di quasi tutto ciò che è visivo e disegnato, e infatti un nome classico del cinema d’animazione, privilegiato dal maestro Hayao Miyazaki (Il mio vicino Totoro, Principessa Mononoke, Si alza il vento), è manga eiga, una cui traduzione letterale è difficile proprio a causa o in virtù delle stratificazioni di senso: “eiga” significa immagini in movimento, quindi, più precisamente, cinema; l’aggiunta di “manga” suggerisce il fatto che in questo caso tali immagini in movimento siano disegnate, per cui cinema d’animazione, e non, come una traduzione ingenua suggerirebbe, “cinema a fumetti”, che avrebbe poco senso (ma non ditelo agli inventori del vecchio programma Rai del 1972 Gulp! I fumetti in tv!).
Diverso è, infine, il significato di terebi manga, che in Giappone, fin dagli anni Cinquanta, con l’introduzione nella televisione pubblica dei primi esempi di disegni animati televisivi – prima quelli di produzione statunitense, poi anche quelli che si cominciò a realizzare in patria – indica i disegni animati televisivi; ma qui, in effetti, anche con un riferimento esplicito al fumetto, poiché molti cartoon televisivi erano in effetti sia semi-animati (movimenti limitati ed essenziali, molte immagini fisse) sia spesso tratti da famose serie a fumetti: tale è il caso di Tetsuwan Atomu (“Il fortissimo Atom”, noto da noi soprattutto come Astro Boy), una serie a fumetti di Osamu Tezuka del 1952-68 che, in virtù dell’enorme popolarità nella sua versione cartacea, fu trasposta in semi-animazione nel 1963-66. A proposito di alto contesto: la parola tetsuwan, da me appena tradotta come “fortissimo”, letteralmente significa “braccio di ferro”, ma è una metafora per indicare la potenza del piccolo robot Atom, non va tradotta letteralmente. Infatti i giapponesi, nel tradurre inizialmente il nome del personaggio in inglese per i mercati esteri, suggerirono Mighty Atom, precisamente “Il potente Atom”.
Quando nasce e come si sviluppa la forma manga e quale diffusione conosce a partire dal dopoguerra?
Partendo dall’assunto che non esiste una “forma manga” ma diversi modi di concepire oggetti e forme grafiche tutti denominabili come manga, se diamo al termine il significato di “storie disegnate in sequenza” possiamo attestarne lo sviluppo primigenio alla seconda metà del XIX secolo, analogamente a come avvenuto in Europa e negli Stati Uniti per i fumetti. Il termine manga è attestato nell’uso letterario e saggistico in Giappone già nel XVIII secolo per indicare, come detto sopra, disegni e bozzetti, ma è dalla prima metà dell’Ottocento che si afferma, grazie alla progressiva pubblicazione, a partire dal 1814, dei 15 volumi di illustrazioni, studî, divertimenti grafici e dettagliate stampe bicromatiche di Katsushika Hokusai, intitolati collettivamente Ede-hon Hokusai manga (“Disegni di Hokusai – Raccolta di esempi illustrati”).
In Europa la parola circola per indicare questi disegni di origine giapponese dal 1867, quando all’Esposizione Universale di Parigi fu messa in mostra una selezione di opere di Hokusai appunto con la titolazione “Hokusai manga”. Durante il tardo Ottocento, in Giappone, avvenne un avvicendamento di linguaggi e modalità d’espressione grafica nella nascente e pimpante editoria popolare che portarono, gradualmente, all’insistito e poi regolare uso delle vignette in sequenza per l’illustrazione politica, satirica e di commento. Ciò grazie sia all’iniziativa di impresari europei che, con altri agenti giapponesi, fondano riviste grafiche sul modello di quelle britanniche, tedesche e francesi di quegli anni, sia all’importazione di alcune famose strisce a fumetti americane, le quali vengono prese a modello dai primi veri e propri fumettisti giapponesi. Fra costoro spicca il nome di Rakuten Kitazawa, il quale dal 1902 diresse la rivista Jiji Manga, supplemento del quotidiano Jiji Shinpō. Fu l’inizio della consacrazione tanto del termine quanto della forma manga come fumetto modernamente inteso.
Ciò detto, occorre aggiungere che le sembianze del manga per come lo vediamo oggi si sviluppano con maggiore e definitiva compiutezza dal 1946, con una moltiplicazione delle riviste illustrate per bambini e ragazzi, l’assegnazione al fumetto di maggiori spazi in tali riviste, l’esplosione dell’editoria a noleggio in cui i fumetti – spesso dozzinali e realizzati in fretta e furia – occupano una parte molto importante per l‘infanzia e la gioventù poverissime del dopoguerra, e un rinnovamento stilistico e narrativo impresso da alcuni disegnatori e inventori di storie di enorme talento come Katsuji Matsumoto (1904-1986), Toshiko Ueda (1917-2008), Machiko Hasegawa (1920-1992), Shigeru Mizuki (1924-2015), Osamu Tezuka (1928-1989), Masako Watanabe (1929-), Heiko Hanamura (1929-2020), Sanpei Shirato (1934-), Makoto Takahashi (1934-), Mitsuteru Yokoyama (1934-2004), Fujiō Akatsuka (1935-2008), Miyako Maki (1935-), Takao Saitō (1936-), Shōtarō Ishinomori (1938-1998) e via via altri, fino ai nomi più noti attivi fin dagli anni Sessanta-Settanta-Ottanta che ancor oggi sono editi con successo anche in Italia.
Fondamentalmente, la forma manga contemporanea si sviluppa, dagli anni Cinquanta, secondo tre direttrici: (1) il pubblico dei ragazzi e delle ragazze, con storie avvincenti, emozionanti, commoventi e in generale dotate di un qualche messaggio positivo, ottimista ed educativo, quale che sia il genere narrativo (dalla commedia alla fantascienza, dall’avventura al dramma romantico); (2) il pubblico adulto popolare, nella forma degli e-hon manga (libretti tascabili a noleggio dalle storie talora umoristiche talaltra avventurose, ma di fattura sgangherata e di rapido consumo) e degli e-monogatari (storie in formato più oblungo verticale simili ai comic book americani e a essi ispirati, con storie spesso cupe, dai predominanti inchiostri neri o dal tratteggio classicheggiante, ispirati talora ai samurai e a figure storiche del Giappone, talaltra alle strisce americane di autori come Raymond, Hogarth, Foster e agli albi di eroi muscolosi e spettacolari come Tarzan, Superman, Batman, Flash ecc.); (3) un pubblico adulto prima operaio-proletario e poi, progressivamente, borghese-universitario, più esigente e dagli interessi letterari più spiccati: questo filone verrà chiamato, dal suo fondatore Yoshihiro Tatsumi (1935-2015), gekiga, “storie drammatiche”, una distinzione di campo – estetica, tematica, di pubblico – rispetto al manga tipicamente inteso dal pubblico di massa.
Per gli ulteriori sviluppi e altri discorsi di approfondimento, non posso che rimandare al mio libro…
Quale ruolo sociale e mediale riveste in patria il fumetto nipponico?
Diversamente da quanto accade nella maggior parte dei paesi europei (a parziale esclusione del Belgio e della Francia), in Giappone il fumetto oggi, dopo decenni di reputazione liminare fra forma per illetterati e passatempo per l’infanzia, ha acquisito lo status di vero e proprio patrimonio culturale nazionale. Questo fenomeno di legittimazione pubblica è il risultato della convergenza di dinamiche quasi indipendenti ma che possono essere viste in fondo come fra loro permeabili. Una, per esempio, è la “crescita” del manga come linguaggio e forma narrativa, che nei decenni si è spostata, grazie ai suoi autori e ai redattori delle case editrici, da forma quasi esclusivamente per ragazzi e adolescenti a lettura destinata anche agli adulti. Inoltre il manga pervade la cultura dei media e la comunicazione visiva in Giappone molto di più di quanto non avvenga dalle nostre parti: gli stili cartooneschi e i personaggi macchiettistici e dalle forme rotonde sono spesso protagonisti di campagne di comunicazione pubblica o della segnaletica stradale, cosa tutto sommato quasi impensabile da noi. La crescente popolarità internazionale del manga come industria culturale/creativa, con un numero enorme di titoli venduti a case editrici straniere (processo parallelo e complementare alla compravendita dei diritti esteri delle serie e dei film d’animazione, un cui buon 60% è tratto proprio da manga famosi), ha poi invogliato i Ministeri della Cultura e degli Esteri giapponesi a cercare di usare il manga come volano per strategie anche abbastanza in pompa magna – per quanto poco organiche e non sempre efficaci – di diplomazia culturale presso molti paesi stranieri. Questo lo si è potuto vedere benissimo nel famoso filmato promozionale lanciato nel 2016 per le Olimpiadi di Tokyo 2020 – in cui figuravano sequenze con il gattone-robot Doraemon, la gattina del merchandising Hello Kitty e i famosi piccoli calciatori dei manga Holly e Benji – e nell’ulteriore sfoggio di personaggi dei manga e degli anime durante le Olimpiadi, svoltesi di fatto quest’estate: Naruto, Dragon Ball, L’attacco dei giganti e chi più ne ha più ne metta. Oggi esistono in Giappone numerose facoltà universitarie e accademie di belle arti che offrono interi programmi di studio sul manga (storia, teoria, tecniche). Proprio nel novembre 2019, poco prima della pandemia, mi sono recato all’accademia di belle arti di Kyoto per intervistare un famoso mangaka (autore di fumetti) che insegna, con grande affluenza di studenti giapponesi e stranieri, tecniche del manga. E se in Italia il pur bellissimo e attivissimo museo e centro culturale Wow! Spazio Fumetto di Milano diretto da Luigi F. Bona occupa purtroppo una posizione culturale ancora abbastanza marginale in Italia (anzi, andate a visitarlo!), in Giappone i vari musei e centri artistici dedicati al manga, fra i quali spicca il KIMM (Kyoto International Manga Museum), sono attrazioni primarie nel panorama turistico-culturale giapponese per decine di migliaia di visitatori locali e stranieri ogni anno.
A cosa si deve l’enorme e ormai consolidata popolarità di questa forma narrativa in Italia e in Europa?
Non so se “enorme” sia la parola più giusta per definire il successo del manga, ma dipende dagli ordini di grandezza a cui ci riferiamo. Questo riguarda anche le recenti notizie divulgate dagli organi di stampa secondo cui per la prima volta alcuni titoli di manga sono in testa alla classifica dei “libri” più venduti: se è indubbio che i manga hanno attraversato in anni recenti una nuova, notevole e inattesa ascesa a livello di vendite dopo il primo boom degli anni Novanta e primi Duemila e poi un periodo di calo o stagnazione, le modalità di misurazione delle vendite sono opinabili, perché mettono insieme narrativa solo alfabetica (romanzi) e narrativa grafica (fumetti seriali e non-seriali), i quali come categorie di prodotto hanno prezzi, foliazioni e modalità di lettura/consumo diversi. Ciò detto, la popolarità dei manga in Italia è stata costruita fin dal 1979, quando cominciarono a essere pubblicati i primi titoli dalla Fabbri e dalla RCS, sulla scia delle celebri serie animate televisive che furoreggiavano in quegli anni (Il Grande Mazinger, Mazinga Z, Atlas Ufo Robot, Candy Candy e molte altre). Manga e libri illustrati con gli eroi televisivi provenienti dal Giappone furono editi fino al 1986-87, e dopo un brevissimo periodo di interludio nel 1990 ricominciò una nuova e più organica, sistematica, “esperta” e “scoppiettante” strategia di acquisti a man bassa dagli editori giapponesi e pubblicazione tempestiva di manga da parte di nuovi attori editoriali, sull’onda della nostalgia e dell’immarcescibile passione per i personaggi nipponici da parte di una, oggi due, anzi tre generazioni di lettori/spettatori assidui, che nei manga trovano anche una forma di identità di gusto che li distingue culturalmente e li raggruppa in una vera e propria comunità di appassionati in cui riconoscersi e distribuita su tutto il territorio nazionale.
Sul piano della fascinazione per i manga, le ragioni sono molte e le ho analizzate nei miei libri Il Drago e la Saetta e Mazinga Nostalgia, e ne parlo anche in questo nuovo saggio per i tipi di Carocci, I manga: gli autori giapponesi riescono spessissimo a creare un rapporto intimo fra i loro personaggi e i sentimenti dei lettori, coinvolgendoli in modo molto intenso nei mondi affettivi, morali e relativi allo sviluppo personale dei personaggi, che saranno fittizi ma entrano in forte risonanza con le istanze esistenziali dei loro lettori. Questo è qualcosa che solo raramente i fumetti europei o americani riescono a fare; i fumetti occidentali in realtà istituiscono a volte questo tipo di intimità nel formato del graphic novel, con la differenza che il graphic novel si pone spesso come fumetto diaristico quasi confessionale dalle intenzioni e dall’atteggiamento romanzeschi, laddove i manga imprimono il loro impatto emozionale intimo e profondo in storie anche del tutto assurde, fantasy, fantascientifiche, mai rinunciando a elementi di umorismo demenziale e grottesco, a dosi occasionali di allusioni erotiche o rappresentazioni esplicite, con libertà, irriverenza e gusto per lo sberleffo. Questa flessibilità del manga viene colta dal suo pubblico, giovane o adulto che sia, e adoperata come un’immersione in mondi altri – e non banali – che è difficile trovare in altre forme d’intrattenimento realizzate in Occidente. Io penso che questo sia un segreto di Pulcinella: chiunque legga un manga senza preconcetti può rendersene conto.
Marco Pellitteri (Palermo 1974) è Professore associato di Media e comunicazione nella School of Humanities and Social Sciences della Xi’an Jiaotong-Liverpool University (Suzhou, Cina). È un sociologo dei media e dei processi culturali con esperienza di ricerca in Europa e in Giappone (ha lavorato all’Università di Kobe per diversi anni). Fra le sue pubblicazioni in italiano, i libri Il Drago e la Saetta. Modelli, Strategie e identità dell’immaginario giapponese (Tunué 2008, ed. ingl. 2010), Mazinga Nostalgia. Storia, valori e linguaggi della Goldrake-generation dal 1978 al nuovo secolo (I ed. Castelvecchi 1999, IV ed. riv. e ampl. in 2 voll. Tunué 2018), Conoscere l’animazione. Forme, linguaggi e pedagogie del cinema animato per ragazzi (Valore Scuola 2004), Sense of Comics. La grafica dei cinque sensi nel fumetto (Castelvecchi 1998), oltre ad altre monografie e curatele e numerosi articoli in riviste accademiche internazionali sulla comunicazione, il cinema e i linguaggi visuali, fra le quali Asian Journal of Communication, Kritika Kultura, Journal of Italian Cinema and Media Studies, Japanese Journal of Animation Studies, International Journal of Comic Art, Théorème, H-ermes, Cabiria, Annali dell’educazione e delle istituzioni scolastiche, Storia e problemi contemporanei, Mutual Images (di cui è anche direttore) e altre. Inoltre è appena uscita una sua importante curatela in inglese, Japanese Animation in Asia: Transnational Industry, Audiences, and Success (con H.-W. Wong, per l’editore accademico britannico-statunitense Routledge). Ha conseguito il dottorato in Sociologia e Ricerca Sociale all’Università di Trento. Dirige le collane di saggistica dell’editore Tunué.