
Una cosa sembra certa: le note leggende a proposito dell’origine scandinava dei Longobardi, riportate dal loro cronista Paolo Diacono e dalla precedente Origo gentis Langobardorum, non trovano, almeno fino ad ora, adeguati riscontri archeologici. E anche i primi passi della loro migrazione continuano ad essere incerti e oscuri, in quanto per nulla o quasi documentati dalle testimonianze scritte. Quello che possiamo assumere è che i Longobardi si connotarono sin dalle più remote origini come popolo guerriero (“combattenti” era il significato del primo nome con cui ci sono noti, Winnili) e ribadirono tale identità quando, nelle prime fasi della loro migrazione, incontrarono e sconfissero i Vandali: fu infatti allora che assunsero, secondo la leggenda fondante, il nome di Longobardi (“lunghe barbe”), dato loro dal dio della guerra Godan/Wotan/Odino che concesse loro la vittoria sui rivali. Cambiando il proprio assetto tribale attraverso l’assunzione – appunto – del culto odinico, di matrice guerriera, il “popolo delle lunghe barbe” si connotò dunque per la grande bellicosità, una caratteristica che diverrà parte integrante della loro stessa identità e che come tale sarà percepita dai cronisti sia latini (ad esempio Velleio Patercolo) che di area bizantina (Procopio, Giordane) quando li incontreranno e li descriveranno. Tale identità “tribale” era legata indissolubilmente al concetto di popolo-esercito (solo gli uomini liberi avevano il diritto-dovere di portare le armi) e a rituali e simbologie pregnanti, prima fra tutte la scelta del sovrano da parte dell’assemblea dei guerrieri (il gairethinx) mediante l’elevazione delle lance (la lancia era l’arma di Odino).
Al pari delle altre popolazioni “barbariche”, anche i Longobardi, va detto con chiarezza, non erano tuttavia un gruppo chiuso e impermeabile alle influenze esterne, anzi. Prova ne sia che durante il tragitto dal nord Europa alle porte della penisola inglobarono altre stirpi e, soprattutto durante il soggiorno nell’ex provincia romana della Pannonia (coincidente con l’odierna Ungheria e parte dell’Austria, della Croazia e della Slovenia), adottarono e rimodularono costumi, usanze funerarie, abiti, simboli e tecniche di combattimento apprese dal contatto con le genti delle steppe (Avari e Gepidi soprattutto). Si può anzi dire che il soggiorno pannonico possa a buon diritto essere considerato come il vero “crogiolo” dell’identità longobarda: il bacino, cioè, in cui essa si arricchì e maturò pienamente prima di venir di nuovo messa in discussione nel momento in cui essi, guidati da Alboino, intrapresero il decisivo viaggio che li avrebbe condotti verso la loro ultima meta, l’Italia. I Longobardi che entrarono nella penisola (insieme, peraltro, a contingenti svevi, turingi, gepidi, sarmati e a circa ventimila sassoni che poi però tornarono sui loro passi) erano quindi già molto diversi dai Longobardi delle origini. La successiva avventura italiana ne modificherà ulteriormente, e in maniera sostanziale e irrimediabile, l’assetto culturale grazie al quotidiano confronto con il mondo mediterraneo – già iniziato, per la verità, in Pannonia e concretizzatosi con la partecipazione di contingenti militari nella guerra greco gotica a supporto dei bizantini -, con le istituzioni del “vecchio” impero ereditate da Costantinopoli, e infine con la componente cristiana rappresentata da buona parte degli italici e dal Papato. Con tutte queste realtà i Longobardi, dopo la prima turbolenta fase di conquista, seppero alla lunga stabilire un proficuo dialogo, trasformandosi profondamente e acquisendo un’identità originale e ricchissima. Al punto che al tramonto del Regno, nell’ultimo quarto dell’VIII secolo, la gens Langobardorum si era ormai mutata in qualcosa di profondamente diverso non solo da quella stirpe “più feroce della ferocia germanica” che, a cavallo dell’era cristiana, aveva tanto impressionato Velleio Patercolo, ma anche dalle fare che avevano seguito Alboino alla conquista della penisola.
Com’è strutturato il libro e che taglio ha dato all’argomento?
Il volume si articola in tre parti e una conclusione che tratta la “fortuna” e la “sfortuna” dei Longobardi dal Medioevo a oggi. In 300 pagine circa ho provato a toccare e analizzare, con un approccio multidisciplinare e per la prima volta, tutti gli aspetti della complessa epopea del popolo longobardo: dalle vicende storiche, oggetto di disamina nella prima parte, alle fonti – narrative, documentarie e materiali – che ci parlano di loro, criticamente inquadrate, fino ai vari aspetti della vita materiale, trattati ampiamente nella terza parte, la più corposa. Anche se il volume è diretto a un pubblico vasto, non ho voluto trascurare le problematiche al centro dell’attuale dibattito storiografico e scientifico: oltre alla citata questione dei “marcatori etnici” quella, altrettanto spinosa, dell’etnogenesi del popolo longobardo. Vi è poi la valutazione, fondamentale, dell’impatto che i Longobardi (e in genere i “barbari”) esercitarono sull’universo politico, civile, economico e culturale della penisola (e più in generale dell’impero): se esso, cioè, debba essere interpretato – è la tesi della storiografia tradizionale – come uno scontro violento e irriducibile tra mondi contrapposti oppure – come invece ultimamente si è più propensi a ritenere – come un incontro/scontro che si è consumato nel segno della trasformazione reciproca. Il dibattito, stimolante per quanto a volte anche polemico, oppone i fautori della tesi “discontinuista” ai sostenitori dell’idea “continuista” e tocca temi-chiave e fortemente attuali come l’identità dei popoli, gli scambi e i rapporti di acculturazione, contribuendo a migliorare la nostra conoscenza di un periodo, quello del passaggio dall’antichità al Medioevo, assai complesso e di un popolo, quello longobardo, le cui vicende continuano a suscitare nuovi interrogativi e nuovi spunti di riflessione.
Quali vicende segnarono l’epopea longobarda nel nostro Paese?
La storia dei Longobardi, come dicevo, viene narrata e analizzata nelle sue varie fasi nella prima sezione del volume, che segue i loro spostamenti dalle mitiche e nebulose origini fino all’Italia per poi narrarne le vicende dal 568, anno in cui Alboino li guidò in Italia, al 774, quando il Regno fu vinto e conquistato da Carlo Magno. Ovviamente la parte più ampia è dedicata alla storia italiana dei Longobardi, di cui in successivi capitoli vengono presi in esame non solo i singoli fatti storici – citati e inquadrati alla luce delle fonti coeve e della più recente critica – quanto soprattutto le modalità dell’occupazione, l’istituzione del regno e dei ducati, il progressivo consolidarsi della nuova entità statale, così come il progressivo delinearsi di un’opposizione interna anche violenta, le lunghe guerre con i bizantini e i franchi, l’altalenante e problematico rapporto con il Papato: una questione irrisolta, quest’ultima, che si rivelerà determinante per la fine del Regno stesso in quanto sarà alla base della richiesta, da parte della Santa Sede, dell’intervento risolutivo dei Franchi. Naturalmente non c’è un singolo fatto storico, o più fatti storici presi singolarmente, che segnarono in un verso o nell’altro la vicenda dei Longobardi in Italia, giacché gli stessi vanno sempre letti all’interno del contesto, più ampio e problematico, in cui si verificarono. In generale possiamo però dire che la storia longobarda in Italia è una storia di conflitti, sia esterni – come detto, contro i bizantini, contro la nascente e poi galoppante potenza dei Franchi, contro i bizantini, eccetera – sia sul fronte interno, nel perpetuo tentativo di superare il concetto di monarchia “tribale” caro all’aristocrazia tradizionalista e contro le spinte “autonomistiche” dei singoli duchi (soprattutto quelli di Spoleto e Benevento, ma anche quelli del Nord est). In questo scenario una serie di personalità non comuni segnarono irrevocabilmente il corso della storia longobarda in Italia. L’azione di Teodolinda e Agilulfo fu, all’inizio del VII secolo, cruciale per il primo consolidamento del Regno, che fu ottenuto sia con la scelta di Milano (ex capitale imperiale e sede della diocesi ambrosiana, nonché crocevia commerciale) come residenza, sia attraverso l’adozione di precisi cerimoniali e simbologie di stampo romano-bizantino che all’epoca erano ritenuti in grado di conferire alla monarchia quel prestigio necessario per affermarsi su scala italiana ed europea. Nella stessa ottica la coppia regia gettò anche le basi per il lungo (e accidentato) processo di conversione dei Longobardi al cattolicesimo, necessario per l’avviamento della fusione tra vincitori e vinti e quindi per imporsi come sovrani non più dei soli Longobardi ma “totius Italiae”, di tutta Italia: una fusione che potrà dirsi realizzata, e forse neppure del tutto, soltanto in età liutprandea. Di capitale importanza è anche l’azione di Rotari, al quale si deve la prima “sistematizzazione” del patrimonio giuridico longobardo, di stampo consuetudinario e valevole per i soli membri della gens: l’Editto che porta il suo nome, emanato il 22 novembre 643 a Pavia per ricompattare i suoi alla vigilia di una nuova campagna espansionistica ai danni dei territori bizantini, rappresenta tuttavia nel contempo un primo passo verso il progressivo superamento del diritto tradizionale (l’editto è steso in latino con la probabile collaborazione di funzionari italici): un processo che si perfezionerà, anche in questo caso, solo nel pieno VIII secolo con il “piissimo” Liutprando. Quest’ultimo, in ossequio alla dottrina cattolica introdusse nuove norme per la tutela dei poveri, delle donne – alle quali venne riconosciuta la capacità successoria – e dei fanciulli, favorì la manomissione dei servi e vietò le pratiche pagane; inoltre permise formalmente i matrimoni misti (ancora vietati da Rotari), superando definitivamente le divisioni etniche ed equiparando il diritto dei due popoli, ormai concepito soltanto su base territoriale e non più sul principio della personalità, come invece era stato tradizionalmente sin dalle origini. L’epoca di Liutprando rappresenta, anche sul piano culturale e artistico, l’apogeo della vicenda longobarda in Italia: non a caso Paolo Diacono avrebbe scelto di concludere con la dipartita del sovrano la sua monumentale “Historia Langobardorum”, l’opera con la quale consegnò ai posteri la straordinaria e irripetibile epopea del suo popolo.
Quali usi e costumi avevano?
A questo tema, assai complesso, ho dedicato la terza parte del volume, la più corposa, e direi che è davvero impossibile sintetizzarlo in breve. Alcune cose però di possono dire. La prima, e più importante, è (come ho già detto) che i Longobardi – così come le altre popolazioni del Barbaricum – sono stati protagonisti, nel corso della loro lunga storia, di grandi trasformazioni e mutamenti, cambiamenti che li hanno portati ad evolversi e a “cambiare pelle” in maniera consistente man mano che entravano in contatto con altre popolazioni e subivano il processo di acculturazione. Nel libro ho dedicato un intero capitolo, ad esempio, alle tradizioni mutuate, in Pannonia, dai popoli delle steppe orientali: usi funerari come l’adozione di un simulacro a forma di pertica sormontata da una colomba di legno per commemorare i guerrieri morti lontano, il sacrificio e la sepoltura rituale del cavallo in occasione della morte del suo cavaliere, la libagione nei crani dei nemici uccisi, l’impiego delle cavalcature (e delle staffe) nel combattimento, la deformazione artificiale dei crani. Un altro capitolo è dedicato agli insediamenti e alle città, alle tipologie e ai modi di occupare e abitare il territorio; e poi ancora, una serie di capitoli monografici sull’armamento e le tecniche di combattimento, sul ruolo della donna, sul culto dei morti e le pratiche funerarie, sul credo religioso, sugli aspetti giuridici, sull’abbigliamento, l’alimentazione, l’economia, la lingua e la scrittura, l’arte e l’artigianato… Ho trattato, insomma, tutti gli aspetti della vita materiale, il tutto tenendo conto degli ultimi ritrovamenti archeologici e delle più recenti acquisizioni scientifiche, alcune delle quali decisamente… sorprendenti.
Quali monumenti ci hanno lasciato i Longobardi?
Purtroppo dei tanti edifici costruiti in epoca longobarda oggi è rimasto ben poco. Molto, specie in ambito civile, è andato distrutto. Molto altro, soprattutto per quanto concerne chiese, monasteri e fondazioni religiose, ha subito nei secoli trasformazioni tali da renderne irriconoscibile l’aspetto originario, relegandone la “ricostruzione virtuale” alle campagne di scavo archeologico. I monumenti che forse hanno mantenuto maggiormente il loro legame con la civiltà dei Longobardi sono i sette che, il 25 giugno 2011, sono entrati nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’Unesco come parte del sito seriale I Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.): il Tempietto Longobardo di Cividale del Friuli (Udine), il complesso monastico di San Salvatore-Santa Giulia a Brescia, il castrum di Castelseprio-Torba (Varese), il Tempietto del Clitunno a Campello e la Basilica di S. Salvatore a Spoleto (Perugia), la Chiesa di Santa Sofia a Benevento e il Santuario Garganico di San Michele a Monte Sant’Angelo (Foggia). Si tratta di sette luoghi-simbolo che rispecchiano, ciascuno con le proprie straordinarie caratteristiche, l’universalità della cultura longobarda nel momento della sua massima espressione. Ma, ovviamente, non si tratta delle uniche testimonianze: cito solamente, fra i tanti, l’abbazia di San Pietro in Valle a Ferentillo, in Umbria, chiesa-mausoleo dei duchi di Spoleto che ne conserva ancora i sarcofagi, luogo straordinario dove la presenza longobarda è ben percepibile, anzi direi proprio palpitante. Va sottolineato che in molti casi, purtroppo, l’impossibilità di individuare elementi originali “in alzato” ha impedito a vari monumenti di pur comprovata e fondamentale tradizione longobarda l’inclusione nella suddetta candidatura Unesco: esempi eclatanti sono la basilica di San Giovanni (ora Duomo) di Monza, fondata da Teodolinda e suo luogo di sepoltura, così come le tante chiese di Pavia, a lungo capitale del regno, a cominciare dalla basilica di San Michele Maggiore, intitolata al loro patrono per eccellenza. Su questo aspetto, ossia sui “luoghi dei Longobardi”, sto scrivendo un libro che uscirà, si spera, entro la fine dell’anno 2020.
Qual è l’eredità storica e culturale dei Longobardi?
Le tracce lasciate dai Longobardi sul territorio italiano sono molte e di vario genere. Oltre a quella rappresentata dai citati retaggi monumentali, l’eredità longobarda si può ritrovare sicuramente, a livello immateriale e “sotterraneo”, in alcuni usi e costumi, così come in tante parole di uso comune – specie quelle di carattere “pratico” come banco, spalto e panca, graffiare e trincare – entrate dapprima nei volgari e poi nell’italiano. Lasciando da parte la toponomastica, la cui attendibilità è oggetto di parecchie critiche (si è osservato, ad esempio, che molti nomi di luoghi ritenuti “longobardi” appaiono soltanto in documenti tardi e possano provare al massimo il perdurare dell’influenza longobarda ma non la presenza effettiva di un insediamento), elenchiamo i cognomi con terminazione in -aldi, -ardi, -baldi, -boldi, -berti, -brandi, – enghi, -fredi, -fridi, -landi, -inghi, -manni, -mani, -mondi, -mundi, -oldi, -olfi, -perti, -poldi, -prandi, -richi i quali, “nati” lentamente dopo il Mille in poi, paiono riecheggiare ancora oggi la cadenza suggestiva delle antiche lingue germaniche. L’influsso della legge longobarda, tramandata complessivamente in sedici codici manoscritti, fu enorme e sopravvisse alla caduta del Regnum, perdurando nei documenti privati – compravendite di terreni, permute, donazioni, testamenti – stilati per lunga parte del Medioevo. Dal IX e fino al XIII secolo circa buona parte degli atti privati della Langobardia maior contiene la cosiddetta “professione di legge longobarda”, esplicitata dalla formula «Ego, qui (o quae) professus (professa) sum ex natione mea lege vivere Langobardorum» (cioè «Io, che dichiaro in base alla mia etnia di vivere secondo la legge dei Longobardi»). Tali dichiarazioni si leggono, ad esempio, nelle pergamene vergate in tutta l’area insubrica, da Lecco a Calco, da Como a Vimercate e nei territori che facevano capo all’antica iudiciaria, e poi comitatus, del Seprio, oggi in provincia di Varese. Basti pensare che quando Bergamo e il suo territorio, nel 1427, passarono da Visconti a Venezia, le nuove autorità furono costrette a imporre il diritto comune per decreto, tuttavia istituti giuridici longobardi rimasero in uso ancora fino almeno al Cinquecento (come il morgingab o dono del mattino, citato in un documento del 1552): segno eloquente della difficoltà di estirpare abitudini radicate nelle consuetudini, in continuità con il passato longobardo. Nel Mezzogiorno rimasto indipendente fino all’avvento dei Normanni, poi, il diritto longobardo rimase in vigore anche dopo la fine del Regnum, sicché l’Editto di Rotari venne aggiornato sia da Arechi II che da Adelchi, diventando parte integrante di quello che Stefano Gasparri definisce il «manifesto politico del revanscismo longobardo incarnato dai principi di Benevento». A livello artistico, infine, possiamo dire che i Longobardi compirono il “capolavoro”, sia nell’oreficeria (campo in cui eccellevano, come dimostrano gioielli, crocette auree, fibule e decorazioni di armi e cinture) che in ambito monumentale, di produrre una sintesi tra le suggestioni provenienti dal mondo cultuale, culturale ed estetico “barbarico” e gli stilemi espressivi tipici di quello romano-bizantino e mediterraneo-orientale, a sua volta fecondato in chiave cristiana. Al modello romano, reinterpretato “alla longobarda”, si ispirarono in maniera sistematica tutti i sovrani da Liutprando in poi, dando vita a una “rinascenza” che conosce i suoi vertici espressivi a Cividale, Pavia e Brescia. Una Renaissance resa possibile grazie all’interazione e alla compresenza di maestranze stabili e itineranti – come forse i famosi “magistri comacini” – provenienti da contesti eterogenei, che diffondevano il loro “know how” tecnico e la loro sensibilità artistica in un perenne e fecondo confronto.
È evidente, insomma, che il contributo dato dai Longobardi alla costituzione dell’identità italiana sia stato ampio e profondo. Portatori di un’antica cultura “nordica” e tribale, i Longobardi seppero “mettersi in discussione” e trasformarsi pian piano assimilando gli elementi derivanti dalla prestigiosa tradizione romano-bizantina e i valori “nuovi” del Cristianesimo, integrando il tutto con i valori pagani e tribali di cui erano portatori. Il risultato di tutto ciò è una prodigiosa “sintesi tra mondi” fortemente caratterizzante per la futura storia d’Italia, in tutte le sue ricchissime contraddizioni. Questo processo ha consentito alla penisola di confermare, ancora una volta, quel ruolo di “crocevia di culture” e di “cerniera” tra Europa continentale e Mediterraneo che l’ha sempre contraddistinta sin dalla preistoria. E che oggi è tornato ad essere percepibile in tutta la sua eccezionale, e a volte purtroppo anche drammatica, attualità.
Elena Percivaldi, milanese, è storica medievista e giornalista professionista. Collabora con riviste come “Archeo”, “Medioevo”, “BBC History” ed è direttore del notiziario “Storie & Archeostorie”. Membro di associazioni e comitati scientifici, affianca all’attività di relatrice in incontri e conferenze in tutta Italia la curatela di mostre e di eventi, specie sui Longobardi. Ha all’attivo oltre una ventina di libri, molti dei quali tradotti all’estero. Sito web: www.perceval-archeostoria.com