
Il Lessico dei dieci oratori di Arpocrazione costituisce senza dubbio una preziosa fonte giuridica di cognizione, per almeno tre ordini di ragioni.
La prima è senza dubbio il contenuto, in quanto vi sono raccolte e glossate numerose espressioni selezionate dall’autore nei discorsi giudiziari a sua disposizione, molti dei quali andati oggi perduti. Una parte piuttosto significativa di esse fornisce informazioni utili allo storico del diritto, nella maggior parte dei casi perché riferentesi all’ambito giusgrecistico, ma talora anche perché vi si possono scorgere dei condizionamenti riconducibili al contesto presente all’autore (verosimilmente l’Egitto del secondo secolo dopo Cristo).
In secondo luogo, il glossario si basa su una notevole quantità di testi ad oggi perduti, i quali avrebbero potuto attestare usi e accezioni della terminologia giuridica non riscontrabili nelle fonti pervenuteci o aiutarci a fare chiarezza su di esse.
Infine, il lexikon presenta le voci in ordine alfabetico, risultando dunque di agevolissima consultazione anche per lo studioso moderno, che può facilmente avvalersi dei singoli lemmi di suo immediato interesse.
Proprio per questo motivo, è tanto più necessaria la conoscenza delle peculiarità e intenti dell’opera, in modo tale da aver chiari i limiti e l’attendibilità di un testo così facilmente e rapidamente utilizzabile e poter fronteggiare anche le ipotesi in cui la sola fonte disponibile sia proprio Arpocrazione.
Quando fu composta l’opera e come si articola il testo?
Il contesto cronologico di Valerio Arpocrazione – che la Suda definisce alessandrino e ricollega anche a una Silloge delle fiorite espressioni andata perduta – è stato alquanto dibattuto in letteratura.
Secondo una prima tesi, il lessicografo sarebbe menzionato da Libanio (Epist. 367 e 371) come vivente intorno all’anno 353. La facile contestazione che potrebbe trattarsi con alta probabilità di un caso di omonimia, considerata la diffusione in Egitto del nome in questione, apre però spazio a differenti ipotesi.
Ad esempio, alcuni studiosi hanno inferito la redazione del lessico sotto Tiberio dal mancato riferimento ad autori successivi. Il terminus post quem, infatti, sarebbe fissato dalla citazione nel testo di due intellettuali dell’età di Augusto: Dionigi figlio di Trifone e Dionigi di Alicarnasso.
Anche questa proposta, però, non è al riparo da possibili critiche, poiché a rigor di logica non può essere di certo esclusa un’ulteriore posteriorità dell’opera.
Sulla base del rapporto di alcune voci con Athen., 585 f-593 a, infatti, il grammatico potrebbe essere più verosimilmente collocabile nel secondo secolo, quando Giulio Capitolino (Verus 2) lo elencherebbe insieme a Telefo ed Efestione tra gli eruditi greci cui fu affidata l’istruzione di Lucio Vero.
Inoltre, P. Oxy. XVIII.2192, c. II, ll. 28-45, risalente proprio al II secolo d.C., riporta l’indicazione resa da un tale Arpocrazione circa la collocazione degli scritti del commediografo Ipsicrate fra i libri di Pollione. Costui dovrebbe identificarsi con Valerio Pollione, autore di una Synagoge Attikon lexeon e padre di Valerio Diodoro, poco oltre menzionato dalla medesima fonte quale direttore della biblioteca del Museo alessandrino e che sappiamo inoltre essere l’intestatario di una ricevuta datata 31 marzo 173.
L’identificazione dell’Arpocrazione qui nominato con l’autore del Lessico dei dieci oratori e non con l’omonimo sophistes ricordato dalla Suda sarebbe evidentemente confortata dal comune gentilizio dei Valerii, a cui il primo sarebbe stato legato da un vincolo parentela o di affrancazione.
In aggiunta, un papiro databile tra la fine del secondo e l’inizio del terzo secolo d.C. fornisce altresì un terminus ante quem¸ ovviamente ancora ignoto agli studiosi che hanno proposto datazioni più tarde.
La tesi della collocazione nel secondo secolo pare dunque la più convincente, poiché confortata dalla maggior copia di indizi univoci e concordanti, e tale assunto non pare smentito ma anzi rafforzato dai riferimenti al contesto presente al lessicografo disseminati nel corpo dell’opera, anche se questi non sono da soli sufficienti, neppure in via indiretta, a suggerire un più preciso inquadramento.
Quanto all’articolazione del testo, abbiamo già fatto cenno alla scelta stilistico-formale del lexicon alfabetico, tradizionalmente contrapposta a quella onomastica, basata invece sull’accostamento dei termini e delle rispettive glosse per affinità semantica. Il genere letterario, come noto, è un indicatore contenutistico e ideologico fondamentale per i testi antichi e tale antitesi non fa eccezione: entrambe le forme, infatti, si sarebbero ben prestate a opere di supporto alla lettura di prodotti letterari più risalenti, ma con un approccio profondamente diverso. Il lessico, di più agile consultazione, avrebbe consentito un contatto immediato con i testi glossati e una rapida ricerca delle singole espressioni, mentre l’onomastikon avrebbe richiesto al fruitore uno studio preliminare o, quanto meno, lo sforzo esegetico di capire in quale sezione tematica poter trovare le informazioni di suo interesse.
La dicotomia appena descritta avrebbe assunto speciale rilevanza proprio nel secondo secolo, a cui risale la rivalità tra gli atticisti Frinico, allievo di Elio Aristide, e Polluce, il cui Onomasticon ne reca traccia nei libri 8-10.
Quest’ultimo si discosterebbe quindi dalla predilezione atticista per la struttura alfabetica, adottando uno strumento didattico tradizionalmente considerato antiatticista e che ai tempi di Polluce e Arpocrazione aveva ormai assunto tratti conservatori e minoritari.
La scelta organizzativa di Arpocrazione non sembra al contrario rivestire forti connotati ideologici, incarnando innanzitutto una spiccata funzionalità e un intento chiaramente didattico.
Il principio alfabetico, nel dettaglio, vi è applicato in modo piuttosto rigoroso, in quanto non si limita alla lettera iniziale delle parole, ma segue il criterio ordinatore odierno. Tuttavia, in meno del dieci per cento dei casi la collocazione di alcuni lemmi risulta imprecisa, con un’inspiegabile maggiore frequenza alle lettere D e P: è stata avanzata l’ipotesi che tali violazioni siano imputabili direttamente all’autore per ragioni di affinità tematica.
Non soltanto per questa anomalia che pare voluta da Arpocrazione stesso si può escludere che le glosse fossero state riordinate in un’epoca successiva, ma anche perché esistevano già autorevoli precedenti che avrebbero potuto ispirarlo, quali i già citati Valerio Pollione e Valerio Diodoro.
Diodoro, in particolare, avrebbe adottato la medesima disposizione delle voci nella propria riduzione e abbreviazione del Lessico dei dieci oratori di Giuliano, considerato il più importante dopo quello di Didimo e molto attento agli aspetti storici. Il Lessico dei dieci oratori, come si può notare, costituiva quindi un sottogenere letterario di discreta fortuna, che ha impegnato due Valerii con modalità redazionali assai simili.
Il Lessico dei dieci oratori di Arpocrazione si sarebbe pertanto inserito in un filone letterario ben preciso e di un certo successo nel suo peculiare contesto storico- culturale, sia dal punto di vista del genere, sia sotto il più specifico profilo formale.
Quali fonti impiegò Arpocrazione per la redazione dei lemmi giuridici del Lessico?
Come esplicita il titolo dell’opera, l’attenzione di Arpocrazione è rivolta prevalentemente ai più celebri logografi ateniesi, la cui approfondita comprensione rappresenta l’obbiettivo ultimo dell’autore. Spesso, poi, oltre che oggetto dell’interpretazione, le orazioni ne diventano lo strumento, da cui l’autore trae le informazioni per chiarire i punti oscuri di un altro discorso.
Nel dettaglio, Arpocrazione prende in considerazione sia i logoi pubblicistici sia quelli privatistici, senza considerare questi ultimi di minor pregio in ragione del loro argomento; molto spesso il testo delle glosse reca il titolo dell’orazione di riferimento, con la menzione dell’autore ed eventuali dubbi di attribuzione, e talvolta riporta addirittura la citazione diretta del brano.
Il glossario fa poi un larghissimo impiego della Costituzione degli Ateniesi pseudoaristotelica, sia con riferimento alla storia del diritto pubblico, sia per chiarirne i meccanismi e per esporre sinteticamente composizione, funzioni e prerogative di organi e magistrature.
Alla scuola aristotelica l’autore ricorre anche consultando i libri Sulle leggi di Teofrasto, più volte menzionato per il suo apporto alla ricostruzione del sistema costituzionale ateniese.
Il lessicografo attinge poi molte notizie dagli storici, ma più che da Erodoto, Tucidide e Senofonte egli trae informazioni di maggior dettaglio da attidografi quali Filocoro e Androzione, nonché dati sulla Tessaglia e Sparta da Teopompo, Stafilo di Naucrati ed Ellanico di Lesbo.
Un altro genere letterario di cui Arpocrazione si avvale sovente è la commedia, probabilmente perché mette in scena la quotidianità del diritto vivente molto più frequentemente della tragedia: nei lemmi giuridici sono appunto menzionati Frinico, Aristofane, Eupoli, Aristomene Comico, Platone Comico, Eubulo, Timocle, Crobulo, Menandro, Posidippo.
Anche gli intellettuali ellenistici sembrano essere ben conosciuti dal grammatico, vista la specificità dei temi su cui egli rammenta Eratostene di Cirene, Polemone di Ilio e Apollodoro di Atene.
Un verso di Esiodo è riportato senza indicazione del poeta, e solo in un paio di glosse giuridiche compare Platone, mentre un’unica volta si fa cenno ad Antimaco di Colofone, alla raccolta di decreti di Cratero, alle Storie di Filippo di Anassimene di Lampsaco, all’opera su Apollodoro di Euforione di Calcide, ai libri Sulla legislazione di Demetrio Falereo.
Il retore Cecilio di Calatte (I secolo a.C.), insieme a Timachida di Rodi e a Didimo, costituisce la fonte recenziore citata nelle voci riguardanti il diritto attico.
Il primo sarebbe stato autore non soltanto di una biografia dei dieci oratori, ma anche di un lessico atticista probabilmente strutturato proprio nella medesima forma lemmatica rivestita da quello in commento, che dunque potrebbe aver costituito uno dei modelli di Arpocrazione a noi purtroppo non giunti.
In definitiva, dunque, il canone di Arpocrazione si dimostra molto più aperto di quello rigidamente atticista di Frinico, il quale invece si sarebbe esclusivamente richiamato, oltre che ai dieci oratori, alla commedia antica, alla tragedia, nonché a Crizia, Tucidide, Antistene, Senofonte, Eschine socratico, Platone.
Qual è l’attendibilità del Lessico come fonte d’informazioni?
Dato che è spesso possibile tracciare un confronto sia con il senso ricavabile dalla lettura delle fonti dal lessicografo espressamente citate, sia con testimonianze a esse estranee, è verificabile nella grande maggioranza dei casi la generale affidabilità e precisione dei dati e delle interpretazioni forniti.
Quanto appena evidenziato è tanto più notevole se si delinea un paragone con le frequenti difficoltà interpretative poste invece dal libro VIII dell’Onomastikon di Polluce dedicato al linguaggio tecnico-giuridico, il cui tasso di imprecisione piuttosto alto – almeno nell’epitome pervenutaci – ne impone la costante collazione e, ove quest’ultima non sia possibile, l’impiego con doverosa cautela.
Le rare inesattezze o errori riconoscibili in Arpocrazione risultano al contrario di rilevanza quantitativa assai ridotta e ciò dimostra una spiccata sensibilità dell’autore per le questioni giuridiche e, in generale, la sua accuratezza di intellettuale; tale consapevolezza è tanto più utile laddove non sia possibile mettere a confronto la parola del grammatico perché rimastaci l’unica riguardante un determinato aspetto dell’ordinamento ateniese.
Il Lessico dei dieci oratori può essere ritenuto affidabile anche come fonte indiretta per la conoscenza dei testi ivi riportati, in quanto dalla verifica dell’entità delle divergenze con i brani giunti sino a noi per via diretta sono emerse solo omissioni o inversioni nella successione delle parole e una sola aggiunta pleonastica.
Tale generale impressione di affidabilità non deve indurre però lo studioso a impiegare la fonte sconsideratamente: il testo appare infatti animato dal ben preciso scopo di insegnare l’arte dell’eloquenza attraverso la lettura dei passaggi più interessanti delle migliori orazioni attiche e, pertanto, l’autore non sarebbe stato determinato a redigere un vocabolario né a descrivere compiutamente l’ordinamento ateniese, ma soltanto a facilitare il più possibile l’intelligenza di specifiche sezioni dei discorsi dei dieci oratori. Arpocrazione, in altre parole, non sarebbe stato mosso dall’intento di registrare tutte le varianti semantiche di una data espressione, ma ne avrebbe spiegato il significato con riferimento al contesto di un determinato passaggio; soltanto alcune voci di disambiguazione si concentrano su casi eclatanti di polisemia, rispondendo al medesimo intento didattico più che a uno spirito enciclopedico.
Quale rapporto esiste tra il Lessico dei dieci oratori e la tradizione lessicografica successiva?
Le altre opere in forma lemmatica a nostra disposizione dimostrano anche a un superficiale esame un rapporto più o meno profondo di dipendenza da Arpocrazione.
Con l’eccezione di Esichio di Alessandria, infatti, non è raro riscontrare una simile formulazione dello stesso articolo del Lessico dei dieci oratori in Fozio e nella Suda, prima ancora che nel quarto e quinto dei Lexica Segueriana e nel Lexicon Rhetoricum Cantabrigiense, la cui derivazione dal glossario alessandrino è più scontata e acclarata. Un’epitome di Arpocrazione ha costituito inoltre una delle principali fonti della Synagoge lexeon chresimon, compilata in ambiente bizantino tra la fine dell’ottavo e l’inizio del nono secolo.
Un qualche rapporto di discendenza dall’opera egiziana, infine, si può segnalare anche per l’Etymologicum Genuinum, l’Etymologicum Gudianum, l’Etymologicum Magnum, l’Etymologicum Symeonis, il lessico attribuito a Zonara, il Lexicon Vindobonense e il Lexicon Sabbaiticum.
Valentina Casella è autrice delle monografie La trasmissibilità ereditaria della stipulatio (Milano, 2018) e I lemmi giuridici di Arpocrazione. Introduzione, testo, traduzione e commento (Alessandria, 2018), oltre a numerosi articoli e recensioni. Dottoressa di ricerca in scienze archeologiche, storiche e storico-artistiche e abilitata all’esercizio della professione forense, ha fatto parte delle redazioni della «Rivista di Diritto Ellenico» e della «Rivista di Diritto Romano» e oggi insegna con il metodo IB presso la World International School of Torino.