
Questa definizione pone il focus su alcuni aspetti che a mio avviso sono fondamentali, e che cercherò di specificare meglio nella risposta. In primo luogo, il capitale sociale al pari di altre forme di capitale, è costituito da risorse che sono funzionali al raggiungimento di obiettivi specifici degli individui, in altri termini il capitale sociale è una risorsa in prima istanza individuale, ossia attiene ad un individuo specifico, ma è allocata nelle reti sociali di questo individuo, perciò un attore sociale isolato non potrà beneficiare di nessuna forma di capitale sociale, con tutte le conseguenze negative che ne conseguono.
Affinché vengano scambiate, sfruttate o accumulate risorse nel reticolo è fondamentale una conoscenza pregressa tra gli attori implicati. Ne consegue che il capitale sociale, in quanto “capitale” e in quanto “sociale”, possa crearsi esclusivamente in contesti di interazione situata (o mediata), permettendo, a mio avviso, di escludere l’ipotesi secondo cui si incontrino territori o aree naturalmente ricche di capitale sociale, come se si trattasse di una risorsa ambientale o naturale legata imprescindibilmente ad un territorio.
Per rendere il tutto più chiaro è possibile portare alcuni esempi che possono apparire banali ma che chiariscono bene il significato del concetto. Ad esempio, una risorsa puramente immateriale come la reputazione (legata all’onestà, alle garanzie di correttezza), può costituire capitale sociale ed essere trasmessa nella rete quando uno o più individui che tu conosci garantiscono per te verso un terzo che tu non conosci, ad esempio verso un soggetto con cui devi stringere un accordo commerciale o lavorativo, o verso un istituto che ti deve concedere un credito. In questo caso la tua reputazione personale, che hai costruito nel tempo attraverso il rapporto con una o più persone nella rete, diventa capitale sociale perché ti permette di ottenere un risultato che altrimenti non avresti raggiunto, o l’avresti raggiunto con più difficoltà.
Un esempio di natura completamente diversa si ha nel caso in cui un soggetto che si trova in improvvisa difficoltà economica ed emotiva (pensiamo ad un divorzio), gode del sostegno psicologico e materiale da parte di amici o familiari. Anche in questo caso le relazioni familiari e amicali che il soggetto aveva costruito e mantenuto nel tempo (in maniera del tutto naturale) divengono capitale sociale perché offrono delle risorse (emotive e materiali) che permettono di superare il periodo difficile.
Naturalmente il discorso si fa leggermente più complesso quanto lo studio delle relazioni e delle risorse che compongo il capitale sociale è orientato a comprenderne il suo ruolo nei percorsi di sviluppo economico.
Come è possibile valorizzare il capitale sociale?
Prima di rispondere è necessario chiarire un aspetto fondamentale, e molto spesso trascurato: il capitale sociale non è sempre positivo e, come ci insegna Alejandro Portes si possono avere forme di capitale sociale legate a reti di relazione chiuse, particolaristiche o autoreferenziali, forme che limitano la libertà individuale, oppure forme di capitale sociale che portano ad un eccesso di controllo sociale sui membri o che limitano l’accesso alle persone che non fanno parte del “gruppo”. Sono piuttosto famosi gli studi sul capitale sociale della criminalità organizzata o gli studi sulle reti clientelari. In alcuni casi si tratta di risorse che transitano in reti sociali i cui obiettivi, potremmo dire, sono diretti ad aumentare il benessere dei partecipanti alle reti a discapito dei non partecipanti, in molti casi con forti esternalità negative per le comunità o la società generalmente intesa.
Perciò è necessario ragionare in maniera multidimensionale: in primo luogo bisogna tenere in considerazione tutti i possibili effetti del capitale sociale, sia quelli positivi che quelli negativi; in secondo luogo bisogna tenere in considerazione la dimensione sociale, che va dal singolo individuo fino alla società di cui questo individuo fa parte. Tenere in considerazione queste diverse dimensioni permette di porre in risalto una serie di fattori spesso trascurati o non compresi da chi studia il capitale sociale. Uno di questi riguarda, ad esempio, lo spiegare quale sia il reale rapporto tra i benefici ottenibili individualmente e i benefici pubblici: se si accetta l’ipotesi che il capitale sociale è una risorsa individuale inserita nelle reti dell’attore, il suo uso si tradurrà in un beneficio per il suo detentore, ma non è assodato che un beneficio per l’individuo si traduca in beneficio pubblico. Ad esempio, se un imprenditore sfrutta il suo capitale sociale per migliorare la performance della sua azienda si presume che la società nel suo complesso ne avrà dei benefici, ad esempio con l’aumento dell’occupazione e del gettito fiscale. Ma lo stesso soggetto può utilizzare il suo capitale sociale per ottenere vantaggi per la sua azienda, senza però produrre benefici diretti per la collettività, ad esempio sfruttando le sue reti di relazione per fare cartello con altre imprese al fine di mantenere alti i prezzi dei prodotti/servizi, e perciò ledere gli interessi dei consumatori. Discernere tra le forme di capitale sociale diviene allora fondamentale per comprenderne i benefici.
Se parliamo di processi di sviluppo economico bisognerebbe chiarire che è necessario valorizzare il capitale sociale positivo, ossia quel capitale sociale che è basato sulle reti di relazione che un individuo ha nella sua comunità ma che non limita i comportamenti innovativi e le relazioni del soggetto con altri gruppi.
In che modo il capitale sociale è in grado di stimolare percorsi virtuosi di sviluppo locale?
Per quanto riguarda il contesto italiano ed europeo è stata rivolta una crescente attenzione ai processi che portano all’accrescimento o alla riduzione dello stock di capitale sociale nei diversi contesti territoriali, al fine di individuare modalità di intervento su tale dotazione, modalità che possano contribuire ad attivare processi di sviluppo locale. Nel nostro paese il dibattito ha riguardato numerosi strumenti di promozione dello sviluppo, che assumono il principio secondo cui sarebbe possibile produrre forme di valorizzazione intenzionale del capitale sociale attraverso dispositivi artificiali, strumenti programmatori volti a favorire percorsi di sviluppo locale, esplicitamente o implicitamente, per utilizzare un termine più che abusato, bottom-up, incentrati sui concetti di rete, di coesione territoriale, di sistema locale, insomma del «fare insieme» (Patti territoriali, Pit, Gal, Gac ecc.). L’idea di fondo è quella di stimolare le comunità locali attraverso la mobilitazione sociale e la concertazione tra attori, con l’obiettivo di far interiorizzare la logica collaborativa, accrescendo così il capitale sociale utile allo sviluppo.
Anche se la questione della “valutazione delle policy” in Italia sta emergendo lentamente e con difficoltà, ci sono studi che evidenziano, da differenti punti di vista, che i risultati di questi strumenti sono stati, per usare un eufemismo, ambigui, se non in molti casi, fallimentari.
Qui voglio citare una bellissima frase di imprenditore agricolo durante un’intervista sul ruolo dei “contratti di rete”: «prima di sposarci ci dobbiamo fidanzare!», l’imprenditore intendeva, in modo molto diretto, che è normale fare rete con dei partner che già conosci e stimi, mentre è difficile o impossibile collaborare con altre imprese di cui non si sa niente, con cui non si ha un minimo rapporto di fiducia, a meno che non ci sia un terzo attore, un intermediario super partes che conosca entrambi e che possa, a suo modo garantire per entrambi. E qui rispondo alla domanda: a mio avviso il capitale sociale è in grado di stimolare percorsi di sviluppo locale in due situazioni: quando vengono stimolate le reti di cooperazioni preesistenti tra gli attori, che in molti casi sono reti informali, e queste reti vengono indirizzate verso collaborazioni più strutturate e con obiettivi chiari di medio e lungo periodo. Se stiamo nel campo dell’agroalimentare un caso che potremmo citare è quello della nascita delle “organizzazioni di produttori” in un territorio, ma anche quello dei “contratti di rete”. Il secondo caso, sicuramente più complesso, è quello in cui l’intermediazione di un soggetto “altro” (molto spesso un attore istituzionale) diviene quasi fondamentale e riesce a mettere in contatto e a far conoscere soggetti che prima non si conoscevano, che non avevano mai collaborato e che potrebbero avere interesse ad attivare una collaborazione. In questo caso un esempio potrebbe essere quello di un marchio di qualità del territorio, che da un certo punto di vista “obbliga” gli aderenti al marchio ad avere degli standard di qualità elevati previsti dal disciplinare. Da un altro punto di vista mette in contatto tutte le imprese aderenti, in maniera diretta attraverso la partecipazione ad attività comuni, in maniera indiretta attraverso la partecipazione ad un progetto che mira ad elevare gli standard qualitativi della produzione nel territorio, creando obbiettivi condivisi e duraturi. Detto in altri termini permette e stimola gli aderenti a ragionare in termini di “sviluppo locale” del territorio, cioè permette di inserire l’azione del singolo in un contesto di ragionamento più ampio e condiviso. Le policy, o gli strumenti, che si pongono l’obiettivo di incentivare processi di sviluppo locale sono inevitabilmente legate alla capacità di creare rete tra gli attori sociali, cittadini, operatori culturali, attori istituzionali locali ma soprattutto attori economici.
In che modo la social network analysis può essere utile per l’analisi del capitale sociale?
Il concetto di capitale sociale, pur essendo il sostrato teorico di costruzione nonché l’obiettivo ultimo di molte “politiche di rete”, proprio a causa della sua omnicomprensiva e più volte criticata vaghezza concettuale, ha generato forti difficoltà dal punto di vista della sua misurazione. Molte politiche di rete hanno e hanno avuto l’obiettivo dell’incentivazione del capitale sociale senza avere degli strumenti chiari che permettessero la sua misurazione. La questione è tutt’altro che irrilevante e oltre a riguardare il dibattito accademico entra soprattutto in merito alla sostanza e alla rilevanza degli strumenti di policy sopra richiamati, ai loro obiettivi, alla loro applicabilità, al loro finanziamento e rifinanziamento a lungo termine. Detto in altri termini, riguarda la possibilità di valutare gli effetti di quelle policy in un determinato spazio territoriale, e perciò la loro efficacia.
Venendo incontro a questi diversi stimoli, nel volume io mi pongo un obiettivo di natura sia teorica che metodologica: dimostrare che le tecniche messe a disposizione dalla social network analysis forniscono, da un lato, gli strumenti utili per misurare la dotazione di capitale sociale dei singoli, dall’altro forniscono gli strumenti per analizzare gli effetti dell’azione di creazione di capitale sociale e i meccanismi di creazione di reti tra gli attori economici da parte di un soggetto istituzionale intermediario.
Se, come già detto, per capitale sociale intendiamo l’insieme di risorse che transitano nelle reti di relazione dei soggetti, la social network analysis risulta lo strumento più adatto sia per misurare queste risorse, che per valutare la struttura delle reti. Da questo punto di vista, la SNA è uno strumento fondamentale per evitare utilizzi metaforici del concetto di rete e per dare corpo e sostanza ai fenomeni: aiuta a comprendere e semplificare le forme, le strutture e il contenuto delle relazioni tra gli attori sociali, e renderle facilmente interpretabili tramite gli strumenti dell’analisi dei grafi e delle matrici, che da una parte forniscono un utile e affascinante supporto grafico all’analisi, dall’altra offrono una serie fondamentale di misure di rete e di strumenti quantitativi che permettono un’analisi chiara e comparabile.
Nel volume cerco di spiegare utilità della social network analysis per lo studio del capitale sociale portando due esempi concreti. Il primo caso studio proposto riguarda l’analisi dei personal networks di imprenditori operanti in due aree specifiche, una urbana e una rurale, in termini territorialmente e temporalmente comparativi. L’analisi evidenzia l’importanza dell’analisi dei reticoli personali per lo studio del comportamento imprenditoriale socialmente situato: il capitale sociale, inteso come risorse materiali e immateriali che transitano nel reticolo, funziona da intermediario tra la rete di relazioni e le opportunità, che si configurano come possibilità di finanziamento, innovazioni o nuove prospettive di mercato, e che possono portare a migliori risultati di performance e redditività. L’utilizzo della social network analysis, declinata nell’approccio dell’ego-network, permette di dare la corretta rilevanza alla relazione tra rete professionale dell’imprenditore e capacità di miglioramento della performance economica dell’impresa, partendo dall’analisi delle relazioni sociali e delle reti che forniscono le risorse in esse radicate.
Il secondo caso che presento si concentra sull’analisi e sulla valutazione di uno specifico caso di politica di rete, ossia una policy volutamente e intenzionalmente diretta alla creazione di reti tra soggetti economici operanti in un determinato territorio. Si tratta di un tipico caso in cui ad un soggetto mediatore o intermediatore sono attribuiti compiti di costruzione di azioni «pubbliche» che devono stimolare e incoraggiare forme di collaborazione e cooperazione tra soggetti privati, volte anche a stimolare la fiducia. L’obiettivo è comprendere come alcune attività portate avanti da attori istituzionali possano incidere sulla possibilità che gli operatori economici hanno di entrare in contatto e relazione tra loro, perciò di accedere a nuovi canali di capitale sociale contenuti in strutture di reti prima assenti, e con ciò, riuscire ad identificare quegli attori che fungono da hub, da stimolo e catalizzatori delle risorse interne. In questo caso l’utilizzo della social network analysis ha permesso di valutare la capacità dell’azione di policy di raggiungere soggetti settorialmente e territorialmente distinti; comprendere le relazioni che si sono create tra i soggetti; valutare la presenza di soggetti privati o di attori collettivi più attivi (e/o più attivabili) nella creazione di reti a livello locale; individuare la mancanza di attori economici appartenenti a categorie ritenute rilevanti per il territorio e infine, valutare la presenza di forme di capitale sociale negativo ad esempio date da operatori economici che partecipano alla reti esclusivamente per opportunismo e/o solo dietro l’aspettativa di un rientro economico certo sotto forma di incentivi.
Nel complesso ritengo che le possibilità analitiche fornite dall’approccio della social network analysis per lo studio del capitale sociale siano ampie e, da molti punti di vista, ancora da sfruttare.