“I Gracchi. Quando la politica finisce in tragedia” di Natale Barca

Dott. Natale Barca, Lei è autore del libro I Gracchi. Quando la politica finisce in tragedia, edito da L’Erma di Bretschneider: quale importanza rivestono nella storia di Roma i fratelli Tiberio Sempronio e Gaio Sempronio Gracco?
I Gracchi. Quando la politica finisce in tragedia, Natale BarcaI Gracchi nacquero e vissero nel Periodo della Tarda Repubblica, tra il 163 e il 122 a.C.. Discendevano da una famiglia senatoria e consolare, dunque appartenevano alla cerchia più alta della nobiltà, la crème de la crème della società romana. Erano istruiti e colti, e possedevano una spiccata attitudine alla comunicazione applicata alla politica, ma avevano un carattere diverso. Dopo avere combattuto come ufficiali dell’esercito in servizio di leva in Nord Africa (Tiberio) e in Spagna (Gaio), divennero magistrati: prima questore e poi tribuno della plebe. Volevano cambiare il modo di distribuzione della ricchezza e del potere all’interno della società, a favore dei ceti subalterni e a danno della nobiltà. La loro azione politica si scontrò con l’opposizione del Senato. Morirono di morte violenta in costanza di mandato e in circostanze altamente drammatiche assieme a molti altri cittadini romani. Con il passare del tempo, dopo la loro morte, divennero un simbolo: una fede e una bandiera per la plebe di basso ceto, la parte più numerosa, ma anche la più svantaggiata e bistrattata della società; un esempio per quegli uomini politici che volevano sottrarre il popolo minuto all’emarginazione sociale e allo sfruttamento economico, per altruismo o convenienza personale. Gli anni dei Gracchi sono oggi considerati come un periodo di svolta epocale nella storia di Roma e del suo imperium, tanto che si parla di essi come dell’“età graccana”.

Cosa significò per la vita pubblica di Roma l’ “età graccana”?
Il popolo romano era l’insieme dei possessori della cittadinanza romana; non ne facevano parte perciò gli stranieri e gli schiavi, che, assieme ai primi, formavano la popolazione dello Stato. Esso si divideva in due classi sociali: il patriziato e la plebe. Il patriziato era formato dai discendenti delle famiglie che avevano formato il Senato nell’età monarchica, 753-509 a.C.). Era la nobiltà di sangue e faceva parte dell’ordine senatorio, senza esaurirlo, perchè quest’ultimo era formato anche da famiglie di plebei arricchiti. La plebe era formata dagli equites — i plebei arricchiti, o neo-ricchi, in pratica la borghesia imprenditoriale —, dai proletarii e dagli humiliores — i lavoratori manuali —, e dai capite censes, i nullatenenti. I proletari, gli humiliores e i capite censes formavano la plebe di basso ceto. Il tribunato della plebe poteva essere rivestito solo da plebei arricchiti, non perchè fosse riservato per legge a questo ceto sociale, ma perchè un plebeo di basso ceto non avrebbe mai potuto sostenere le spese della campagna elettorale, che erano elevatissime. Il tribunato della plebe era una magistratura nata per tutelare gli interessi della plebe. Di solito, però, i neo-ricchi, come mentalità e comportamenti, tendevano a distanziarsi dalla plebe di basso ceto e ad avvicinarsi piuttosto al patriziato, tanto più se appartenevano a famiglie senatorie, o a famiglie senatorie e consolari (i Gracchi facevano eccezione). Date queste promesse, è agevole comprendere come il tribunato della plebe possa essere stato per molti anni un docile strumento in mano del Senato — una delle istituzioni politiche della res publica, un collegio di magistrati e di ex-magistrati, il fulcro della nobiltà —, che se ne serviva per controllare la plebe di basso ceto. Poi alcuni tribuni della plebe, più sensibili dei loro colleghi alle necessità del popolo minuto, assunsero delle iniziative legislative che andavano contro gli interessi della nobiltà. Ebbe inizio un movimento di deriva del tribunato della plebe dal Senato, che aveva l’effetto di una progressiva erosione del primato politico di questa istituzione. Nell’ “età graccana” quel moto subì un’accelerazione. Il Senato reagì con ferocia, si verificarono episodi di violenza politica, i Gracchi furono uccisi assieme a molti altri cittadini romani, i loro sostenitori furono incarcerati e giustiziati. Tutto questo causò uno shock all’intera comunità dei cittadini, sia perchè i tribuni della plebe erano magistrati sacrosanti e inviolabili, e la loro uccisione costituiva un crimine e un sacrilegio al tempo stesso (infrangeva lo stato di armonia che doveva sussistere tra il popolo romano e i suoi dèi, cosiddetto pax deorum), sia perchè, guardando al futuro, si vedeva nero. Una delle conseguenze, forse la più grave, fu la divisione del popolo romano in due partes: quella degli optimates e quella dei populares. In seguito le partes non cessarono di contrapporsi, rendendosi protagoniste di lotte di fazione e di guerre civili, che s’intrecciavano a guerre esterne. Una sequenza di tragedie collettive che sembrava interminabile squassò la società e lo Stato. I protagonisti principali della vita pubblica di quel periodo (133/122-27 a.C.) furono Marco Tullio Cicerone, Gaio Mario, Lucio Cornelio Silla, Gaio Giulio Cesare, Marco Emilio Lepido, Quinto Sertorio, Lucio Sergio Catilina, Gneo Pompeo Magno, Marco Licinio Crasso, Publio Clodio Pulcro, Marco Antonio, Gaio Ottavio Turino. Quest’ultimo fu adottato da Giulio Cesare, pontefice massimo, triumviro, console, conquistatore delle Gallie, trionfatore, dittatore a vita; e, in ossequio alle regole dell’onomastica romana, cambiò il proprio nome in Gaio Giulio Cesare Ottaviano. La Lunga Notte della res publica si concluse con la definitiva vittoria militare di Cesare Ottaviano (Battaglia di Azio, 31 a.C.). Seguì una modifica costituzionale, che consisteva nel passaggio dalla formula del governo di pochi a quella del governo di uno solo (27 a.C.). Ottaviano divenne l’augustus e questo segnò la fine della res publica e l’inizio del Principato. In definitiva, per concludere, l’“età graccana” vide l’ingresso “dei pugnali nel Foro” e introdusse un periodo di instabilità politica, che doveva rivelarsi lungo e tormentato, e avere effetti sconvolgenti, come la rottura dell’ordinamento costituzionale e la crisi del sistema politico. Durò poco, ma cambiò il corso della storia di Roma e del suo imperium.

Quali innovazioni introdussero i due nel tribunato?
La res publica era un’originale forma di governo dello Stato, che consisteva in un mix di monarchia, oligarchia e democrazia. La monarchia era rappresentata dai consoli, l’oligarchia dal Senato, la democrazia dal popolo riunito in assemblea. I consoli dirigevano lo Stato-apparato e le forze armate con l’ausilio di una serie numerosa di altri magistrati. Il Senato si occupava di politica estera e presiedeva all’amministrazione dello Stato. Le assemblee popolari facevano le leggi. La divisione dei poteri tra gli organi costituzionali faceva sì che il sistema politico si mantenesse sostanzialmente in equilibrio. Tiberio Gracco, grazie al suo carisma, instaurò una relazione diretta, non tradizionale, con il popolo minuto, ricevendo da quest’ultimo un forte appoggio prima per essere eletto e poi per introdurre nell’ordinamento una riforma agraria. Nell’ottica di Tiberio, quella riforma avrebbe rivitalizzato la piccola proprietà contadina, allentato la pressione demografica sulla Capitale, ridotto l’area della povertà, ripristinato un flusso di coscritti di portata sufficiente a soddisfare i bisogni del reclutamento militare. Ne avrebbero beneficiato tanto gli ex-coltivatori diretti e gli ex-lavoratori della terra rovinati dalla concorrenza dei latifondisti (grandi proprietari terrieri), quanto la città di Roma, che sarebbe diventata meno affollata e più sicura; ma anche l’esercito e la marina da guerra, che avrebbero potuto combattere le loro guerre con maggiore efficienza ed efficacia. Il progetto di Tiberio fu contrastato dal Senato, perchè i membri di questo (non più di trecento) erano spesso dei latifondisti e temevano di essere danneggiati dalla riforma. Un collega di Tiberio, il tribuno della plebe Marco Ottavio — un uomo di paglia del Senato, pure lui un latifondista — pose il veto; questo impediva che il popolo riunito n assemblea potesse votare la riforma. Poichè Ottavio non recedeva dalla sua posizione, nonostante le pressioni, Tiberio sostenne che la scelta del suo collega era contraria agli interessi della plebe e che il popolo riunito in assemblea, così come lo aveva eletto, poteva rimuoverlo dalla carica, in base alla teoria politica della sovranità popolare, che identificava la fonte di legittimazione del potere con il popolo. L’assemblea destituì Ottavio e subito dopo approvò la riforma agraria. In seguito Gaio Sempronio Gracco innovò a sua volta il tribunato della plebe, nel senso che attribuì alla propria azione politica una finalità che andava al di là della tutela degli interessi del popolo minuto, estendendosi al riassetto dello Stato. Le proposte di legge più importanti di Gaio Gracco miravano infatti a redistribuire il potere politico, con un ridimensionamento del Senato e la valorizzazione della borghesia imprenditoriale.

Quali vicende segnarono la vita e l’attività politica dei due fratelli?
Tiberio maturò precocemente un’esperienza bellica, arruolandosi a 17 anni nell’esercito di suo cugino e cognato Publio Cornelio Scipione Emiliano, operativo sul fronte della III Guerra Punica (149-146 a.C.). Egli si distinse nei combattimenti e fu decorato al valor militare per essere stato il primo soldato romano a saltare da una torre mobile sulle mura di fortificazione di Cartagine, durante l’attacco finale alla città assediata. In seguito, durante la sua questura, Tiberio diede un’ulteriore prova delle sue qualità, negoziando con successo la pace con i celtiberi su incarico del console Gaio Ostilio Mancino. La sua azione ebbe l’effetto di sottrarre a una morte sicura l’intera armata consolare, ventimila uomini. Senonchè il Senato di Roma non ratificò la pace conclusa, poichè la considerava come un cedimento al nemico e un episodio di vigliaccheria che disonorava l’esercito. La vicenda si concluse con l’individuazione in Ostilio Mancino dell’unico responsabile dell’inadempimento dell’accordo. L’ex-console passò dei momenti difficili, ma riuscì a cavarsela e fu riabilitato. In seguito Tiberio fu eletto al tribunato della plebe e promosse la sua riforma agraria. L’iniziativa era appoggiata da un club di alte personalità della politica e del diritto, e rispecchiava l’influenza dello stoicismo sulla politica romana. Il Senato vi si oppose. Quando Ottavio fu rimosso dalla carica, quel collegio intravvide nell’operazione l’affermazione di un’ideologia e di un metodo che avrebbe potuto fare — rispettivamente — delle assemblee popolari il baricentro del potere e di Tiberio l’ago della bilancia delle scelte politiche (perché controllava le assemblee popolari che facevano più leggi). In un crescendo di toni e di polemiche, Tiberio fu accusato di avere operato uno strappo senza precedenti all’ordinamento costituzionale e di volere stravolgere il sistema politico, perchè era un uomo ambizioso e voleva farsi re. L’accusa di aspirare alla tirannide era micidiale, perchè, a Roma, fin dalla cacciata di Tarquinio Il Superbo (535-509), settimo e ultimo re di Roma, nessuno accettava neanche l’idea di un ritorno della monarchia. Ne aveva già fatto le spese il nonno di Tiberio: quel Publio Cornelio Scipione l’Africano che aveva vinto la battaglia di Zama (202), episodio conclusivo della II Guerra Punica (218-202 a.C.); e che, in seguito, aveva collaborato attivamente con il fratello, Scipione l’Asiatico, nel condurre alla vittoria le armi romane contro Antioco III e la Lega Etolica (Guerra Romano-Siriaca, 192-188 a.C.). Di lì a poco Gracco rimase ucciso in un tumulto, che era stato suscitato dall’aggressione armata del popolo riunito in assemblea da parte di una turba di senatori e di loro famigliari, parenti, clienti e schiavi, capeggiata da Publio Cornelio Scipione Nasica Serapione. Quest’ultimo era il pontefice massimo, una delle cariche più alte della religione tradizionale romana. Era cugino di Gracco, ma un cugino-coltello. Fra i due non correva buon sangue. L’approvazione della riforma agraria aveva aggravato lo stato dei loro rapporti, perchè Nasica era un latifondista e temeva di dovere rinunciare a una parte delle sue terre a causa della riforma; questo lo rendeva furioso e gli faceva odiare il cugino in modo viscerale. Le vittime del tumulto furono trecento. I loro corpi non ebbero sepoltura: furono gettati per sfregio nel Tevere e scomparvero tra i flutti.

Gaio Sempronio Gracco, fratello minore di Tiberio Sempronio, esordì sulla scena pubblica durante la Guerra Numantina (143-133 a.C.). Anche lui militava in un’armata di Scipione Emiliano. Pure lui ebbe un ruolo nella presa di una città nemica: Numanzia. Quest’ultima era il centro principale della resistenza dei celtiberi. Cadde dopo un assedio e fu distrutta dalle fondamenta, come era avvenuto a Cartagine e a Corinto nel 146 a,C.. Scipione Emiliano vi entrò da vincitore, ma la trovò deserta, perché quasi tutti gli abitanti e i difensori, vedendosi perduti, avevano preferito suicidarsi piuttosto che morire d’una morte indecorosa per mano nemica o diventare schiavi. In seguito Gaio Gracco esercitò con successo il patrocinio legale e più tardi fu eletto alla questura e distaccato presso il console Lucio Aurelio Oreste, governatore della Sardinia et Corsica. La Sardinia et Corsica era una provincia scarsamente apprezzata dai magistrati romani, perché povera, malarica, disagiata, tanto che i pretori e propretori ritardavano il loro arrivo, costringendo i predecessori a lunghi soggiorni, e in qualche caso rinunciavano addirittura alla nomina. Inoltre era continuamente teatro di aspre rivolte dei nativi contro il dominio romano. Le ribellioni non erano cessate dopo il genocidio del 176, perpetrato da Tiberio Sempronio Gracco — padre dei Gracchi —, nel corso della sua attività repressiva condotta come console e governatore provinciale. Se n’erano avute di nuove nel 163 e nel 162. Come le precedenti, anche queste erano state soffocate nel sangue. All’arrivo di Gaio in Sardegna, i nativi erano di nuovo in rivolta. Gaio non disprezzava il confronto armato. Inoltre, coglieva perfettamente che trovarsi in Sardegna in quel frangente era per lui, giovane magistrato, un’occasione privilegiata per dare una prova delle sue abilità e virtù. Ma il Senato di Roma lo conosceva già, avendo osservato le sue brillanti performance nelle cause legali; e vedeva in lui un oratore giudiziario di prima classe, un trascinatore di folle e un temibile demagogo. Il collegio provò a evitare che Gaio seguisse in politica le orme del fratello, ma non vi riuscì. Gaio aveva il dono della parola, come suo fratello, forse più di suo fratello, e riusciva a voltare a suo vantaggio anche le situazioni più difficili. Dopo la questura egli divenne tribuno della plebe, superando l’opposizione della madre, Cornelia, figlia di Scipione l’Africano, che non voleva che si mettesse nei guai e facesse la stessa fine del fratello. Gaio promosse e portò all’approvazione una serie numerosa di proposte di legge che miravano a ridisegnare la mappa del potere politico. Questo scatenò la reazione del Senato, che prima si manifestò in forma surrettizia e poi in forma aperta, diretta. Anche la vicenda di Gaio ebbe un esito tragico. Il tribuno si fece uccidere da uno schiavo fedele per non cadere in mano dei suoi inseguitori dopo che una milizia aveva attaccato la folla dei suoi sostenitori, massacrandone tremila. Anche in questo caso i corpi delle vittime furono vilipesi. Cornelia ricevette il corpo del figlio privato della testa.

La vicenda della morte dei Gracchi non si concluse con la scomparsa dei due magistrati, ma ebbe un seguito nel perseguimento dei loro sostenitori da parte di un tribunale speciale: è possibile affermare che l’episodio fu uno dei primi esempi di uso politico della giustizia?
Certamente sì. La reazione del Senato alla politica dei Gracchi non si esaurì nell’eliminazione fisica dei due fratelli, ma consistette anche nella dannazione della loro memoria e nella persecuzione dei loro sostenitori. I Gracchi vennero dipinti come uomini tremendamente ambiziosi e pericolosi sovversivi, e accusati di avere introdotto la violenza nel confronto politico, di cui erano poi rimasti vittima. I loro sostenitori furono accusati di complicità in un tentativo di colpo di Stato. A migliaia furono ricercati, braccati, stanati dai loro nascondigli, incarcerati, sottoposti a un processo-farsa da parte di un tribunale speciale, appositamente istituito dal Senato, e infine giustiziati sulla pubblica piazza, impedendo loro di esercitare il diritto di appellarsi al popolo riunito in assemblea. L’accusa era falsa. La verità dei fatti era diversa dalla verità di comodo che era stata costruita e divulgata per infangare la memoria dei Gracchi. I due tribuni non erano stati dei rivoluzionari, ma dei riformatori; la loro azione politica si era sempre mantenuta sui binari della legalità. Non erano ricorsi alla violenza per forzare la mano al popolo riunito in assemblea affinchè legiferasse contro la costituzione. I loro sostenitori si erano limitati a reagire a un’aggressione armata, per difendersi. Nè Tiberio né Gaio avevano partecipato alla rissa. Ma l’accusa di sovversione politica era funzionale alla damnatio memoriae dei Gracchi, attraverso la quale il Senato voleva contrastare l’insorgenza di un culto eroico dei due fratelli. Causò la morte di molti innocenti, snaturò la Giustizia, ponendola al servizio di una politica miope, falsa e meschina, ma non raggiunse lo scopo.

Quali sono le fonti primarie sui Gracchi?
Sono Plutarco, Le Vite Parallele, Vite di Tiberio e Gaio Gracco, e Appiano, Guerre civili, I.1-20. Entrambe sono distanti rispetto agli eventi narrati, tanto in senso cronologico, quanto in senso ideologico e politico. Plutarco e Appiano erano sudditi di lingua greca dell’impero romano, vissero nel periodo apogeico della storia di questo impero, che era un’epoca di pace; e riflettevano criticamente sulle fonti a loro disposizione con una mentalità diversa da quella dell’epoca dei fatti considerati. Vanno inoltre ricordati alcuni frammenti di Diodoro Siculo, che probabilmente si rifanno alle Storie dopo Polibio di Posidonio di Rodi. Putroppo l’opera storico-biografica di Gaio Sempronio Gracco è andata perduta.

Laureato in Scienze Politiche, Natale Barca è stato Visiting Scholar Researcher alla University of California, Berkeley-Ancient History and Mediterranean Archaeology, e Academic Visitor all’Institute of Classical Studies, University of London. È membro della Roman Society, Londra. Le sue pubblicazioni più recenti (I Gracchi, 2019; Gaio Mario, 2017; Sangue chiama sangue, 2015; Corruption in Ancient Rome, 2013) riguardano la storia politica di Roma dai Gracchi alla morte di Silla, e la corruzione nelle sue varie forme. Natale Barca è inoltre l’autore di Rome’s Sicilian Slave Wars, di prossima pubblicazione da parte di Pen & Sword Books, Barnsley, Gran Bretagna (Marzo 2020). Vive a Trieste.

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