“I geni invisibili della democrazia. La cultura umanistica come presidio di libertà” di Enzo Di Nuoscio

Prof. Enzo Di Nuoscio, Lei è autore del libro I geni invisibili della democrazia. La cultura umanistica come presidio di libertà, edito da Mondadori Università: perché lo studio delle scienze umane e sociali è fondamentale per la sopravvivenza stessa della democrazia?
I geni invisibili della democrazia. La cultura umanistica come presidio di libertà, Enzo Di NuoscioLe scienze umane e sociali possono svolgere una duplice funzione, vitale per la democrazia: a) sviluppare quel minimo di capacità critica, di intelligenza filologica e di autonomia di giudizio che rendono possibile l’ordine democratico; b) difendere, arricchire, rendere condiviso e adeguare alle nuove esigenze quel prezioso patrimonio di valori, conoscenze, pratiche sociali che favoriscono l’affermazione della democrazia. Senza una sufficiente “accumulazione originaria” di “risorse” quali la difesa della persona umana e la consapevolezza della fallibilità della conoscenza umana, dell’impossibilità di accedere a valori assoluti e dell’inviolabilità della coscienza individuale, sarebbe infatti pura illusione il take off di una democrazia. Per potersi affermare e per poter sopravvivere le democrazie non possono dunque fare a meno delle scienze umane e sociali, a condizione che queste ultime si mettano al servizio del pensiero critico e non delle ideologie o di presunti valori assoluti o autorità supreme, come a volte è capitato, diventando le sentinelle di questi principi che rappresentano i “geni invisibili” della democrazia, in mancanza dei quali si materializzano i “demoni visibili” dei suoi nemici. Va dunque combattuto quel diffuso e nefasto pregiudizio secondo il quale nella società del profitto e dell’innovazione tecnologica lo studio delle scienze umane fosse più una disciplina per eruditi e appassionati, che una risorsa per governare i cambiamenti continui e per difendere la democrazia. Come osservava già Albert Einstein, va detto che gli studi umanistici sono necessari anche per favorire lo sviluppo proprio di quel sapere tecnico-scientifico che ogni giorno ci offre inedite possibilità di cambiare la nostra vita e di trasformare la società e per orientarlo affinché sia un prezioso alleato e non una minaccia per la democrazia.

A quali rischi ci espone l’attuale web society e come possiamo sottrarci alla «perplessità» del cittadino digitale?
La perplessità da overinformation è una delle conseguenze inevitabili della web society, che costringe il cittadino digitale ad orientarsi in un mare magnum di informazioni che non è in grado di controllare e per le quali spesso non ha i mezzi conoscitivi per capirne il significato. Ad accentuare tale difficoltà vi è poi un fenomeno in parte connaturato con la democrazia, ma che esplode con i “nativi democratici e digitali”: l’indebolimento dell’intermediazione delle autorità epistemiche. L’aumento della complessità dei fenomeni sociali e il moltiplicarsi delle informazioni a disposizione di quasi tutti, genera una perplessità rispetto alla quale internet viene vista da molti come la soluzione, scavalcando le competenze dei soggetti socialmente preposti. L’immediata disponibilità di tante informazioni scientifiche, mediche, economiche, politiche e di qualsiasi altro genere, sviluppa la convinzione presso una non trascurabile fascia di internauti di potersi fare un’opinione in proprio, persino una diagnosi, anche su questioni molto complesse, che invece richiederebbero invece conoscenze specialistiche. Si diffonde così la pratica di un fai-da-te, alimentata dall’illusione di poter fare a meno dei pareri e delle conoscenze delle autorità epistemiche (scienziati, società scientifiche, istituzioni specializzate, intellettuali, medici, docenti, ecc.), di esperti che magari hanno dedicato una vita di studio e di lavoro a tali problemi. Si fa strada così la tentazione di una sorta di onniscienza prêt-à-porter, tanto illusoria quanto pericolosa, che diventa spesso il viatico che porta a idee false e infondate. La formazione di una mente critica mediante una buona formazione umanistica è fondamentale per combattere questo fenomeno della diffusione di false notizie, perché offre criteri di orientamento nella gestione delle informazioni. Spirito critico e autonomia di giudizio servono inoltre a combattere quella pericolosa sindrome dei nostri giorni rappresentata dalla “trappola della semplificazione”: reagire al disagio provocato dall’incapacità di comprendere la complessità del mondo digitale globalizzato, con semplificazioni dettate dalle emozioni, dall’istinto, da impulsi e sentimenti che sfuggono al controllo della ragione critica. E, perché no, anche con dogmi e ideologie sempre in bella vista sul mercato delle idee.

In che modo lo studio della filosofia educa alla democrazia?
Perché aiuta a convivere con l’incertezza senza rinunciare alla ricerca della verità, perché abitua al pluralismo delle idee, alla disputa continua, al valore della discussione critica, perché, come diceva Russell, ci fa uscire dai pregiudizi del nostro villaggio, facendoci apprezzare la diversità. Il pensiero filosofico abitua alla discussione critica continua, che favorisce il dibattito pubblico, il cuore della democrazia. Chi studia la filosofia è un po’ più vaccinato contro i presunti possessori di verità assolute, che sono pericolosi nemici della “società aperta”.

Luciano Canfora ha intitolato un suo libro dedicato al contributo della disciplina alla ricerca della verità e all’indipendenza del pensiero, Filologia e libertà: perché si può affermare che lo studio delle lingue classiche allena la mente dell’homo democraticus?
Il lavoro filologico, l’analisi critica di un testo o la traduzione soprattutto dalle lingue classiche, sviluppa un requisito fondamentale del cittadino democratico: la capacità di cogliere il senso di un testo. Se la democrazia è soprattutto, come dice Popper, “controllo del potere”, allora all’homo democraticus è richiesta la capacità critica di comprendere il senso di un qualsiasi “testo” (scritto, orale, audiovisivo, per immagini), senza la quale diventa impossibile esercitare il giudizio critico. Avere questa abilità significa possedere una autonomia intellettuale che consente di capire cosa voglia dire un discorso politico, un programma elettorale, un articolo di giornale e più in generale un qualsiasi messaggio e le tante informazioni che in vario modo ci raggiungono quotidianamente e che contribuiscono alla formazione delle nostre opinioni e delle nostre decisioni. Questa autonomia interpretativa consente al cittadino democratico di mettere a confronto posizioni diverse e argomentazioni contrapposte, e dunque di acquisire più consapevolezza nelle valutazioni e maggiore ponderazione nelle scelte. Inoltre il lavoro filologico insegna a essere liberi di interpretare qualsiasi testo e al tempo stesso a essere rigorosi nel rispettarne il significato. L’intelligenza filologica è dunque un potente antidoto da un lato contro ogni forma di manipolazione dei testi e delle informazioni, dall’altro contro il dogmatismo, contro presunti testi sacri o autorità supreme che pretendono di dispensare verità assolute, sottratte alla critica. È per questo che Luciano Canfora definisce la filologia “la più eversiva delle discipline”.

Cosa insegna ai «nativi democratici» la conoscenza storica?
Serve a combattere due diffusi e opposti atteggiamenti, pericolosi per le sorti della democrazia: a) cadere nella “trappola logica” di scambiare i difetti della democrazia per la prova del suo fallimento, come accadde tragicamente nell’Europa liberale degli anni Trenta, e come fanno coloro che invocano la “vera democrazia” e non esitano a qualificare come “falsa democrazia” o addirittura come “regime” le liberaldemocrazie in cui vivono; b) credere che, al pari di tante acquisizione che rendono la nostra vita molto più comoda di quella dei nostri padri, la democrazia sia irreversibile, uno stadio da cui non si può tornare indietro. È questa una falsa certezza di tanti “nativi democratici”, nella cui storia personale non c’è l’esperienza della guerra o della dittatura e nella cui formazione c’è poca conoscenza storica, più o meno inconsciamente convinti (come certi evoluzionisti dell’Ottocento) che la storia umana sia un’evoluzione unilineare, progressiva e irreversibile e che la democrazia sia dunque una acquisizione definitiva. Essi non sono neanche sfiorati dall’idea che “tutto è possibile”, che non c’è alcuna ineluttabile legge storica che impedisca alla democrazia di crollare, alle nostre società di tornare all’uso della forza come strumento di lotta politica. Questa falsa convinzione finisce inevitabilmente per abbassare le difese immunitarie della democrazia, autorizzando alcuni “nativi democratici” a levare anche le più spietate critiche contro le democrazie storiche in nome della “vera democrazia”. La conoscenza del passato è una potente profilassi contro questi due atteggiamenti, perché ci fa capire che le democrazie sono costruzioni storiche sempre reversibili, molto più fragili di quello che comunemente si pensa. Insegna che gli ideali democratici non vanno presi non alla lettera, perché sono principi regolativi, la cui realizzazione è una lenta “rivoluzione omeopatica”, legata ai vincoli che presentano i differenti processi storici e contesti sociali. E, come tutte le realizzazioni storiche, anche le democrazie sono imperfette, precarie e da migliorare attraverso la critica. La conoscenza storica dovrebbe insegnare a prendere sul serio l’avvertimento di Gaetano Salvemini: “sforzatevi di migliorare il purgatorio della vostra democrazia, ma badate a non cadere nell’inferno della dittatura”.

In che modo le scienze sociali combattono le tendenze degenerative della democrazia?
Il cittadino democratico deve essere intellettualmente attrezzato a gestire, dal punto di vista concettuale ed emotivo, situazioni di crisi economiche e di difficoltà sociali, alle quali ciclicamente si troverà a fare fronte nel corso della propria vita. Le scienze umane e sociali possono dotarlo di quegli adeguati anticorpi intellettuali che gli permettono di acquisire una conoscenza di base sufficiente per una elementare decodificazione di queste situazioni, in modo da evitare di cadere nella pericolosa e sempre in agguato tentazione di individuare un capro espiatorio nei momenti di difficoltà. O magari di attribuire alla democrazia responsabilità che non le appartengono. All’homo democraticus è richiesto di avere consapevolezza, che può essere aiutata dallo studio delle scienze sociali, della funzione sociale del proprio lavoro, di non farlo coincidere con il mero sostentamento materiale, di non assolutizzare il denaro, di saper collocare la ricerca del profitto e del benessere nel più ampio contesto dell’organizzazione sociale e dei valori che la tengono insieme, di sentirsi parte di una comunità, di riconoscersi reciprocamente in quanto legati da vincoli sociali e morali. Sono, questi, presupposti irrinunciabili se si vuole evitare di ridurre il problema della coesistenza ad un incontro e soprattutto a uno scontro di interessi, che metterebbe in serio pericolo la democrazia.

Come può, la cultura umanistica, garantire l’alleanza tra economia e democrazia?
Per evitare le tendenze socialmente disintegratrici della concorrenza e del mercato sono necessarie risorse etiche che il mercato stesso non è in grado di produrre. Si tratta di principi morali che sono “più importanti di tutte le leggi economiche e di tutti i principi di economia politica”, quali “autodisciplina, senso di giustizia, onestà, fairness, cavalleria, moderazione, spirito di colleganza, rispetto per la dignità umana, senso di responsabilità, correttezza, onore professionale, lealtà, costumatezza negli affari, sensibilità ai problemi della comunità” (Wilhelm Röpke). Per trasformare il mercato in uno dei pilastri della democrazia non è pertanto sufficiente l’“egoismo illuminato” dell’homo oeconomicus, ma occorre una riserva di regole morali che guidi gli attori economici e che alimenti la stessa capacità politica di definire le regole giuridiche all’interno delle quali il mercato possa dispiegare la propria capacità di autoregolazione. Favorendo una più ampia conoscenza della società e delle dinamiche economiche e istituzionali, le scienze umane e sociali possono dunque svolgere la grande funzione storica di contribuire a fortificare la cornice etico-giuridica e l’ambiente sociologico-antropologico che permettano all’economia di mercato di non degenerare e di essere invece un presidio di libertà e di solidarietà per i più svantaggiati.

In che modo la letteratura e l’arte sviluppano lo spirito democratico?
La letteratura, soprattutto la lettura dei grandi classici, rappresenta un addestramento filologico di massa, sostanzialmente alla portata di tutti. Misurarsi con un romanzo significa imparare a ricostruirne il significato rispettando l’“alterità” del testo; ad essere liberi di accettare le ipotesi interpretative con esso compatibili, ma non arbitrari al punto da ammettere quelle incompatibili. Il confronto tra libertà di interpretazione e fedeltà al testo è un esercizio permanente a cui ci sottopone la letteratura, che obbliga il lettore a diventare interprete. Un testo è sempre un’“opera aperta” a tante interpretazioni legate alla ricchezza di conoscenze dell’interprete, ma è anche “chiusa” alle ipotesi con essa inconciliabili. È un continuo oscillare tra una libera, ma non arbitraria, interpretatio lectoris e un sensus operis a cui non va fatta “violenza interpretativa”. Il buon frequentatore dei classici della letteratura è dunque un ottimo candidato per diventare un “lettore di secondo livello”, in grado di interrogarsi sul significato meno immediato di un qualsiasi testo. E a questo punto viene da chiedersi: tale salto di qualità interpretativa non è proprio quello che viene chiesto all’homo democraticus, che è chiamato in qualche modo ad essere un “cittadino di secondo livello”, in grado di collocarsi nella sfera pubblica, di comprenderla nei suoi tratti essenziali e di esercitare il controllo del potere con la propria capacità critica? Inoltre, la letteratura e l’arte rappresentano anche una preziosa occasione di libertà, non solo per chi le produce, ma anche per chi ne beneficia. Chi legge un romanzo o una poesia, chi vede un film, osserva un dipinto o ascolta un brano musicale, è chiamato a esercitare la libertà di interpretazione, di immedesimazione, di critica, di sdegno, di approvazione e di riprovazione. Libertà, appunto, di immaginare e di viaggiare in mondi possibili, e anche di rifiutare e contestare il mondo in cui vive. È una finzione che diventa anche una forma di libertà e persino di liberazione. La letteratura e l’arte sono una finzione che sviluppa il piacere della libertà. Per questo esse sono temute dai regimi i quali, ha scritto Vargas Llosa, “conoscono il rischio che possono attendersi permettendo all’immaginazione di correre lungo i libri, di quanto possa divenire sediziosa la fantasia quando il lettore si confronta con la libertà che la rende possibile e che in essa si esercita contro l’oscurantismo e la paura che lo attendono nel mondo reale”.

Enzo Di Nuoscio è professore ordinario di Filosofia della scienza all’Università del Molise e docente di Metodologia delle scienze sociali alla LUISS di Roma. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Epistemologia del dialogo (Carocci, 2011), Ermeneutica ed economia (Rubbettino, 2014); Elogio della mente critica (Laterza, 2016); The Logic of Explanation in the Social Sciences (Bardwell Press, 2018); (con D. Antiseri e F. Felice), Democrazia avvelenata (Rubbettino, 2018); (con D. Antiseri e F. Felice), Europa. Il futuro di una tradizione (LEV, 2019).

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