
Quale pluralità di generi è possibile rinvenire nell’esordio della Commedia?
L’esordio della Commedia costituisce un ottimo banco di prova per attenuare certi assunti che ci accompagnano ancora oggi nella maniera di leggere i grandi capolavori del tardo medioevo. Se c’è un autore attentissimo alla riflessione sul genere e sullo stile, quello è proprio Dante. E non solo il Dante trattatista del De vulgari eloquentia o del Convivio. Le coordinate di genere occupano un ruolo ermeneutico importantissimo nella comprensione della Commedia. Sebbene oggetto di dibattito, la scelta di utilizzare come titolo del proprio capolavoro una nozione di genere, per l’appunto la commedia, mi sembra una prova evidente della centralità di queste categorie. Come mostra Luca Marcozzi nel suo saggio, il primo canto dell’Inferno può essere letto come un vero e proprio accessus al poema, quell’introduzione che i commentatori premettevano all’opera commentata per illustrare al lettore gli argomenti e le forme della trattazione. Nelle terzine del primo canto, infatti, Dante informa narrativamente il lettore dello statuto di genere del poema, che è un genere misto, tramite un accorto uso di coordinate simboliche ed enunciative che rinviano a specifici universi narrativi: la selva, lo smarrimento, l’incontro con Virgilio, l’incipitaria prima persona (“mi ritrovai”), il riferimento al “sonno” che rimanda al genere della visio, e tanti altri elementi narrativo-simbolici. Una tale ricchezza di riferimenti non mirava a difendere una poetica della mescolanza dei generi e degli stili intesa come desiderio di trasgressione. Attraverso una lettura puntuale dei primi versi del «sacrato poema», Marcozzi mostra come Dante faccia un uso intenzionale e sapiente di una pluralità di referenti di genere – la visione, l’epica, l’exemplum, la profezia –, cercando di mettere in luce come tale pluralità potesse agire nella ricezione di un lettore contemporaneo a Dante. Si capisce così come l’uso di queste spie del genere letterario e di questi simboli sia un elemento auto-esegetico fondamentale, capace di collocare l’opera in un determinato orizzonte d’attesa e di guidare il lettore nella polisemica complessità del testo.
Quali forme assume il genere della suasoria nell’epistolografia petrarchesca?
Petrarca non è certamente un autore che la critica tende ad accostare alla tradizione pluristilistica che fa capo a Dante. Al contrario, tanto la sua concezione della poesia, teorizzata nelle opere latine, quanto la sua pratica poetica in volgare costituiscono un modello di monostilismo che, come è noto, ha conosciuto uno straordinario successo in tutta Europa. Tuttavia, se si guarda alla sua produzione epistolografica, che grazie a Petrarca assume il rango di un vero e proprio genere letterario, si trova invece una grande pluralità di registri e temi, sapientemente modulata a seconda delle diverse tipologie di destinatari e delle occasioni di scrittura. In tale varietà di situazioni enunciative la suasoria occupa ruoli diversi a seconda degli intenti dell’autore: quando scrive a sovrani e in generale a uomini di potere, la suasoria si pone degli obiettivi perlocutori di natura politica, come nel caso delle Fam., X 1 e XII, 1 a Carlo IV per esortarlo a tornare in Italia. Può poi essere rivolta ad amici e assumere finalità di natura dottrinale ed etica, come ad esempio la Fam., X 3 al fratello Gherardo, una sorta di esortazione a perseverare sulla strada che porta alla pace spirituale, oppure come le esortazioni a Neri Morando (Fam., XXI 10) o a Philippe de Cabassoles (Fam., XXII 5), scritte per spingerli a dedicarsi alla quiete o alla vita tranquilla, oppure, infine, come la Sen., III 8, nella quale Petrarca invita il medico Guglielmo da Ravenna ad abbandonare lo studio dell’eloquenza. Ma la suasoria può svolgere anche la funzione di dirimere una controversia o esortare gli amici a condotte morali più appropriate, come nel caso della Fam., XX 13 (e poi delle 14 e 15), dove l’autore propizia una riconciliazione tra gli amici Socrate e Lelio – rispettivamente il musico fiammingo Ludwig van Kempen e il politico romano Angelo Tosetti. La suasoria, che a volte si distende in veri e propri cicli di epistole, può esortare inoltre a compiere azioni di natura pratica, sia nell’ambito della politica o dell’amministrazione (accettazione o rifiuto di incarichi, prese di posizione riguardo a controversie di varia natura), come nel caso della Dispersa 39 (misc., 7) e della Fam., XIX 18, entrambe dirette a Fra Jacopo Bussolari da Pavia, compilate probabilmente per ordine dei Visconti con lo scopo di convincere il frate agostiniano a lasciare il governo della città a favore della potente famiglia milanese. Il saggio di Rigo mostra come Petrarca codifichi questo tipo di argomentazione retorica dotandola di una solida organizzazione formale ma senza mai scadere in una pedante e arida ampollosità: al contrario, la suasoria petrarchesca è uno strumento agile e articolato in svariate forme discorsive, come per esempio il discorso profetico, esemplare, o filosofico, sempre attentamente scelti e adeguati agli interlocutori, ai contesti e ai fini perseguiti.
In che modo, attraverso la parodia, Boccaccio rielabora nelle novelle del Decameron il modello dantesco?
Boccaccio è stato il più grande promotore dell’opera di Dante tra i suoi contemporanei. Oltre che fervido ammiratore dell’autore della Commedia, e questo fin dalla giovinezza che trascorse alla corte angioina di Napoli, Boccaccio ne è stato imitatore, biografo, editore ed esegeta, e ha fatto di questa sua attività un potente strumento di promozione culturale del comune di Firenze. Concentrandosi su tale ammirazione la critica ha spesso trascurato il fatto che il venerato concittadino è anche oggetto di un’importante operazione parodica da parte di Boccaccio. Attraverso una definizione più ampia e complessa di parodia, Giulia Maria Cipriani analizza le forme della parodia amorosa nel Decameron, mostrando ad esempio come il personaggio di Alatiel, protagonista della novella II, 7, sia costruito come rovesciamento parodico della Piccarda Donati di Paradiso III, e come il racconto boccacciano delle sue avventurose peregrinazioni mediterranee sia denso di riferimenti al viaggio dell’Ulisse dantesco; ma mostra anche come il personaggio di Ghismonda, la protagonista della novella IV, 1, sia costruito in dialogo con la Francesca di Inferno V. Questo contributo è importante perché supera una concezione riduttiva della parodia e permette di cogliere meglio le sfumature dell’operazione parodica, intendendola non come una svalutazione estetico-ideologica del testo parodiato, al contrario: la venerazione per Dante non ha impedito a Boccaccio di stabilire un rapporto dialogico con le sue opere, e tale rapporto implicava anche la messa in discussione di alcune scelte artistiche e il desiderio di riprenderle adattandole a nuovi gusti, nuovi progetti culturali, nuove modalità di ricezione. Ma tale operazione era strettamente legata anche al successo e all’autorità del testo parodiato – un successo e un’autorità che la parodia boccacciana non poteva e certamente non voleva intaccare.
Antonio Sotgiu, dopo la laurea in lettere all’Università Statale di Milano e la laurea magistrale in Scienze Sociali all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, ha conseguito un dottorato di ricerca in letteratura italiana medievale all’Université Sorbonne Nouvelle, nella quale ha insegnato letteratura italiana per svariati anni. Si occupa di storia del romanzo e della novella e dell’opera di Giovanni Boccaccio. Collabora attualmente con il CERLIM (Centre de Recherche sur la Littérature italienne médiévale) e con l’Università del Piemonte Orientale.